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Autore: Symphonia    28/09/2017    1 recensioni
Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!
Numero parole: 2076
Prompt: 27. Sindrome dell’arto fantasma
Traccia: 28. A era un atleta, finché non ha avuto un incidente in cui ha perso un arto. Torna a fare sport con una protesi.
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"Corre.
Continua a correre, a fantasticare, a gioire per ogni punto fatto; e si maledice, si arrabbia, si scoccia per ogni out. Perde qualche pallone e cade per terra e sente le voci dei compagni chiedergli se sta bene. Il tutto accompagnato da un immancabile “IDIOTA!” in sottofondo.
Un’illusione. E ogni volta che immaginerà uno scenario che lo farà sentire vivo, normale, come se nulla fosse cambiato, sarà solo una pugnalata al cuore. L’ennesima.
Seguirà un’essesima - sempre più disperata - rincorsa; un ennesimo - sempre più stanco - salto; e un ennesimo - sempre più fittizio - pallone. Ciò può regalargli solo l’ennesimo triste sorriso."
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| Future!What if? | Angst | Hinata Shoyo, Tobio Kageyama |
Genere: Angst, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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SHOYO

    Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!
     Numero parole: 2076
     Prompt: 27. Sindrome dell’arto fantasma
     Traccia: 28. A era un atleta, finché non ha avuto un incidente in cui ha perso un arto. Torna a fare sport con una protesi.

 

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    Uno stridio metallico rieccheggia nell’aria, accompagnando la porta. Le tende delle finestre alte vengono aperte, lasciando che i raggi del sole illuminino il campo disegnato sul parquet. Ci si potrebbe specchiare, per quant’è splendente. Ed è vuoto; non c’è nessuno, tranne per il solito muro intrecciato, che i kōhai si sono dimenticati di rimettere a posto la sera prima.
    Si staglia imponente, la rete; delle mani già pronte ad apparire dall’altra parte.

    Davanti ai miei occhi, si para un muro altissimo. Se lo superassi, che paesaggio vedrei? E come si presenterebbe?

    Vuoto.
    Non
 spira neanche un refolo di vento. È una giornata estiva afosa, ma il campo silenziosamente aspetta che qualcuno lo riempia con una corsa, con dei salti, dei palleggi, delle chiamate.
    “Mia! Mia!” sembra quasi sussurare il riflesso sul pavimento.
    E finalmente, qualcosa rieccheggia nella palestra vuota. Un rumore di passi. Sempre più veloci, velocissimi. Una corsa. Lo stridio della gomma delle scarpe che aderisce al terreno.

    E poi —

 

 

    E poi...

 

 

    E poi arriva. Di soppiatto, come un fulmine a ciel sereno, quel salto altissimo in grado di oscurare il sole e di spargere un’ombra di stupore sul terreno avversario.
    Volava.

    In una divisa nera come il piumaggio di un corvo, volava. Si stagliava come un uccello a caccia della sua preda.

    La vista della vetta... Da solo non potrei mai vederla.

    Dura un attimo, quell’elevazione in aria. Un attimo per vedere la vetta. Un attimo per vedere dove schiacciare. Aspetta che gli arrivi il passaggio.
    È lì, la palla. È lì e si fermerà giusto un istante, per permettergli la schiacciata migliore.

    Un attimo.

    In quell’attimo vede la direzione che prenderà la palla, come suonerà all’impatto col terreno, quanta potenza vi sarà impressa. Quel pallone - che non arriva mai - lo immagina, lo può vedere, lo rende felice.

    Però, se non fossi da solo...

 

    Corre.
    Continua a correre, a fantasticare, a gioire per ogni punto fatto; e si maledice, si arrabbia, si scoccia per ogni out. Perde qualche pallone e cade per terra e sente le voci dei compagni chiedergli se sta bene. Il tutto accompagnato da un immancabile “IDIOTA!” in sottofondo.

    Un’illusione. E ogni volta che immaginerà uno scenario che lo farà sentire vivo, normale, come se nulla fosse cambiato, sarà solo una pugnalata al cuore. L’ennesima.

    Seguirà un’essesima - sempre più disperata - rincorsa; un ennesimo - sempre più stanco - salto; e un ennesimo - sempre più fittizio - pallone. Ciò può regalargli solo l’ennesimo triste sorriso.

    Questo è ciò a cui Shōyō si stava lentamente imparando ad abituarsi.

 

*****

 

    Improvvisa. Una fatalità inaspettata.
    

