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Autore: Kosoala    30/09/2017    0 recensioni
La guerra contro Shoyo si è conclusa ma ora, per Gintoki, inizia la parte peggiore. Lo attende una battaglia contro i propri sentimenti che rischiano di risucchiarlo in un vortice di disperazione a causa di una persona che non è riuscito a salvare.
Gin faceva un cenno col volto, incrociando le gambe e tirando fuori il pacchetto di sigarette che si era comprato solo a causa sua. Ne prendeva una fra le labbra, con lo stesso movimento che faceva lui, e poi le passava a Kondo, che aveva l’accendino, quello a forma di tubetto di mayonese.
[Angst][GintokixHijikata][SadEnding]
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gintoki Sakata, Kondo Isao, Otose, Shinpachi Shimura, Toushiro Hijikata
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Spiegazioni doverose: È una What If, come da avvertimento, ambientata un paio di mesi dopo la fine della guerra con Shoyo. Come tutti sappiamo il capitano della Mimawarigumi muore nella storia originale, in questa fanfic invece lui rimane in vita ed è qualcun altro ad andarsene. So che dopo tutto il fattaccio la Shinsengumi viene sciolta invece, qua, è ancora integra sebbene nessuno è sicuro che rimarrà così per molto, stessa cosa per la Yorozuya che non se n’è ancora andata da Edo. Non ho messo Missing Moment perché è una What If, appunto, ma se pensate che debba esserci anche questo avvertimento scrivetemelo e lo aggiungerò. Il raiting è arancione a causa della pesantezza con cui vengono trattati certi argomenti. Il titolo è ripreso dalla canzone omonima dei Death Cab for Cutie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Will Follow You Into the Dark

 

 

 

 

« Buongiorno Gin-san, Kagura-chan. » Shinpachi lo ripeteva ogni mattina, sapendo che non avrebbe ricevuto risposta, tanto in quella casa nessuno si svegliava prima delle due o addirittura tre del pomeriggio. Tutti sapevano che Gintoki conduceva una vita sregolata e forse era proprio quello il motivo per cui non riusciva mai a mettere da parte nemmeno uno yen tra pachinko, alcol e donnine.

Il rumore di una porta lo sorprese mentre stava canticchiando una canzone di Otsu, voltandosi era sicuro di vedere un cliente, Sachan-san, Zenzo, un amanto qualunque ma, sicuramente, non lui. Erano solamente le otto di mattina. Ad un’occhiata veloce poteva sembrare tutto a posto ma era sicuro che c’era qualcosa che non andava; non sembrava minimamente in forma e quelle occhiaie ne erano la prova. Era stato un brutto periodo per tutti: l’assassinio dello shogun, la condanna a morte di Kondo, Hijikata. Erano passati diversi mesi ormai ma era come se il tempo si fosse fermato, almeno per Gin. Lui e Kagura continuavano ad andare in giro a fare gli Yorozuya, Kondo stalkerava sporadicamente sua sorella, Okita se n’era fatto una ragione. Gintoki no. Dormiva male, beveva tanto, parlava poco e non ne voleva sapere di lavorare. Ogni giorno si svegliava prima, prima o poi avrebbe direttamente smesso di dormire. Shinpachi non pensava che quella vicenda, per quanto pesante e con un epilogo non propriamente felice, lo avesse toccato così nel profondo.

« Giorno. » Shinpachi sentiva il bisogno di fargli un sacco di domande scomode, ma rimanevano intrappolate fra le labbra secche non appena riusciva a scorgergli quell’espressione. Era solamente un ragazzino, lui, ma era sicuro di ciò che vedeva ormai ogni giorno: quello era lo sguardo di un uomo che aveva perso. Perso in maniera devastante. Non appena formulò quel pensiero Gintoki si chiuse la porta d’entrata alle spalle senza dire un’altra parola.

