Iniziativa:
Questa storia partecipa al contest “Humans +” a
cura di Fanwriter.it!
Numero parole: 2076
Prompt: 27.
Sindrome dell’arto fantasma
Traccia: 28.
A era un atleta, finché non ha avuto un incidente in cui ha
perso un arto. Torna a fare sport con una protesi.
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Uno stridio metallico rieccheggia nell’aria, accompagnando la
porta. Le tende delle finestre alte vengono aperte, lasciando che i
raggi del sole illuminino il campo disegnato sul parquet. Ci si
potrebbe specchiare, per quant’è splendente. Ed
è vuoto; non c’è nessuno, tranne per il
solito muro intrecciato, che i kōhai si sono dimenticati di rimettere a
posto la sera prima.
Si staglia imponente, la rete; delle
mani già pronte ad apparire dall’altra parte.
Davanti ai miei occhi, si para un muro
altissimo. Se lo superassi, che paesaggio vedrei? E come si
presenterebbe?
Vuoto.
Non spira neanche un
refolo di vento. È una giornata estiva afosa, ma il campo
silenziosamente aspetta che qualcuno lo riempia con una corsa, con dei
salti, dei palleggi, delle chiamate.
“Mia! Mia!” sembra quasi sussurare
il riflesso sul pavimento.
E finalmente, qualcosa rieccheggia nella
palestra vuota. Un rumore di passi. Sempre più veloci,
velocissimi. Una corsa. Lo stridio della gomma delle scarpe che
aderisce al terreno.
E poi —
E
poi...
E
poi arriva. Di soppiatto, come un fulmine a ciel sereno, quel salto
altissimo in grado di oscurare il sole e di spargere un’ombra
di stupore sul terreno avversario.
Volava.
In una divisa nera come il piumaggio di
un corvo, volava. Si stagliava come un uccello a caccia della sua preda.
La vista della vetta... Da solo non potrei mai vederla.
È lì, la palla.
È lì e si fermerà giusto un istante,
per permettergli la schiacciata migliore.
Un attimo.
In quell’attimo vede la
direzione che prenderà la palla, come suonerà
all’impatto col terreno, quanta potenza vi sarà
impressa. Quel pallone - che non arriva mai - lo immagina, lo
può vedere, lo rende felice.
Però, se non fossi da solo...
Corre.
Continua a correre, a fantasticare, a
gioire per ogni punto fatto; e si maledice, si arrabbia, si scoccia per
ogni out. Perde qualche pallone e cade per terra e sente le voci dei
compagni chiedergli se sta bene. Il tutto accompagnato da un
immancabile “IDIOTA!” in sottofondo.
Un’illusione. E ogni volta che
immaginerà uno scenario che lo farà sentire vivo,
normale, come se nulla fosse cambiato, sarà solo una
pugnalata al cuore. L’ennesima.
Seguirà un’essesima
- sempre più disperata - rincorsa; un ennesimo - sempre
più stanco - salto; e un ennesimo - sempre più
fittizio - pallone. Ciò può regalargli solo
l’ennesimo triste sorriso.
Questo è ciò a cui
Shōyō si stava lentamente imparando ad abituarsi.
*****
Improvvisa.
Conosceva quelle strade a memoria, curva per curva, discesa per
discesa. Sapeva dove correre e dove rallentare. Era piacevole la brezza che gli
scompigliava i capelli: ondeggiavano come la cresta del Sole.
Quella strada l’aveva percorsa
mille e mille volte nell’arco degli ultimi anni. In bici,
all’alba e al tramonto, faceva quella strada ogni giorno. Con la pioggia, il vento,
la neve... Indipendetemente dall’intemperia, dalla fatica,
Shōyō pedalava. Non aveva mai perso un giorno di scuola, né
un allenamento. Era troppo importante.
Importante.
Quindi, con la forza di
volontà di un gigante, Shōyō saltava in sella e pedalava
verso la sua amata Karasuno. L'ultima cosa che sentiva ogni
mattina partendo da casa era: “Fa’
attenzione!”.
Sua madre. Preoccupata per il suo pulcino,
guardava sempre quel corpo minuto, vestito di sola divisa nera e felpa
gialla, prendere il volo. E ogni mattina, vedeva i suoi occhi vispi
salutarla, rassicurandola.
Giusto, doveva stare attento. Fare attenzione mentre svoltava,
attenzione alle macchine, alle pozzanghere e, ovviamente, alle persone.
Fare attenzione ai segnali.
Nel tumulto che seguì,
ricordava solo la sensazione di un corvo dall’ala strappata. Non si poteva ricomporre, non
si poteva saldare, non poteva ricrescere: quell’ala andava
amputata.
*****
Shōyō si stava abituando a non ricevere più un passaggio. Ad
abbandonare il campo. A non volare. Niente più salti, niente
più vette da conquistare.
Fine.
Fine era l’unica parola che sembrava riempire i suoi occhi.
Fine prendeva una forma liquida. Fine scivolava lentamente
giù, rigandogli le guance.
Come fa un corvo a volare senza le sue ali?
Battuta, alzata, schiacciata. Soft block.