    Conosceva quelle strade a memoria, curva per curva, discesa per discesa. Sapeva dove correre e dove rallentare. Era piacevole la brezza che gli scompigliava i capelli: ondeggiavano come la cresta del Sole.
    Quella strada l’aveva percorsa mille e mille volte nell’arco degli ultimi anni. In bici, all’alba e al tramonto, faceva quella strada ogni giorno.
Con la pioggia, il vento, la neve... Indipendetemente dall’intemperia, dalla fatica, Shōyō pedalava. Non aveva mai perso un giorno di scuola, né un allenamento. Era troppo importante.

    Importante.

   La pallavolo per lui era importante.
   Quindi, con la forza di volontà di un gigante, Shōyō saltava in sella e pedalava verso la sua amata Karasuno.
 L'ultima cosa che sentiva ogni mattina partendo da casa era: “Fa’ attenzione!”.
    Sua madre. P
reoccupata per il suo pulcino, guardava sempre quel corpo minuto, vestito di sola divisa nera e felpa gialla, prendere il volo. E ogni mattina, vedeva i suoi occhi vispi salutarla, rassicurandola.
    Giusto, doveva stare attento.
Fare attenzione mentre svoltava, attenzione alle macchine, alle pozzanghere e, ovviamente, alle persone. Fare attenzione ai segnali.

    Attenzione.

    Sinistra, destra, precedenza, stop. Ripartì tranquillo. Passò col verde... E non notò l’avvicinarsi di quel camion ballerino. Un camionista mezzo addormentato era il motivo della sua caduta rovinosa.
    Nel tumulto che seguì, ricordava solo la sensazione di un corvo dall’ala strappata.
Non si poteva ricomporre, non si poteva saldare, non poteva ricrescere: quell’ala andava amputata.

 

*****

 

    Shōyō si stava abituando a non ricevere più un passaggio. Ad abbandonare il campo. A non volare. Niente più salti, niente più vette da conquistare.
    Fine.
    Fine era l’unica parola che sembrava riempire i suoi occhi. Fine prendeva una forma liquida. Fine scivolava lentamente giù, rigandogli le guance.

    Come fa un corvo a volare senza le sue ali?

    “Lasciami correre così ancora per un po’...” sussurra, fissando il soffitto. Poi lentamente, barcollante, riprende la sua posizione: ginocchia piegate, spalle rilassate, mani pronte al bagher.
    Battuta, alzata, schiacciata. Soft block.

    “Chance ball!”

    Ed ecco che dalla sua sinistra, sbuca un pallone. Si allinea perfettamente con la sua fantasia. Crede sia uno scherzo della sua mente, eppure è lì, pronto a essere colpito. Un passaggio perfetto: il pallone sta scenendo e si fermerà nell’esatto punto dove dovrebbe esserci —

    L’arma.

    La sensazione (mancata).

    La sua prediletta.

    La
mano — che non esiste più.

    Shōyō sente solo il tonfo del pallone, seguito da un sordo stridio. Era atterrato male, il corvo senz’ala. Cerca di farsi forza sul gomito e finisce per massaggiarsi la spalla destra. Non era una brutta caduta, ma era stata imprevedibile.
    Finalmente, qualcosa di
imprevedibile.    
    “Che diavolo stai combinando?!”

    Il numero dieci della Karasuno s’irrigidisce.

    “Ti avevo detto di allenarti con la sinistra!”

    Il numero dieci della Karasuno alza leggermente la testa.

    “Stupido!”

    I suoi occhi sono inchiodati su di lui, come lo sguardo di un corvo sulla sua preda. Sembrano ammirare una figura irreale, come se tutto non stesse accadendo per davvero.

   “Hai intenzione di fissarmi ancora per molto?” chiede il ragazzo, con voce sempre più irritata.

    L’espressione si addolcisce, come uscita dalla trance. Hinata fa per alzarsi dal lato destro — per poi girarsi e fare leva sulla mano sinistra.

    “Non mi ci sono ancora abituato, Kageyama.”

    “Se continui a schiacciare come se avessi ancor—” e un attimo di esitazione ferma il suo rimprovero. È pietà, forse. “— come se avessi ancora --
quella, non ti ci abituerai mai! Devi usare la sinistra!”
    Sembra un urlo di battaglia, ma non dona nessun brivido lungo la schiena. Non ispira nessuna emozione forte. Vi è una forte amarezza nelle corde vocali di Tobio e solo una disperazione nel profondo degli occhi di Hinata.