 

« Ma sono le otto di mattina! Sei impazzito? » Anche Otose era spaventata dal suo modo di fare. Ultimamente non scappava quando gli chiedeva l’affitto, le diceva che avrebbe pagato e se ne andava, senza nemmeno incrociare il suo sguardo. Poi se ne veniva al suo bar di prima mattina chiedendo del sakè. Forte. Ogni volta la stessa scenetta, lei si rifiutava, almeno a parole, le sue mani si muovevano da sole non appena lo vedeva stringere le dita in un pugno doloroso e glielo chiedeva, glielo chiedeva come non le aveva mai chiesto niente prima.

« Ti prego. » Il tempo si fermava ogni volta. Gintoki la stava pregando. Lei. La vecchia, insensibile, Otose cercava gli occhi di Tama, una giovinetta che ancora non aveva capito come girava il mondo, mentre afferrava una delle sue bottiglie costose, quelle che teneva nello scaffale più alto. La robot ogni tanto ricambiava il suo sguardo con un’espressione vuota, nella maggior parte delle occasioni, però, fissava Gintoki con insistenza mentre lui si scolava il bicchiere tutto d’un fiato. In quei giorni stava alzando troppo il gomito, si faceva i primi bicchieri proprio nel suo Snack Bar e poi se lo ritrovava fuori dalla porta a vomitare anche l’anima mentre scagliava con disperazione i pugni contro il suolo, fino a farseli sanguinare. Urlava a squarciagola frasi senza connessione logica fino a svenire riverso a terra, con gli occhi lucidi. Tama, ogni sera, con estrema pazienza lo riportava a casa sua, lo lavava al meglio delle sue possibilità e gli preparava la stanza per metterlo a dormire, sperando sempre che fosse l’ultima sera. Tama ci ripensava spesso a quelle notti distruttive e ce n’era una, nella sua banca dati, che proprio non riusciva a dimenticare. Lo aveva visto ubriaco molte volte ma in quei mesi era stato strano e non sapeva spiegarsene il motivo. Solitamente giocava a pachinko, perdeva, beveva e se ne tornava a casa vomitando e ridendo. Invece sembrava stesse cercando un modo per andarsene, scappare, resettare la sua memoria per sempre. Era impossibile per Tama liberarsi del ricordo di Sakata abbandonato con la schiena poggiata contro il muro, gli occhi liquidi a causa dell’alcol, o forse non solo quello.

« Tama… sai perché gli esseri umani muoiono? » Aveva lasciato cadere il capo sulla spalla destra, un sorriso che non arrivava fino agli occhi gli deformava il volto.

« Per il deterioramento del loro corpo, le funzioni vitali si azzerano e sopraggiunge la morte, Gintoki-sama. » Non era rimasta incuriosita da quella domanda: un robot doveva essere utile agli esseri umani e se uno di loro le poneva una domanda lei rispondeva.

« No. Muoiono perché pensano che non ci sia nulla di bello nel continuare a vivere. » Quella risposta l’aveva spiazzata per un momento, soprattutto perché aveva visto lo Yorozuya passarsi la mano di fronte agli occhi, a scacciare qualcosa, qualcosa di liquido e salato. Da quella sera aveva iniziato ad analizzare a fondo i comportamenti di Gintoki e c’erano enormi discrepanze col suo stile di vita precedente, circa del 72%. Le cose che faceva erano sempre le stesse ma in maniera diversa, esagerata. Beveva alle otto di mattina, con lo sguardo perso nel vuoto e un lieve tremore alle mani che stringeva spesso in pugni, come se volesse vendicarsi di qualcosa o qualcuno.

 

C’era una persona che aveva intuito tutto, la persona da cui si recava ormai tutti i giorni. Lui era migliorato, aveva pian piano ripreso le sue attività anche se non c’era minuto della giornata in cui non ci pensasse, almeno così aveva detto allo Shiroyasha. Anche Okita era nella stessa situazione ma non l’avrebbe mai ammesso dato il loro rapporto conflittuale. Si sedevano vicini, si facevano un bicchierino e poi smettevano di bere, Gin riprendeva solo dopo essersene andato dalla Shinsengumi. C’era un luogo appartato, si mettevano lì, di fronte ad un laghetto che, probabilmente, era nato da una pozzanghera sporca. Kondo inclinava la testa di lato e lo salutava incrociando le braccia, con quella nuova cicatrice in volto che faceva ricordare ad entrambi quel minuto. Il minuto che gli faceva desiderare di essere morto.