“Chance ball!”
Ed ecco che dalla sua sinistra, sbuca un
pallone. Si allinea perfettamente con la sua fantasia. Crede sia uno
scherzo della sua mente, eppure è lì, pronto a
essere colpito. Un passaggio perfetto: il pallone sta scenendo e si
fermerà nell’esatto punto dove dovrebbe esserci
—
L’arma.
La sensazione (mancata).
La sua prediletta.
La mano — che non
esiste più.
Shōyō sente solo il tonfo del pallone, seguito da un sordo stridio. Era
atterrato male, il corvo senz’ala. Cerca di farsi forza sul
gomito e finisce per massaggiarsi la spalla destra. Non era una brutta
caduta, ma era stata imprevedibile.
Finalmente, qualcosa di imprevedibile.
“Che diavolo stai
combinando?!”
Il numero dieci della Karasuno
s’irrigidisce.
“Ti avevo detto di allenarti
con la sinistra!”
Il numero dieci della Karasuno alza
leggermente la testa.
“Stupido!”
I suoi occhi sono inchiodati su di lui,
come lo sguardo di un corvo sulla sua preda. Sembrano ammirare una
figura irreale, come se tutto non stesse accadendo per davvero.
“Hai intenzione di fissarmi
ancora per molto?” chiede il ragazzo, con voce sempre
più irritata.
L’espressione si addolcisce,
come uscita dalla trance. Hinata fa per alzarsi dal lato destro
— per poi girarsi e fare leva sulla mano sinistra.
“Non mi ci sono ancora
abituato, Kageyama.”
“Se continui a schiacciare
come se avessi ancor—” e un attimo di esitazione
ferma il suo rimprovero. È pietà, forse.
“— come se avessi ancora -- quella, non ti ci abituerai mai! Devi
usare la sinistra!”
Sembra un urlo di battaglia, ma non dona
nessun brivido lungo la schiena. Non ispira nessuna emozione forte. Vi
è una forte amarezza nelle corde vocali di Tobio e solo una
disperazione nel profondo degli occhi di Hinata.
Sono concentrati solo su una cosa.
Quella mano che ormai non è
più rossa, non è più aperta, che non
può più schiacciare né fare
alcunché. Perché materialmente non è
più dove dovrebbe essere. Al suo posto, entra una mano che
sembra quella di un manichino.
È proprio Tobio a
porgergliela.
“Dovresti metterla,
Hinata.” dice Kageyama con un tono inusualmente
compassionevole.
Ne parla quasi come se fosse un
indumento, un optional, un accessorio di una qualche
utilità. Mettere qualcosa che dovrebbe
già essere parte di te. Metterlo, mentre la gente ti guarda
impietosita...
Scatta un grilletto.
Shōyō sospira, non lo calcola: lo supera
in corsa leggera. Si gira e con un sorriso melanconico, sussurra:
“Mi metto in zona quattro.”
Vuole continuare
l’allenamento, il piccolo gigante.
“Ne sei sicuro?”
“Sì.”
dice, posizionandosi.
Il numero nove sospira, appoggia
l’arto finto sul palcoscenico, dove spera non venga colpito
da una qualche pallonata. Poi si prepara ad alzare per
l’ex-capitano.
Come fa un corvo a volare senza le sue ali?
Da solo.
Lo stormo probabilemente lo avrebbe
lasciato indietro, volando verso cieli più sereni e
vittoriosi.
Se proprio l’accoppiata
vincente della Karasuno doveva prendere due strade diverse, che non si
sarebbero mai più incrociate, almeno doveva farlo in una
maniera dignitosa. Hinata non avrebbe lasciato la squadra senza saper
prima schiacciare di sinistra.
“Ottima agilità.”
Un passaggio a vuoto. La palla finisce a terra e per poco non rotola
fuori dalla palestra.
“Un’altra...”
Seconda palla, precisa, secondo tempo.
“Ottimi
riflessi.”
Troppo debole per penetrare un muro.
“Ancora.”
“Un accurato controllo del
proprio corpo...”
Hinata la manda oltre con un pallonetto.
“DI NUOVO!”
“E l’ossessione per la vittoria.”
Finalmente, il pallone viene schiacciato con sufficiente forza da
lasciare i tanto adorati segni rossi sulla mano di Shōyō.
Oltre la rete, un viso fisso sul
parquet. È sotto shock. Il sintomo di una battaglia
interiore che non poteva essere domata. Kageyama stava solo aspettando
il momento in cui l’amico avrebbe fatto un discorso.
Un’esclamazione. Andava bene
qualsiasi cosa, purché dimostrasse lo spirito combattivo che
lo aveva sempre caratterizzato.
Tuttavia, le parole che Hinata pronuncia
deludono quelle aspettative.
“Non sarà
più lo stesso.” mormora.
Lo vede serrare i denti. Cercare di
impedire alle lacrime di scorrere, ma non le può
più fermare. L’espressione di Shōyō si contorce in
una continua battaglia tra lo sfogo e la repressione dei suoi
sentimenti.