    Sono concentrati solo su una cosa.
    Quella mano che ormai non è più rossa, non è più aperta, che non può più schiacciare né fare alcunché. Perché materialmente non è più dove dovrebbe essere. Al suo posto, entra una mano che sembra quella di un manichino.

    È proprio Tobio a porgergliela.

    “Dovresti metterla, Hinata.” dice Kageyama con un tono inusualmente compassionevole.

    Ne parla quasi come se fosse un indumento, un optional, un accessorio di una qualche utilità.
Mettere qualcosa che dovrebbe già essere parte di te. Metterlo, mentre la gente ti guarda impietosita...
    Scatta un grilletto.

    Shōyō sospira, non lo calcola: lo supera in corsa leggera. Si gira e con un sorriso melanconico, sussurra: “Mi metto in zona quattro.”

    Vuole continuare l’allenamento, il piccolo gigante.

    “Ne sei sicuro?”

    “Sì.” dice, posizionandosi.

    Il numero nove sospira, appoggia l’arto finto sul palcoscenico, dove spera non venga colpito da una qualche pallonata. Poi si prepara ad alzare per l’ex-capitano.

    Come fa un corvo a volare senza le sue ali?

    Sapevano entrambi che la risposta era una sola. Un corvo senz’ali sarebbe rimasto a terra.
    Da solo.

    Lo stormo probabilemente lo avrebbe lasciato indietro, volando verso cieli più sereni e vittoriosi.

    Se proprio l’accoppiata vincente della Karasuno doveva prendere due strade diverse, che non si sarebbero mai più incrociate, almeno doveva farlo in una maniera dignitosa. Hinata non avrebbe lasciato la squadra senza saper prima schiacciare di sinistra.

     Prima palla, alta, terzo tempo.
    “Ottima agilità.”
    Un passaggio a vuoto. La palla finisce a terra e per poco non rotola fuori dalla palestra.
    “
Un’altra... La voce di Hinata è flebile; ma chiede un’altra alzata.

    Seconda palla, precisa, secondo tempo.
   “Ottimi riflessi.”
    Troppo debole per penetrare un muro.
    “Ancora.”

     Terza palla, veloce, primo tempo.
    “Un accurato controllo del proprio corpo...”

    Hinata la manda oltre con un pallonetto.
    “DI NUOVO!”

     Quarta palla, l’impossibile alzata - l’arma che li aveva sempre fatti vincere - mezzo tempo.
    “E l’ossessione per la vittoria.”
    Finalmente, il pallone viene schiacciato con sufficiente forza da lasciare i tanto adorati segni rossi sulla mano di Shōyō.

    “Continua ad avere tutto.” pensa Kageyama, alzando la rete abbastanza da poterci passare sotto. Pigramente, va a raccogliere il pallone. Non si aspetta, al suo ritorno, di vedere un viso in lacrime. E la sua mente non può non correre verso i ricordi delle medie.
    Oltre la rete, un viso fisso sul parquet. È sotto shock. Il sintomo di una battaglia interiore che non poteva essere domata. Kageyama stava solo aspettando il momento in cui l
amico avrebbe fatto un discorso. Unesclamazione. Andava bene qualsiasi cosa, purché dimostrasse lo spirito combattivo che lo aveva sempre caratterizzato.
    Tuttavia, le parole che Hinata pronuncia deludono quelle aspettative.

    “Non sarà più lo stesso.” mormora
.
    Lo vede serrare i denti. Cercare di impedire alle lacrime di scorrere, ma non le può più fermare. L’espressione di Shōyō si contorce in una continua battaglia tra lo sfogo e la repressione dei suoi sentimenti.

    Non era poi tanto diverso dal ragazzino che
Tobio conobbe quattro anni fa. Continuava a piangere come una fontana. Ed era rimasto un sempliciotto; sbadato e ignorante in inglese come una capra.
    “Non potrò più saltare...”

    Era giusto cresciuto di un paio di centimetri, era diventato un po’ più popolare ed era riuscito a mantenere compatta la nuova reputazione della squadra. Erano riusciti ad aggiudicarsi la vittoria del torneo interscolastico. Cose poco importanti.

    “Sono un corvo che non potrà più volare, no?” chiede Shōyō, burlandosi di se stesso.

    Forse era un pelo cambiato, poteva concederglielo. Era migliorato. Eppure tutto doveva finire per uno stupido incidente.

    “Tu continuerai a volare!”

    “Da seduto?!” chiede, con una risata a spezzare il ritmo dei suoi singhiozzi.

