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Autore: Thewritingpenguins_    24/09/2017    0 recensioni
Brighton, East Sussex, 1823
Accanto ai campi traboccanti di coltivazioni sorge una rustica abitazione.
Qui crescono a vista d'occhio sei ragazzini, ognuno con la propria storia, passioni e desideri.
Margaret ed Heyden, due giovani incontratasi per caso e abitanti della stessa lugubre dimora, si godono la loro tenera infanzia, costellata di baci struggenti e frasi sussurrate.
Un giorno però, nel biancore del cielo invernale, l'avvento delle prime responsabilità e il senso del dovere, segnerà le vite di entrambi.
Ma ciò che il destino decide di unire non si separa così facilmente.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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la signora b. cap 1


"Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla."
- Richard Bach


Capitolo 1


Il cinguettio degli uccelli appollaiati sul balcone l’avevano improvvisamente ridestata da sonni angusti, immagini caotiche che, affollandosi nella sua mente buia, la riportavano indietro ad un passato fiorito e così stranamente familiare. Nei suoi sogni, una piccola Margaret richiamava alla mente ricordi frammentari, tornando così indietro nel tempo, alle vecchie corse a perdi fiato, agli sguardi timidi che si incrociavano durante i pasti. Il passare del tempo aveva in un qualche modo scremato le sue memorie, lasciandole solo i piccoli gesti, le frasi pronunciate senza farci troppo caso, quel bagliore e quella luminosità negli occhi di Hayden che lo aveva fatto restare bambino, quella sua tradizione nel prenderle la testa fra le mani e imprimerle un bacio sulla fronte di primo mattino, prima di scappare e correre alla miniera. Margaret si appigliava a briciole di memoria incastonate negli anfratti più remoti della sua mente e immaginava il modo distratto ed innocente in cui Hayden, durante i mesi più freddi, si leccava spesso le labbra per non avvertirne la secchezza oppure, se lo rivedeva seduto ai piedi del camino con una tazza di latte caldo e un biscotto sotto i denti. Persino i suoi ricordi profumavano, di sole, d’estate, di biscotti fatti in casa.


Margaret aprì gli occhi; dal piano inferiore provenivano odori caldi e fragranti, come quello di un tozzo di pane che aveva appena fatto il suo ingresso in cucina, l’invitante profumo speziato degli avanzi della sera precedente, o il puzzo insistente della legna arsa nel camino annerito dalla fuliggine. Margaret inspiro’ prepotentemente il lezzo di aria stantia misto al sapore di bucato proveniente dalle lenzuola fresche e confortevoli.

Poi il rumore di passi spediti su per le scale cigolanti e Margaret capì che il richiamo al dovere sarebbe presto sopraggiunto. Si voltò verso l’altra sponda di un letto ogni giorno sempre più stretto e, imboccate le coperte, si immerse nuovamente tra le coltri e desiderò sprofondare nuovamente nei suoi sogni.


Margaret sognava spesso. Anche di giorno. Sognava ad occhi aperti e agognava il fatidico giorno in cui, assorta nella miriade di lavori quotidiani, avrebbe alzato lo sguardo e avrebbe rivisto Hayden: se lo sarebbe ritrovato dinnanzi, lì, a un passo da lei, con le braccia protese in avanti e il suo vivace sorriso impresso sulle labbra carnose, pronto a stringerla tra le braccia, promettendole in un dolce sussurro che il tempo non li avrebbe mai più divisi. Eppure Margaret aveva ormai perso le speranze. Era certa che Hayden si fosse ormai dimenticato di lei, della sua adorata Marge che lo attendeva ancora a casa, la loro lontana e grigia casa. Le lettere tanto appassionate che le aveva inviato con accurata e maniacale tempestività avevano ben presto cessato di arrivare. Eppure le conservava ancora tutte: le teneva nascoste tra la federe dei cuscini oppure sotto il materasso. Erano il suo unico tesoro che l’avvicinavano al cuore di Hayden.

Un miraggio, una speranza o forse un’inutile illusione. Un po' come quando, la sera, Margaret sedeva alla finestra, lei sola ed il silenzio ad abbracciarla, e le capitava di udire un colpo di tosse o una voce familiare invocare il suo nome, e chiamarla “Marge”, assottigliando la “e” fino a farla scomparire in una “i” silenziosa. Credeva di essere diventata pazza, una Giovanna D’Arco inglese.

Margaret scosse il capo, prese una grossa boccata d’aria e fece per addormentarsi di nuovo, come sorpresa tra le braccia del Dio Morfeo, quando udì la porta aprirsi impercettibilmente.


È ora di alzarsi! “ la voce melodiosa seppure un po’ sgraziata di Lilith la percosse dalle punte dei capelli fino alle dita dei piedi. Poteva percepirne la presenza, anche a metri di distanza, ne riconosceva lo sguardo pungente e se l’immaginava con le braccia ai fianchi, in una posa di superiorità forzata e un sorriso nascosto tra le pieghe delle labbra.

Tutti, ben presto, si erano accorti del repentino cambiamento nei modi di Margaret, la sua espressione fiera e battagliera era stata eclissata da un atteggiamento più accondiscendente, quasi fatalista, che non le apparteneva e lei ne era più che consapevole.

Ancora cinque minuti… “ mugolo’ Margaret da sotto le coperte. Sapeva che le sue preghiere non si sarebbero di certo realizzate, né allora né mai, e si mise l’anima in pace: non c’era nulla che poteva contro il suo ingiusto destino e quelle odiose e interminabili routine senza sosta.

Forza! Non farmelo ripetere, sei in ritardo per la colazione! “ Due acuminate mani ossute si fecero largo tra le spesse coperte di lana grezza e il corpo affusolato di Margaret. Lilith la afferrò ad una spalla e non smise di percuoterla finché non la vide rotolare su un fianco e poggiare i piedi a terra. Le scosto’ le coperte con noncuranza e le gettò ai piedi del letto.

Margaret sentí freddo, uno spiffero di aria fresca si era intrufolato tra le caviglie e l’orlo dell'ampia veste da notte color panna sbiadito e quando finalmente decise di alzarsi, la consolazione che il freddo pungente aleggiava finalmente nell’aria, la colse impreparata.