« Shiroyasha. » Gin faceva un cenno col volto, incrociando le gambe e tirando fuori il pacchetto di sigarette che si era comprato solo a causa sua. Ne prendeva una fra le labbra, con lo stesso movimento che faceva lui, e poi le passava a Kondo, che aveva l’accendino, quello a forma di tubetto di mayonese. Si passavano di mano anche quello, cercando di rimanere il più fedeli possibile al vicecomandante, anche nello sbuffare via il fumo dalla bocca, lasciandolo incagliare nei capelli, il piccolo tubetto tossico penzoloni al lato destro della bocca.

« Chi immaginava che non sarebbe stato il fumo? » Aveva esordito una volta Kondo, spegnendo la sigaretta nel posacenere. Gintoki non gli aveva risposto, come faceva spesso d’altronde. Non era stato il fumo, se lo ricordava benissimo com’era successo. Era ciò che sognava ogni notte, risvegliandosi con la sensazione di essere ancora là, le braccia protese verso di lui, l’urlo che gli partiva dal fondo della gola mentre lui gli sorrideva. Gli sorrideva cadendo nel vuoto, chiudendo gli occhi. Scacciava l’immagine con uno dei tre bicchierini di sakè messi lì appositamente, per non impazzire. Si chiedeva cosa l’avesse spinto a fare una scelta tanto azzardata. Come aveva potuto abbandonarlo. Con un sorriso. Un maledetto sorriso che gli aveva fatto crollare il mondo addosso. Non sapeva come si fosse sentito lui ma quel momento, per Gintoki, era stato uno dei più lunghi di tutta la sua vita. Era rimasto impietrito a guardare, cercando di scattare verso di lui mentre Shinpachi lo tratteneva per la vita, urlando il suo nome, dicendogli di fermarsi forse. Il resto era confuso. Non solo il ritorno a Edo ma tutti i giorni passati, o le settimane, forse erano entrati addirittura nel secondo o terzo mese. Tutto per salvare quella testa di cazzo del capitano della Mimawarigumi. Non se lo meritava il bastardo, ci avevano combattuto contro fino alla fine e cosa aveva fatto Hijikata? L’aveva salvato, afferrandolo per la divisa all’ultimo secondo, buttandolo dentro la nave poco prima che cadesse. Non l’aveva più incrociato fortunatamente o lo Shiroyasha sapeva che l’avrebbe ammazzato. Oh sì che l’avrebbe fatto. Gli aveva portato via ciò che dava una spinta in più alle sue giornate, alla sua vita. Razionalmente sapeva che non era colpa sua ma non poteva spiegarlo alla sua anima ridotta a pezzettini. Una volta, tempo prima, addirittura prima della loro relazione clandestina, aveva detto al tabagista che se non avesse salvato quell’ex-assassino la sua anima si sarebbe spezzata. Lo aveva fatto alla fine, ma non per l’assassino. No, per il merdoso vicecomandante che lo aveva raggirato fino a farsi accettare come un amico a casa sua, poi nel suo letto. All’inizio, dopo la prima volta, Gintoki non vedeva l’ora di poterci lavorare ancora insieme, solo per vederlo, solo per respirare tutto quel fumo passivo, solo per prenderlo in giro per la sua ossessione malsana per la mayonese. Non l’aveva detto ad anima viva, ovviamente. Nessuno si era accorto di quella specie di relazione che avevano intrapreso, tra alti e bassi, con la costante paura che uno dei due ci avrebbe rimesso le penne un giorno o l’altro. Gintoki sperava, egoisticamente, di essere il primo dei due. Ne aveva viste fin troppe di morti di fronte ai suoi occhi e quella l’avrebbe distrutto. L’aveva distrutto. Solo Kondo sembrava essersi accorto di qualcosa, era sicuro che il moro non gli avesse detto nulla, probabilmente lo conosceva fin troppo bene per farsi sfuggire un particolare così importante. Era per questo che lo accoglieva con un sorriso e non gli chiedeva niente. In realtà quel paio d’ore con il capitano erano dense di silenzio ma non importava, entrambi ne avevano bisogno. Kondo per dimenticarsi dei suoi doveri e non pensare a quel futuro precario sempre più pressante e Gintoki per sfuggire agli sguardi pieni di angoscia e preoccupazione di tutti quelli che lo circondavano. Persino Sadaharu aveva smesso di mordergli la testa a sangue per poggiargli una delle sue enormi zampe sulle gambe, lasciandosi andare ad un uggiolio triste. L’avrebbe mandato a quel paese. Come tutti gli altri. Preoccuparsi per lui non sarebbe servito a nulla se non a farsi venire il sangue amaro a forza di provare a salvarlo.. Nessuno di loro l’avrebbe riportato indietro, con quella sua espressione sprezzante, con quel modo distaccato che aveva di vivere il loro legame. Nessun abbraccio, baci solo durante attività intime e poi tutto come prima. Ma gli piaceva così, erano adulti con ben altri pensieri per la testa rispetto ad una relazione piena di sdolcinatezze inutili. Ma tutte quelle cose erano entrate prepotentemente nella sua routine e liberarsene era pressoché impossibile. Forse gli sarebbero serviti anni, ma non ne era sicuro. L’unica altra persona che si era insinuata così a fondo nel suo cuore era il suo maestro. Maestro che si era rivelato essere un mostro poco tempo prima. Hijikata non sarebbe tornato, nemmeno sotto forma di demone.