    “Sarà diverso, ma... alzerò ancora per te, Hinata.”

    Bastava solo quello. Bastava solo quello per ottenere la sua attenzione; uno sguardo pieno di sentimenti contrastanti. Rabbia, disperazione
, riconoscenza, amicizia, tristezza.
    Malinconia.

    Gli sarebbe mancato non poter giocare più con la sua squadra, quella che lo aveva portato a crescere. A diventare un vero giocatore di pallavolo.
 Gli sarebbe mancato correre, saltare. Tuttavia, la vista della vetta non cambiava molto. Si abbassava solo di qualche centimetro — metro.
    “
Grazie, Kageyama.
    Il moro annuisce, mentre Hinata si pulisce il viso con la mano sinistra. Lo sguardo corvino lo segue, mentre il piccolo gigante raggiunge il palco situato dentro la palestra.
 Gli dà le spalle. Non lo vede di preciso, ma immagina cosa stia facendo. Le sue spalle accompagnano i suoi singulti. Sente che sta tirando su col naso.
    Hinata si volta: i suoi occhi sono ancora arrosati, le guance ancora rigate dalle lacrime. Però sta sorridendo o almeno ci prova. Era il primo passo. Il primo passo verso l
accettazione di un nuovo se stesso.
    “
Guardami, Kageyama. dice posando la mano destra sul proprio petto. Riuscirò a diventare un campione!
    In risposta, lo sguardo di Tobio si dipinge di rispetto e orgoglio.

    “
Ricordati che solo i più forti restano in campo.

 

***** 

 

    Sono sparsi un po’ dappertutto. Sulle tribune, ci sono intere file lasciate vuote, altre più riempite, compatte in un unico gruppo di persone. Le loro voci si mescolano e uniscono in diversi cori. Ed ecco che il suono grachiante dell’altoparlante zittisce i presenti. Elenca, con voce monotona, tutti i giocatori che stanno entrando in campo.

    Davanti ai miei occhi, s’innalza un muro altissimo.

    

    Sotto lo scroscio degli applausi, una sfilza di divise blu si predispone nel suo rettangolo di gioco. Un’attesa trepidante, quella degli avversari.

    Se lo superassi, che paesaggio vedrei? Potrò mai ammirarlo?

    «Annunciamo ora la formazione titolare della nazionale giapponese.» 

    La vista della vetta... Impossibile, da solo. 

    Ed ecco che entrano le divise nere. Uno dopo l’altro, prendono posizione. Siedono con unindomita compostezza, rivolti verso l’arbitro. La voglia di vincere infiamma i loro occhi. 

    Però, con l’aiuto di qualcuno...

    Insipira. Espira. La luce lo inonda, rivelando il numero della sua maglia.
    «Numero 10, Hinata Shōyō.»
    Entra scattante, una corsa decisa. Batte il cinque al suo allenatore e prende il suo posto, in zona quattro.
 

    Potrei anche riuscire a vederla.

    La palestra si accende di applausi e urla. Ormai è ora. Al fischio dell’arbitro, inizia la partita che sognava da una vita. Una finale che, fino a quel momento, viveva solo nei suoi sogni.
    O
limpiadi.

 

 

 

 

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    shoyo  N.A.: *sbuca fuori dal suo fortino copertoso*

    Hola! Ho scritto questa fanfiction per il contest Human + Prosthetic. È la prima volta che provo a trattare la tematica delle protesi, quindi... uhmmm... spero sia decente e che non sia troppo un mattone com’è scritta. E spero anche non mi siano sfuggiti troppi errori!
    All’inizio, avevo pensato a questa storia come “la ragione per cui il Piccolo Gigante sparì dalla circolazione”, ovvero che si sia messo a giocare a sitting volley o qualcosa del genere... Ma la mia mente ha detto: “MA SE CI METTESSI HINATA?!”

    Credo che semmai accadesse una cosa del genere a Hinata, si perderebbe un po’ (tanto?) il senso del suo personaggio... Tuttavia, volevo provare a immaginarmi una situazione del genere.

    Oltre a questo che dirvi, tra le curiosità... Ah sì. Il titolo è una brutta fusione del titolo della prima opening “Imagination”, il termine inglese di arto fantasma, cioè “phantom limb” e il giant deriva da *rullo di tamburi* Piccolo gigante. Grazie Capitan Ovvio.

    Detto questo, spero la storia vi sia piaciuta. Bye, bye!
~

   
 
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