Lilith l'aveva aiutata a indossare tre delle sue sottovesti più pesanti, due paia di calze invernali rattoppate qua e là, il suo vestito verde in spugna grezza e la pesante casacca grigia su cui era stato cucito un grembiule improvvisato con uno strofinaccio slavato. Le pettino' i lunghi capelli rossi, lisci e lucenti come l'albume di un uovo. Li lavorò con le mani, intingendo le scaltre mani callose nella folta chioma di Margaret, districando con le dita eventuali nodi. Afferrò una lunga e grande ciocca e con il pettine la stiro' in tutta la sua lunghezza.

Lilith era di certo la più turbata per le stranezze dell’amica che riconosceva a malapena: dalle prime ore del mattino alle ultime della sera Margaret sembrava un fantasma che, bofonchiando tra sé e sé, rimuginava su pensieri tutti suoi che non voleva di certo condividere con gli altri.

Una volta aveva tentato di rapirla da quel silenzioso incantesimo che la rendeva prigioniera per parlarle e garantirle un briciolo di supporto pieno di affetto che la giovane provava nei confronti dell'amica che conosceva da anni, ma Margaret era fredda, scostante. Non desiderava essere toccata da nessuno.

Un pomeriggio, mentre Margaret si recava sul retro per stendere il bucato fresco di giornata, Lilith le aveva dato una mano ad issare le lenzuola sul filo per la biancheria.

Io e gli altri vorremmo sapere se va tutto bene, Marge.” La cuffietta bianca che copriva in parte il volto longilineo di Margaret si voltò di scatto, scoprendo un paio di folte ciglia e due occhi increspati dall’apatia più totale. “Non chiamarmi a quel modo! Quante volte devo ripeterlo!?” I raggi del sole pomeridiano sbattevano sulla facciata della casa facendola sembrare di un grigio meno spento del solito, le finestre spalancate assomigliavano da fuori a piccole porte nere che se attraversate avrebbero condotto a luoghi lontani e ancora più assolati di quello. Margaret sistemò il lenzuolo spiegazzato sul filo e dopo qualche secondo di silenzio rispose alla domanda. “Certo che sto bene.” Il tono piatto e impalpabile della sua voce fece venire i brividi a Lilith che -


Lilith fu sorpresa da un lontano ricordo che senza preavviso le tornò alla mente. Sentì il bisogno di fermarsi e assaporare quella visione.

Lei appoggiata sullo stipite della porta di casa. Era magra e aveva i capelli arruffati dal vento, le guance scarne e le mani dietro la schiena mentre guardava Margaret e Hayden giocare assieme a Mark e alla più piccola Caroline: era estate anche in quel ricordo e il Sign. Durk era andato in visita ad una fiera di paese vicino Brighton con un amico della sua locanda preferita.

Hayden aveva da poco iniziato a lavorare alla miniera e Margaret sembrava così piccina in quel ricordo. Le urla rumorose dei giochi in cortile, le corse e le scampagnate, il soave riso gracchiante dei bambini che le riecheggiava nella mente sembrava trasmetterle un calore che era sicura non sarebbe più tornato, un passato ormai distante.

Eppure se Lilith si fosse concentrata, sarebbe riuscita ancora a sentire il profumo dolciastro e selvatico dell'erba appena tagliata in lontananza, le sferzate di vento caldo che non facevano altro che aumentare l'afa di quella giornata, il verso stridulo dei gabbiani che dal mare si alzavano in volo per sfrecciare sopra le loro teste e dirigersi in posti nascosti allo sguardo umano. -


Voglio solo che tu sappia che, per qualsiasi cosa, io sono qui per te. Mark e Caroline ti pensano e sono in pena per te...” Una volta tornata alla realtà, Lilith sussurrò queste parola con l'immagine della piccola Marge ancora impressa negli occhi lucidi. “E’ dura per tutti.”

Lo so, Lilith.” Margaret si limitò a pronunciare queste parole con un sorriso di sbieco impresso sulle labbra, poi si sistemò il corpetto compresso tra le vesti, afferrò l’enorme cesta vuota del bucato e si avviò verso l’ingresso di casa.



Abbandonata la camera da letto e le soffici coltri, Margaret si diresse in camera del Sign. Durk, che si era già allontanato dall'abitazione dopo aver sbattuto bruscamente la porta e aver svegliato la maggior parte degli abitanti della casa. Afferrò dal penultimo cassetto del comò traballante un paio di guanti e si avviò al piano inferiore non prima di aver allacciato gli stivaletti logori e dall’odore antico che ogni inverno sfoderava dalla soffitta con felicità.

Percorse le scale cigolanti di casa con estrema e meticolosa lentezza per non rischiare di inciampare nella lunga sottogonna dell’abito poi, quando raggiunse la cucina, tirò un respiro nel vedere Mark, il petto imberbe nascosto dall’ampia camicia bianca, la cintura pendente lungo un fianco e i pantaloni leggermente calati sulle natiche, che appoggiava una tazza di thè caldo sul mobiletto di legno per poi asciugare un piatto, probabilmente quello utilizzato da Durk, dopo averlo lavato nel catino d'acqua lasciato pieno da Caroline la sera prima.


Una volta Mark aveva provato a baciarla, ne era certa. Era accaduto nell'aia, dove Margaret era solita recarsi subito dopo pranzo: scendeva giù in cortile e andava a controllare le galline e gli animali giù nel retro. Mark si trovava ad arare la terra dei campi poco più in là, quando urlo' il suo nome e le fece cenno di raggiungerlo.

Margaret, il cesto con le uova sottobraccio e una mano a tenersi la cuffietta sul capo, gli andò incontro ridente e spensierata ma solo quando si trovò a pochi metri di distanza, si accorse di una piccola palla di pelo color delle arance, una matassa screziata e dalle striature opache che si dimenava tra un paio di braccia nude e muscolose.

"Guarda cosa ho trovato!" Il ragazzo lo teneva per la collottola mentre osservava incantato con i grandi occhi scuri quella piccola creatura sofferente. Margaret, che aveva il cuore dolce e soffice come il burro, lo pregò con voce languida: "Posso accarezzarlo?" Sul volto scuro di Mark si formò un ghigno saccente “Puoi accarezzarlo, soltanto se prima mi dai un bacio!" Margaret arrossì di tutto punto, nascondendo il volto dietro al cesto in vimini che stringeva avidamente tra le braccia tremanti. "Mark, smettila di scherzare!" gli aveva detto, indignata e un po' offesa. Mark lo faceva sempre, era più forte di lui e non poteva resisterle. Così non perdeva mai occasione per tentare di rubare un bacio, seppur insulso, alla tenera Margaret oppure alla più seriosa e impavida Lilith, un bacio sulla guancia era tutto quello che riusciva a strappare alla più giovinetta Caroline.