Non era poi tanto diverso dal ragazzino
che Tobio
conobbe quattro
anni fa. Continuava a piangere come una fontana. Ed era rimasto un
sempliciotto; sbadato e ignorante in inglese come una capra.
“Non potrò
più saltare...”
Era giusto cresciuto di un paio di
centimetri, era diventato un po’ più popolare ed
era riuscito a mantenere compatta la nuova reputazione della squadra.
Erano riusciti ad aggiudicarsi la vittoria del torneo interscolastico.
Cose poco importanti.
“Sono un corvo che non
potrà più volare, no?” chiede Shōyō,
burlandosi di se stesso.
Forse era un pelo cambiato, poteva
concederglielo. Era migliorato. Eppure tutto doveva finire per uno
stupido incidente.
“Tu continuerai a
volare!”
“Da seduto?!”
chiede, con una risata a spezzare il ritmo dei suoi singhiozzi.
“Sarà diverso,
ma... alzerò ancora per te, Hinata.”
Bastava solo quello. Bastava solo quello
per ottenere la sua attenzione; uno sguardo pieno di sentimenti
contrastanti. Rabbia, disperazione, riconoscenza, amicizia,
tristezza.
Malinconia.
Gli sarebbe mancato non poter giocare
più con la sua squadra, quella che lo aveva portato a
crescere. A diventare un vero giocatore di pallavolo. Gli sarebbe mancato
correre, saltare. Tuttavia, la vista della vetta non cambiava molto. Si
abbassava solo di qualche centimetro — metro.
“Grazie, Kageyama.”
Il moro annuisce, mentre Hinata si
pulisce il viso con la mano sinistra. Lo sguardo corvino lo segue,
mentre il piccolo gigante raggiunge il palco situato dentro la palestra. Gli dà le
spalle. Non
lo vede di preciso, ma immagina cosa stia facendo. Le sue spalle
accompagnano i suoi singulti. Sente che sta tirando su col naso.
Hinata si volta: i suoi occhi sono
ancora arrosati, le guance ancora rigate dalle lacrime. Però
sta sorridendo o almeno ci prova. Era il primo passo. Il primo passo
verso l’accettazione di un nuovo se
stesso.
“Guardami, Kageyama.” dice posando la mano destra sul proprio petto. “Riuscirò a diventare
un campione!”
In risposta, lo sguardo di Tobio si
dipinge di rispetto e orgoglio.
“Ricordati che solo i
più forti restano in campo.”
*****
Sono sparsi un po’ dappertutto. Sulle tribune, ci sono intere file
lasciate vuote, altre più riempite, compatte in un unico
gruppo di persone. Le loro voci si mescolano e uniscono in diversi cori.
Davanti ai miei occhi, s’innalza un muro altissimo.
Sotto lo scroscio degli applausi, una sfilza di divise blu si predispone nel suo rettangolo di gioco. Un’attesa trepidante, quella degli avversari.
Se lo superassi, che paesaggio vedrei? Potrò mai ammirarlo?
«Annunciamo ora la formazione titolare della nazionale giapponese.»
La vista della vetta... Impossibile, da solo.
Ed ecco che entrano le divise nere. Uno dopo l’altro, prendono posizione. Siedono con un’indomita compostezza, rivolti verso l’arbitro. La voglia di vincere infiamma i loro occhi.
Però, con l’aiuto di qualcuno...
Insipira. Espira. La luce lo inonda, rivelando il numero della sua
maglia.
«Numero 10, Hinata
Shōyō.»
Entra scattante, una corsa decisa. Batte
il cinque al suo allenatore e prende il suo posto, in zona quattro.
Potrei anche riuscire a vederla.
La palestra si accende di
applausi e urla. Ormai è ora. Al fischio
dell’arbitro, inizia la partita che sognava da una vita. Una finale che, fino a
quel momento, viveva solo nei suoi sogni.
Olimpiadi.
N.A.: *sbuca fuori dal suo fortino copertoso*
Hola! Ho scritto questa fanfiction per il contest Human + Prosthetic.
È la prima volta che provo a trattare la tematica delle
protesi, quindi... uhmmm... spero sia decente e che non sia troppo un
mattone com’è scritta. E spero anche non mi siano
sfuggiti troppi errori!
All’inizio, avevo pensato a
questa storia come “la ragione per cui il Piccolo Gigante
sparì dalla circolazione”, ovvero che si sia messo
a giocare a sitting volley o qualcosa del genere... Ma la mia mente ha
detto: “MA SE CI METTESSI HINATA?!”
Credo che semmai accadesse una cosa del
genere a Hinata, si perderebbe un po’ (tanto?) il senso del
suo personaggio... Tuttavia, volevo provare a immaginarmi una
situazione del genere.
Oltre a questo che dirvi, tra le
curiosità... Ah sì. Il titolo è una
brutta fusione del titolo della prima opening
“Imagination”, il termine inglese di arto fantasma,
cioè “phantom limb” e il giant deriva da
*rullo di tamburi* Piccolo gigante. Grazie Capitan Ovvio.
Detto questo, spero la storia vi sia
piaciuta. Bye, bye! ~