Tenendo il gatto dietro la schiena, le si avvicinò di soppiatto tutto gonfio e di rimpetto, si protese in avanti e con la bocca corrucciata piegò le labbra in una smorfia di soddisfazione. Margaret si sentí afferrare il cestino che stringeva in mano e quasi non perse l'equilibrio quando i suoi stivaletti neri sprofondarono nella terra umida e morbida. Il gitano la teneva per un polso e la guardava con occhi teneri e un espressione che Margaret non credeva potesse appartenergli. Non era la prima volta che baciava un ragazzo e di certo Mark non era brutto come gli altri ragazzi del contado, piuttosto, le era sempre sembrato un fascio di muscoli ben piazzati, con la pelle caramellata dal sole e i capelli neri e sbarazzini. Aveva qualche anno in più di Margaret eppure non sembrava dimostrarli: Mark era alto e malgrado i suoi vent'anni, aveva i lineamenti di un uomo di trenta e sembrava già maturo, con il pizzetto sotto il labbro inferiore e un rado filo di barba sotto il naso e vicino le basette ricciolute.

"Sto scherzando, Maggie!" Le aveva infine ululato ad un orecchio, provocandole uno spasmo involontario. Il gattino era finito tra le sue braccia e Mark era tornato ad arare la sua amata terra bruna. La ragazza era rimasta lì, allibita e un pò sconcertata, finché il gatto non le aveva morso il dorso di una mano per darsela a gambe. Anche Margaret era tornata ai suoi doveri giù all'aia, con lo sguardo basso e pensoso.


Ora Margaret lo guardava e se lo immaginava proprio com’era quel giorno. Un paio di pantaloni larghi e scuciti e una maglia di cotone legata in vita. Il petto glabro e lucido e un ciuffetto di peli scuri tra il ventre piatto e la fibbia della cintura. Mark non sembrava ricordarsi di quella volta, quella volta nell’aia, quando un semplice gesto aveva fatto tornare a galla sentimenti e sensazioni che Margaret pensava avesse dimenticato e ricacciato per sempre nella ruota della dimenticanza. Non sopportava l'idea che Mark le ricordasse, seppur lontanamente, il suo caro Hayden: Margaret, aveva come la sensazione che gli anni le stessero sfuggendo di mano e i giorni, volati uno dopo l’altro, erano trascorsi come coperti da un alone grigiastro che con il passare dei mesi le aveva annebbiato anche i ricordi più cari.

I mesi successivi alla partenza di Hayden, Margaret, assorta in un mondo tutto suo, aveva richiamato a sè tutte le forze che possedeva così da trascinarsi in un perpetuo e fragile ricordo che rievocava vagamente in lei, un riso compiacente di bambino e due occhi verdi e grossi come due chicci d’uva. Ma con il passare del tempo, quell'immagine dai colori nitidi che nella sua mente si era impressa sotto il nome di Hayden, si andava a mano a mano sbiadendo in un pallore indefinito e dai bordi smussati.

Mark stava lentamente prendendo il posto dei ricordi felici trascorsi con Hayden e lo aveva fatto subito, quel mattino, quella volta nell’aia, quando l'aveva chiamata giù al campo. Ed era stato come se Margaret si fosse ridestata da un lungo sogno e d'un tratto il suo corpo si fosse rianimato e riempito di nuova linfa.


Margaret era ancora lì, nascosta dietro lo stipite della porta, con le mani incrociate al petto. Mark non sembrava essersi accorto della sua presenza così si avvicinò lentamente, camminando in punta di piedi, e quando fu abbastanza vicina, allungò un paio di dita tremolanti e gli fece il solletico alle braccia.

AH!-!” Mark, la voce stridula e la sua espressione di puro spavento mista alla meraviglia, ondeggiava tutto e si dimenava come un’anguilla nella speranza di liberarsi delle piccole mani della giovane che fra le risa continuava a stuzzicarlo. Con le lacrime agli occhi, il ragazzo si voltò e, sovrastandola di un paio di spanne, afferrò improvvisamente Margaret per le braccia che, con il volto arrossato dal piacere e le guance alte e colme di risa, sembrava più piccola del solito, con il fazzoletto bianco legato intorno al capo e la fronte bassa e opalescente. I due si ritrovarono ben presto a pochi centimetri di distanza, entrambi con il fiatone per lo sforzo. “Buongiorno anche a te!”

Mark si stava preparando per uscire e Margaret l'aveva afferrato per mano e l'aveva stretta con insistenza. "Marge?" Il ragazzo aveva fissato i suoi occhi scarlatti con insistenza finché non la vide muovere le labbra, all'unisono con le sue folte sopracciglia effemminate. “Oggi vado giù in città, ti va di accompagnarmi?” In un giorno così inospitale, Margaret non era di certo dell’umore giusto per avventurarsi sola tra gli sconosciuti.

Ma certo che ho voglia di accompagnarti!” Una vena sottile quanto un filo d'erba si stagliava sulla parte destra della sua fronte alta e squadrata: ogni volta che qualcosa non andava, quella venuzza saltava fuori, in risalto su di un volto mulatto e dai lineamenti gitani. Margaret sorrise all’evidente premura e gli sfiorò una guancia ricoperta dalla barba corta ed ispida che le pizzicava sempre la pelle ma che le piaceva così tanto. Ora Mark era più alto di lei e teneva sempre le mani dietro la schiena, come fanno i vecchi. Il suo passo spavaldo le ricordava quello del Signor Durk quando rientrava a casa ubriaco e altero.

Vuoi del thé caldo?” Mark era sempre il solito gigante buono e buffone che amava ascoltare i problemi degli altri con devozione ed un fervore tali da risultare spesso invadente e assai scortese. “Sì, grazie Mark.” La ragazza sedette a tavola dove qualche avanzo dei biscotti preparati il giorno prima da Lilith giaceva in un piatto di porcellana screziata. Mark si ripresentò qualche minuto dopo con una tazza fumante in entrambe le mani, le porse quella piena e le intimò di fare attenzione. “Scotta.” Margaret addentò un biscotto alla cannella indurito e sorseggiò qualche boccata di thé. Mark, dall’alto della sua posizione, guardava la ragazza seduta al suo fianco e disse qualcosa.

Mi hanno preso a lavorare nei campi, qui vicino. La paga non è un granché, ma almeno non dovrò sporcarmi troppo le mani o restare lontano da casa. Inoltre, potrò contribuire alle spese e Durk non mi vocerà contro dicendo che sono il solito nullafacente...” La ragazza fece una risatina sommessa dato il tono buffo in cui Mark aveva pronunciato quella frase.

Quando inizi?”

Domani, non è lontano, posso andare a piedi…”


Dopo aver terminato la colazione e aver salutato Lilith, Elizabeth e Caroline che si erano svegliate da poco, i due si prepararono per uscire in città.

Lilith aveva scritto su un pezzo di carta giallastro alcune cibarie da recuperare al mercato: quattro zucchine, una busta di patate, un cestino di mele, della scorza di arancia, della farina, un pugno di zucchero, due bottiglie di latte, un cavolo e una manciata di asparagi.



°°°


Margaret e Mark arrivarono in centro senza troppi problemi, il vento gelido che proveniva da nord ad accoglierli e a spingerli l’uno contro l’altra in cerca di un po' di calore. La siccità dell’estate precedente aveva ridotto le coltivazioni che costeggiavano la periferia di Brighton a sterpaglie sfilacciate che ricoprivano un terreno frammentato e costellato da crepe sorte nei mesi di magra. Sebbene Settembre avesse portato con sé inondazioni e piogge, rimarginare il danno era stato tuttavia assai arduo, quasi quanto rimarginare le ferite nel cuore di Margaret.


Margaret stava camminando lungo la strada, a ridosso della facciata di una lunga serie di piccole case a schiera quando una folata di vento sollevò le gonne di alcune signore dall'altro lato della strada, ciò malgrado il piacevole tepore emanato dagli ultimi raggi di un sole di fine Ottobre. Margaret non potè non lanciare un’occhiata alle enormi ceste di bucato e abiti ammassati ai loro piedi e dall'odore particolarmente rancido. Poco più avanti un’anziana signora dal naso aquilino e le labbra nascoste dalle pieghe del tempo, scansava le foglie dall’angusto cortile di fronte casa. Sopra di lei, un alberello spoglio se ne stava ritto e impavido. Ora che ci pensava, quell'anno le foglie erano cadute prima del solito: un giorno si sentì il boato del vento e le foglie autunnali caddero dagli alberi, senza rumore, e una ad una, le foglie ormai vecchie, si staccarono dal proprio ramo. Ne caddero di ogni forma e di ogni colore, danzarono suadenti e sospinte dal vento precipitarono al suolo, sull’asfalto dei marciapiedi e delle piazze per lasciarsi calpestare da chiunque. Quelle foglie dall’aura sgraziata che, con i loro bordi rovinati e il manto ingiallito dal tempo, erano state spettatrici delle disavventure dei passanti che, assorti, le calpestavano con noncuranza.

Il tempo avanzava e l'autunno stava per cedere il passo all'inverno: Margaret aveva sempre amato l’inverno, la neve e il camino accogliente che scoppiettava ad ogni ora del giorno, il profumo di biscotti croccanti alla cannella provenienti dalle vetrine dei negozi di dolciumi, le coperte e il Natale, la familiarità degli ambienti che riscaldava anche con il tempo più rigido. Eppure, il freddo e i primi fiocchi di neve che scendevano come lacrime da un cielo spento, le avrebbero ricordato inevitabilmente l’ultima vivida passeggiata in riva al mare con Hayden. L’ultimo giorno della sua vita mortale.


Margaret camminava svelta, un piede dopo l'altro e un piccolo borsello stretto sotto braccio. Dovevano recarsi ai Piers, era lì che era solita elemosinare. Lì le vie gremivano di passanti a tutte le ore del giorno e non vi era negozio od osteria in cui Margaret non sarebbe riuscita a scucire anche un solo penny dalle tasche di un signorotto qualsiasi, oppure da un prete benestante. Solo le donne evitavano lo sguardo di Margaret, magari cambiavano strada oppure, se erano in gruppo, stringendosi l'una sotto il braccio dell'altra, fingevano di essere troppo indaffarate a ciarlare delle mansioni di casa oppure dell'ultimo ballo in maschera per potersi accorgere di lei, seduta sul ciglio della strada, la mantellina stretta attorno al collo e il visino volutamente sporco e intristito.


La luce pallida del primo mattino faceva capolino oltre i tetti, rispecchiandosi sulle vetrate polverose dei pub e dei negozi di seconda mano e più si addentravano nel dedalo di viottole strette e ingiallite dal fetido odore di pipí di cani e gatti, più il netto dislivello sociale tra cittadini appartenenti a classi sociali diverse si palesava agli occhi vispi di Margaret e a quelli un po' più stanchi di Mark.

Raggiunto il bivio che conduce al mercato portuale, i due vennero sopraffatti da immagini e colori suggestivi. I dolci profumi caldi di una panetteria appena aperta, la soave essenza della frutta e della verdura poggiata sul bancone; tra gli innumerevoli contadini dalla pelle bruciata dal sole e i capelli radi sul capo, Margaret riconosceva il profumo di morbide vesti appartenenti ad alcuni signori in giacca e cravatta, seduti ad una caffetteria; il sapore acetoso della colonia indossata da un paio di anziani banchieri panciuti che discutevano allegramente di azioni, tasse e prestiti; oppure l’aroma fruttato del talco indossato da una dama di passaggio con la sua piccola corte di servi e dame alle spalle. Margaret respirava a pieni polmoni tutto quel ben di Dio.

Ogni mercoledì mattina la piazza della città era ricoperta da banchetti improvvisati da vecchie cassette di legno, sacchi e tendoni nei quali si poteva trovare di tutto: carni, verdure, frutta, caramelle, farina, cioccolato, pane, caffè. La piazza pullulava sempre di gente: da un lato, Margaret intravedeva il bancone del pesce, quello degli oli e delle spezie, e infine il bancone della carne. Dei grossi omoni dalle carnagioni scure come la pece e i loro figli, urlavano pregando i passanti di soffermarsi a dare un’occhiata alla merce esposta.

Buongiorno Margaret! “ La voce roca del signor Smith, il fruttivendolo all’angolo della piazza del mercato, agitava una mano grossa e nodosa in direzione di Margaret, intimandola ad avvicinarsi. Con la barba incolta ed ispida e l’aspetto più di un orso bruno che di un uomo, Jacob Smith le rivolse un grande sorriso stretto tra i baffi riccioluti e i lunghi denti giallastri.

Con un cenno del capo Margaret era sgattaiolata fuori dalla visuale del suo impossibile pretendente, lanciandosi in un dedalo di viottole e sentieri dettati dalle nerborute gambe di mercanti e donne di mezza età e le gambe consumate dei tavoli dei banchi.

Mark afferrò Margaret sotto braccio, atteggiandosi come un nobile signorotto e si avviò verso il banco della frutta e quando furono in sua prossimità, allungo' il braccio per afferrare una grossa mela verde e succulenta poggiata sul bancone della frutta. “Tieni” Con una mano cedette la mela a Margaret, poi si affrettò a lasciare qualche spicciolo. “Grazie, e tornate a trovarci!” La voce ovattata di una piccola e anziana signora dagli occhi azzurri si fece largo tra lo scalpiccio dei passanti, mentre le figure di Margaret e Mark si allontanavano inghiottite tra la folla.

La pelle liscia e lucida del frutto profumato ora scivolava tra le dita di Margaret, che amava intravedersi nel riflesso della luce sulla superficie delle mele.

Poggiando la mela al petto, ne strofino' la buccia sul grembiule poi spalancò la bocca e ne addento' un succoso pezzo. Il rumore della polpa che scrocchiava tra i denti e il sapore acidulo del frutto verde fece sorridere di gusto Margaret che, con la pancia un pò più piena, si incamminava in direzione dei Piers, i moli balneari.

Lì si trovava l'angolo di città più all'avanguardia di tutta Brighton: negozi di alta moda, pasticcerie e ristoranti di straordinaria qualità, attrazioni, banche e gioiellerie. Quella era la Brighton che si affaccia sul mare, quella dei ricchi, dei nobili corrotti e dalle tasche ricolme di frottole.

Margaret amava recarsi lì è ascoltare il gremito della gente, annusarne i profumi, le essenze che quei abiti lussuosi spandevano per tutta la via. Alle volte, sognava di indossare un abito come quelli indossati dalle Signore altolocate: pizzi e merletti ovunque, nastri e fiocchi, penne e perle di ogni tipo. Ogni qual volta ne avesse avuto la possibilità, Margaret semplicemente adorava osservare e studiare le persone che la circondavano. Ne imprimeva il ricordo, l'essenza nella memoria e non le scordava più. Quando Margaret si accucciava in un angolo, prostata a terra oppure in piedi con le braccia dietro la schiena, non guardava quasi mai in faccia quei pochi clienti che le lasciavano qualche penny nelle tasche del grembiule oppure sul sottile straccio grigio che usava per sedersi.

Pochi le rivolgevano la parola e quando lo facevano a Margaret si chiudeva il rubinetto dei pensieri e non riusciva mai ad esprimere la propria gratitudine ai passanti.

La sera dopo il tramonto, molti erano gli uomini che l'avevano scambiata per una prostituta. Allora le lasciavano un penny sulle gambe, poi magari le sfioravano una guancia e infine finivano palpandole un seno oppure una natica. Margaret si lasciava toccare, sicché la fame era troppa per poter rifiutare un penny. Non le dispiaceva, anzi, delle volte, quando il benefattore era un uomo di bell'aspetto o di garbo gentile, Margaret tentava la sorte con un bacio su una guancia oppure una carezza delicata.

Un uomo, una volta, dopo averla portata in un vicolo buio e appartato, l'aveva spinta spalle al muro contro la fredda parete di una palazzina diroccata. L'uomo premeva il duro bacino contro quello morbido di Margaret che poteva riconoscerne l'evidente attrazione fisica attraverso il tessuto della gonna. L'immagine di Caroline, schiacciata tra la dura pietra della cantina e il tanfo selvaggio del figlio dello stalliere, le tornarono' in mente con la potenza di una secchiata gelida.

"M-mi dispiace, ma ora devo proprio andare..." Aveva infine sussurrato, spingendo via l'uomo con entrambe le mani sul suo petto largo. Lo guardo' con occhi grandi e languidi, nella speranza di poter tornare a casa il prima possibile. "Dove credi di andare, dolcezza?!" Ma Margaret era già lontana. Quella volta Margaret aveva stimato di morire e che il suo cuore le sarebbe balzato via dal petto.

Fermo, seduto in un angolo, un lustra scarpe, un giovinetto di tenera età dagli abiti larghi e consunti, i capelli biondi e le guance annerite. Accanto a lui era poggiata una minuscola valigetta in pelle nera, una di quelle con il manico argentato e gli intarsi incavati. Mentre un ubriaco sedeva sul portico di una casa abbandonata, una madre matura e grassoccia, le guance paffute e i capelli sporchi di farina, affacciata al davanzale di una palazzina di sei metri, puniva il figlioletto per le azioni sbagliate. Il bambino piangeva e si dimenava, un rivolo di sangue scendeva copiosamente da un ginocchio emaciato e le sue urla si spandevano per tutta la città.


Una volta anche il signor Durk aveva picchiato così forte Caroline da farle uscire sangue dal naso: quella volta Margaret avrebbe preferito scomparire e dissolversi nel cielo di Aprile, come una nuvola.

Quel giorno era rientrata presto dalla strada e, sistemata la giacca rattoppata e con le maniche troppo corte sull'appendiabiti, aveva attraversato l'androne a passi spediti. Il ticchettio degli stivaletti sul legno scricchiolante sotto di sé le ricordava ancora quanto fastidioso potesse essere indossare scarpe troppo piccole per i suoi piedi.

Si trovava ancora in corridoio quando aveva udito un rumore sommesso, una voce roca e bassa farsi largo fino all'altro lato della casa. Sporgendosi oltre la parete adiacente la cantina, sul lato opposto della cucina, Caroline, con le spalle al muro, teneva una mano premuta sulla bocca per bloccare i gemiti sconnessi e sconci che sembravano pervaderla e scoppiarle in gola. Margaret, per un millesimo di secondo, la credette malata e di dover chiamare subito il prete.

Con l'altra mano teneva alto il lembo della gonna e della sottoveste, le calze erano arrotolate all'altezza delle ginocchia e una figura mingherlina premeva con insistenza il biondo capo tra le gambe chiare di Caroline. Un lezzo di cavallo e letame: John, pensò Margaret, il figlio dello stalliere che abita dall'altro lato della strada stringeva con avidità il fondo schiena di Lilith, generando rumori insoliti tra le sue cosce morbide. Quelle cosce che, innumerevoli volte, avevano stretto quelle di Margaret in un abbraccio morbido, sotto le coperte, quando d'inverno avevano freddo e non avevano altro modo per scaldarsi.

Margaret deglutí, distolse lo sguardo e tornò in cucina con il cuore in gola. Afferrò la casacca scucita dall'appendiabiti e uscì di casa frettolosamente.

Una volta fuori, Margaret respiro’ a pieni polmoni l’aria fresca della sera, con lo sguardo rivolto al cielo stellato, poteva percepire il languido bagliore del tramonto all’orizzonte fare capolino oltre i tetti delle case. L’ultimo grillo friniva in lontananza, oltre i campi e il bosco mentre le ultime voci della sera, quelle provenienti dalle cucine e dalle tavole imbandita delle abitazioni limitrofe, andavano scemando. D’improvviso, il lamentoso chiacchiericcio di un grasso omino di mezza età, con la pancia cadente oltre la fibbia dei pantaloni e il capo stempiato sotto il basco, si fece più chiaro e Margaret distolse la sua attenzione dallo spazio sopra di sé, rivolgendola all’ubriaca figura del signor Durk.

Balbettava frottole e stringeva una bottiglia di alcool nella mano destra.

A Margaret si gelo’ il sangue nelle vene causandole un sussulto, e il pensiero della reazione del Signor Durk se avesse assistito ad un simile atto osceno che si stava consumando in cucina, le balenò in mente, creandole un nodo immaginario alla gola. Un grappolo di saliva raschiante e dal retrogusto doloroso.

Cosa ci fai fuori di casa!? “ La figura scura e larga si era arrestata a pochi metri di distanza e Margaret sperò vivamente che la sua voce rauca e dai toni maleducati fosse arrivata all’orecchio di Caroline.

Sono appena tornata, signore. “

Beh, allora vedi di filare…” “Forza! Cosa aspetti? Vai! “

Margaret giro’ i tacchi e posò la mano sul pomello della porta d’ingresso, con una lieve pressione del polso fece scattare la serratura della porta che, con un clack arrugginito, si apri verso l’interno dell’abitazione. Nella penombra della notte la casa sembrava abbandonata e una sola candela Illuminava la sala da pranzo.

Margaret cercò di distrarlo cambiando discorso. “Signore, perché non si siede? Le andrebbe un tazza di the?”, chiese nel tono più spontaneo che potesse permettersi. Il tentativo funzionò, almeno in parte: accettò di buon grado di farsi portare un bicchiere di scotch con ghiaccio. “Glielo vado a preparare subito! “ Per mesi il Signor Durk combatteva il sopraggiungere della vecchiaia con lo scotch. Stasera non sarebbe stato diverso.

Margaret entrò in cucina dove trovò Lilith comodamente seduta davanti al focolare. Immersa nei suoi pensieri, sussultò al sentire i suoi passi. Con occhi pieni di angoscia e terrore velati disse: “Fa attenzione”. Margaret non rispose.

Per raggiungere il ripostiglio delle scope, dove il Signor Durk teneva un paio di bottiglie di alcool, Margaret dovette passarle accanto. Tirò fuori lo scotch, le ripassò vicino e versò da bere in un bicchiere impolverato. Le sue mani cominciarono a sudare, mentre sentiva su di sè il peso della consapevolezza e del segreto. All’improvviso la distolse un rumore: gemiti, respiri affannati. Provenivano dal sottoscala sul retro, dove il Signor Durk non andava mai. Eppure Margaret avvertì la sua presenza ancora prima di vederlo, sentì il peso del suo sguardo piombarle addosso. Lilith, accovacciata alle sue spalle.

Si può sapere dov’è il mio scotch!?” La paura, fredda e oscura. “Dammi qua!”

Le aveva strappato il bicchiere dalle mani e il primo sorso caldo gli aveva bruciato la gola, provocandogli un attacco di tosse. Eppure, lo scotch non era riuscito a celare i sospiri e i lamenti di Caroline e John avvinghiati contro la dura parete di granito sul retro.

Il signor Durk non era rimasto molto tempo in quella posizione, che si sentì stranamente turbato. Il silenzio era interrotto soltanto dal crepitare delle fiamme e dello scoppiettare del gran ceppo nel camino; ma ecco che gli occhi del Signor Durk si fecero stranamente freddi e distanti.

Signore?” L’uomo continuava ad ignorarla, avvicinandosi passo dopo passo all’uscita sul retro della cucina. “Signore?!”

Andiamo.” Lilith si era alzata dalla sedia di paglia, incapace di terminare la frase e si era avvicinata a Margaret, le aveva stretto il braccio con veemenza poi si era volatizzata nel buio dell’androne. Quando Margaret vide il signor Durk arrestarsi, Caroline non aveva fatto in tempo a rivestirsi e John a rialzarsi dal pavimento che furioso, il Signor Durk l’aveva rincorsa e l’aveva buttata a terra, colpendola con le nocche delle dita e beccandosi un morso nella lotta. Le era balzato addosso, adirato come una bestia e Margaret aveva visto Caroline schiacciata sotto l'ingente peso di quell'omone maleodorante di birra stantia.

"Che tu sia dannata!" L'aveva afferrata per i capelli e le aveva premuto la faccia sul pavimento, maledicendo lei e quel suo dannato lavoro. Si era morso un labbro nell’imprecare e aveva incolpato lei per la sua maleducazione e mancanza di rispetto in colui che le offriva un riparo, poi l'aveva colpita ripetutamente alla testa, alla schiena e alle caviglie. Le strinse i capelli così a lungo che Margaret credette di aver sentito le radici dei capelli di Caroline staccarsi lentamente, ad una ad una. “Io ti offro un tetto sulla testa e tu, ingrata, mi porti in casa questo moccioso!?” John indietreggiò con le mani lungo il pavimento, un’espressione di puro terrore dipinta sul suo volto ancora infantile.

Quando il Signor Durk risollevo' Caroline da terra, le cinse il capo con una mano sporca e ruvida e la colpi ripetutamente in volto, scompigliandole i capelli. Le guance di Caroline, rosee per natura, andavano a fuoco e la pelle le tirava per il dolore che le era stato inflitto. “Adesso ti faccio vedere io!” Dopo aver lanciato un’ultima occhiata a John, poi a Margaret, il faccino sconvolto e lo sguardo rivolto alle assicelle di legno, Durk spinse la testa di quella povera creatura contro la pietra fredda della parete, mugugnando parole incomprensibili e senza senso. Prima sembrava incitarla per poi incolparla di essere un’ingrata e che non poteva permettersi il lusso di mantenere una lurida sgualdrina da quattro soldi in casa propria.

Caroline soffocava, con il volto schiacciato tra la fredda pietra e il corpo flaccido e grasso del Sign. Durk. John se l’era data a gambe: avrebbe preferito morire piuttosto che rimanere lì ad osservare la scena. Ad un tratto, Margaret lo vide prostrarsi e sfilare un piccolo coltello affilato dallo stivale sinistro. Margaret aveva distolto lo sguardo: sapeva cosa sarebbe successo.

"Forza! Vieni qui!" Le aveva urlato, mentre si buttava a gambe larghe su di una sedia accanto alla finestra. Caroline inizialmente si era rifiutata, lo sguardo serio e le sopracciglia corrucciate in una smorfia di puro odio, eppure erano bastate un paio di frustate alle braccia con la fibbia della cintura a farla avvicinare.

Durk le aveva liberato i capelli dalla presa della cuffietta che ora pendeva goffamente sul collo emaciato di Caroline che, urlando il nome di Dio si dimenava come una puledra impazzita. "Dio, perché mi fai questo!?" gli aveva chiesto, tra le urla. Le mani strette a pugno, Caroline sedeva cavalcioni difronte ad un omone di mezza età che la guardava, indifferente. “Perché? Perché?” Margaret tremava tutta, con le guance graffiate dalle lacrime che aveva cercato invano di trattenere e la bocca dalle labbra turgide. Con gli occhi ridotti a due fessure adornate da lunghe ciglia bagnate, Margaret scrutava la scena ma non osava alzare il capo per paura che le potesse toccare la stessa sorte: il Sign. Durk avrebbe tagliato tutti i capelli di Caroline, rendendola irriconoscibile.

Caroline continuava a sbraitare, tirando calci all’aria e pugni mancati, e pregava il Signore Onnipotente di risparmiarla, oppure di lasciarla giacere nell’abbraccio della morte. Anche lei era ormai consapevole del suo destino.

Sono io il tuo Dio, e vedi di ricordartelo!” Durk, infastidito da tutte quelle lamentele, l'aveva infine afferrata per la gola e l'aveva scaraventata a terra. Si era alzato, le aveva tenuto fermo il capo e aveva iniziato a tagliare.


Dopo quella volta, Margaret aveva avuto gli incubi ogni notte: sempre più spesso si svegliava di soprassalto, ammutoliva e si rattristava, convinta che tutto ciò fosse accaduto per colpa sua e della sua negligenza. Allora usciva dal letto, avvolta nella fine mantella di lana scura, scendeva al piano di sotto e accostando l'orecchio al legno vuoto della porticina che accoglieva la camera di Caroline, poteva ascoltare il suo respiro e i suoi singhiozzi provenire dall'altro lato del corridoio.


Ora, quelle urla gracchianti di bambino le ricordavano quelle di Caroline che qualche mese prima, in preda al panico, era corsa a nascondersi sotto il letto per paura di essere trovata e battuta ancora.


°°°


Mark e Margaret recuperarono ciò di cui avevano bisogno e una volta acquistato tutto il necessario da ogni banco uscirono dal mercato. Mark insistette per portare la maggior parte dei sacchetti, se li suddivisero in modo impari e si avviarono sulla via del ritorno. Il sole era ancora alto nel cielo pallido, nonostante Mark si fosse ripetutamente fermato nel vano tentativo di convincere Margaret a portare a casa un cucciolo di cane: avevano svoltato l’angolo quando il guaire di un bastardino dal manto bianco cosparso da macchie nere li aveva distratti. Mark continuava ad incitarlo nel seguirli e gli diede persino un nome: “Coldy” per via del clima di quel giorno e del suo manto bianco, ma il cucciolo era troppo piccolo per stare al passo e rimase ben presto indietro.

Ripreso il sentiero di casa Mark posò le carte contenenti la spesa, si fermò in direzione del mare poi chiamò Margaret. “Maggie, ti va di camminare sulla sabbia?” Il suo sorriso accattivante e i bei boccoli scuri che gli coprivano il volto parlavano da sé.

Dobbiamo rientrare Mark, e poi come facciamo a scendere con tutti questi sacchetti?”

Li lasciamo qui.” Rispose con ovvietà il ragazzo.

Sei pazzo? E se passasse qualcuno e li rubasse?”

A chi vuoi che interessino due cavoli marci e una busta di patate!?”

Lo sai che non possiamo, avanti, muoviti.” Margaret riprese a ciondolare a qualche metro di distanza, il passo svelto e i fianchi dondolanti sotto il peso delle buste.

Una volta non eri così...” Mark, immobile, aveva urlato, e l’eco della sua voce ora tuonava tra gli alberi e le ultime casupole di città.

A cosa ti riferisci?” L'espressione di Margaret passò dall'impassibile all'ostile.

Sai bene a cosa mi riferisco.” Mark era sempre stato piuttosto tenace e irremovibile nelle sue dichiarazioni.

A prima della partenza di Hayden ecco a cosa mi riferisco, al tuo modo di reagire a qualunque cosa, come se dal giorno della sua partenza non fossi più tu. Devi trovare la forza di andare avanti Marge, non è partito solo per te, anche per noi, ma noi non reagiamo come fai tu. Non è morto, è partito e non c'è bisogno che per ogni minimo fatto tu reagisca così, evitando tutto e chiudendoti in te stessa. Io conoscevo un altra Marge non questa.”

La ragazza lo fissò per qualche secondo senza dire nulla poi si voltò e si diresse a tutta velocità verso casa ignorando il fastidioso pizzicore agli occhi.


Margaret camminava lungo il sentiero che dalle porte della città attraversava gli interminabili campi e le polverose fattorie del contado. La rabbia le stava montando in petto mentre l’imbarazzo e il senso di colpevolezza la divoravano dentro. Le sue impronte, impresse nel fango denso, seguivano un percorso preciso, dal punto in cui aveva lasciato Mark queste erano divenute più sporche, pur nulla nitide, e sembrava come se Margaret si fosse improvvisamente messa a correre.

Camminava a testa bassa, con il volto coperto gran parte dall’enorme fazzoletto nero che teneva legato attorno al collo e al capo. I capelli le premevano contro la nuca e i piedi avevano cominciato a dolerle irrimediabilmente. L’aria gelida le colpiva ripetutamente caviglie e polsi scoperti, mentre Margaret si stringeva nella fine mantellina che portava sulle spalle.

Margaret voleva raggiungere casa il prima possibile e correre sembrava l’unica soluzione che le avrebbe permesso di schiarirsi un poco le idee; eppure la sua corsa, almeno da quanto si poteva evincere dalle tracce fangose, non era durata a lungo, non fino a casa.

D’un tratto, le tracce degli stivaletti si confondevano, si moltiplicavano come se Margaret avesse deciso di fermarsi e sbattere ripetutamente i piedi al suolo, poi si trascinavano a terra, dove ormai le tracce erano indistinguibili dalla melma scura della pista.

Durante quella che pensava sarebbe stata una corsa liberatoria Margaret fu sorpresa da un incontro totalmente casuale.

La ragazza correva con il viso basso e gli occhi socchiusi: conosceva a memoria il percorso e l'incrocio dei sentieri al crocevia del bosco significava che mancavano un centinaio di metri all'abitazione.

Le lacrime che continuavano a scendere silenziose impattavano con l'aria fredda, i solchi incisi da queste erano gelate sul viso di Margaret che si sforzava di non pensare, percependo la fanghiglia melmosa risucchiarle gli stivalali. Lampi di una vita passata, a volte più limpidi altre volte più confusi, e di momenti vissuti assieme, con Hayden, con Mark e tutti gli altri bambini le tornavano in mente, la colpivano come schiaffi in pieno volto.

Improvvisamente, durante la sua corsa febbricitante e concitata, Margaret cadde dentro una pozzanghera, le ginocchia impattarono con il suolo e il morbido tessuto del vestito si intinse di melma scura. Nel cadere il busto le si spostò in avanti e per impedire di cadere faccia a terra Margaret protese istintivamente con le mani, che si ricoprirono subito di fango.

Aveva freddo e per di più l’orlo della gonna era infradiciato di acqua, tutto per via della cesta in vimini che teneva con entrambe le mani: un pezzo di pane, un paio di patate e una forma di formaggio ora annegavano annacquati nell’acqua torbida. Avrebbero fatto la giornata e forse avrebbero sfamato tutti loro per l’intera settimana, se solo Margaret non fosse caduta.

Costretta ad arrestare la sua corsa, la ragazza rimase per qualche istante lì, immobile, fissando il suolo e l’enorme pozza in cui era caduta quando, d’un tratto, il nitrito di un paio di cavalli da soma la costrinse a voltarsi: a pochi passi da lei, in fondo al viale, una carrozza laccata nei colori del rosso e del nero sfrecciava lungo il sentiero, innalzando polvere e terra miste assieme.

Margaret pensò che se una carrozza doveva passare per quella strada non c'era tempo da perdere, doveva alzarsi e levare i tacchi altrimenti l’avrebbero di certo investita. A Marge venne spontaneo domandarsi per quale motivo non aveva udito prima il cavallo o le ruote procedere sul sentiero.

Decise di accantonare questo interrogativo e con decisione si alzò, un poco indolenzita, estrasse le mani dal suolo e cercando di non sporcarsi ulteriormente l’abito insudiciato si alzò e si diede una rapida sistemata, rendendosi velocemente conto che togliere quell'enorme macchia di fango sul vestito non sarebbe stata un impresa semplice.

Mentre la carrozza si avvicinava, con la coda dell’occhio, Margaret riuscì a coglierne alcuni dettagli: come gli intarsi color argento che decoravano il mezzo donandogli un aria raffinata, “sarà di un nobile importante” pensò Margaret.

Era trainata da due cavalli bianchi ed imponenti, due albini con un paio di macchie grigie sul muso: sembravano cavalli giovani e in ottima salute, che di certo un povero contadino squattrinato non si sarebbe mai potuto permettere.

Il cocchiere era un uomo di mezza età con la barba bianca ed ispida, portava un cappello di un verde intonato alla giacca, un verde intenso e spento. Il suo naso era grosso e violaceo, in netto contrasto con il bianco cadaverico del viso svigorito, portava un paio di guanti marroni e un lungo foulard nero che sobbalzava sospinto dei leggeri saltelli del mezzo.

Quando la carrozza fu abbastanza vicina da udire il vento sferzarle il volto, Margaret si fece piccola piccola e si spostò a lato della strada quando un bussare energico proveniente dall'interno dell’abitacolo si accompagnò ad una voce calda e forte: “Ferma!”

I cavalli e la carrozza si arrestarono qualche metro più avanti e la tendina della portiera si scostò. “Signorina!” Una mano guantata di bianco e una voce maschile fecero capolino dal finestrino appannato. Margaret ci mise qualche istante per rendersi conto che quella voce si rivolgeva a lei e che i suoi piedi avevano preso a muoversi in sua direzione.

Le ruote parevano enormi agli occhi di Margaret: due meccanismi perfetti che procedevano imperterriti, anch’esse erano nere sebbene all’esterno della ruota si intravedesse una buona quantità di fango fresco.

I cavalli sbuffarono adirati, soffiando nuvole di vapore, mentre Margaret si avvicinava. Quando raggiunse la portiera, la ragazza riconobbe uno stemma impresso nel legno della porticina, aveva al centro un leone ma la giovane non seppe identificarlo.

Dalla tendina vellutata di un rosso vinaccia, emerse un giovane dal sorriso beffardo, un naso dalla perfetta concezione greca: sopra un paio di labbra ben fatte, si trovava una folta peluria ben curata e arricciolata ai lati e i capelli, lunghi e amaranti, sebbene fossero legati dietro la nuca, ora erano sparsi in morbide ciocche lucenti che gli ricadevano sul viso. Con una mano, questi li scostò senza farci troppo caso rivelando un paio di occhi ambrati che scrutavano Margaret, giocosi. Sembrava si stessero burlando di lei.

Il giovane uomo si avvicinò a Margaret protendendosi attraverso la finestrella.

Cosa ci fa una bella ragazza come voi, tutta sola, in questo posto?” Margaret alzò lo sguardo a quelle parole. L'aveva definita bella e subito. Il giovane rideva allegro mostrando un sorriso all'apparenza innocente ma che nascondeva il sincero desiderio di burlarsi di lei.

Ecco, i-io…” Margaret arricciò il naso. Era consapevole di avere un aspetto orribile, con le vesti imbrattate di fango e l’orlo della gonna incrostata di terra.

Non temete, la prossima volta che ci incontreremo avrete una risposta, ne sono certo. Arrivederci...” Lo sconosciuto chiuse la tendina e la carrozza ripartì alla velocità con cui era arrivata lasciandosi Margaret indietro, sul ciglio della strada. Per qualche misterioso motivo il sorriso insolente di quello sconosciuto le rimase impresso così come la luce grigia di quella giornata asettica sembrava rendere il mondo attorno a lei un quadro freddo e abbandonato dall'autore.

   
 
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