Il tempo era scaduto, non se lo comunicavano in nessun modo, afferravano entrambi quel bicchierino minuscolo e lanciavano il contenuto verso il cielo, anche se era più probabile che il demoniaco vicecomandante fosse finito all’inferno, lo stesso dove era stato catapultato Gintoki. Si alzavano e si salutavano con un cenno della mano. Kondo tornava a spendere sorrisi per i suoi uomini, facendo finta che andasse tutto bene e Gintoki tornava a bere nel primo bar che trovava, ormai gli facevano credito, il suo volto abbattuto era un buon incentivo.

Lo sapeva, Gintoki, che erano tutti preoccupati per lui ma non dovevano. Non aveva senso. Si diceva spesso, logicamente, che nella sua vita aveva affrontato lutti peggiori. Quasi tutti i suoi compagni di guerra erano caduti sotto i fendenti dei nemici e la loro tecnologia avanzata. Li aveva visti combattere fino all’ultimo respiro, dare un ultimo affondo nello stomaco del nemico mentre spiravano proprio su di lui. Aveva visto la propria tomba, già fatta, sapendo che nessuno avrebbe potuto seppellirlo perché era un demone e sarebbe rimasto solamente lui, sul campo di battaglia, a combattere fino a sputare sangue.

Ogni volta che varcava la soglia di un bar non poteva fare a meno di ricordare com’era successo. Una bevuta insieme, qualche insulto, una competizione su chi reggeva di più ed erano finiti a letto insieme, ad aggrapparsi l’uno all’altro come se non ci fosse altro nell’universo che potesse essere importante. Gintoki era già finito in una situazione simile con un uomo, una volta, non ricordava assolutamente nulla mentre Hasegawa sembrava esserne fin troppo consapevole. Non ne avevano più riparlato e ad entrambi era andata bene in quel modo. Invece con lui, con lui era stato tutto diverso. Non si erano detti nulla il giorno dopo, né i giorni successivi. Ci erano ricascati molte altre volte, anche senza alcool ed era stato evidente che quella era diventata una relazione a tutti gli effetti, con tutti gli attriti in cui potevano incappare personalità così simili. Continuavano a non parlarne comunque. Gin aveva provato ad introdurre il discorso qualche volta ma aveva ricevuto come risposta contrattempi lavorativi e silenzio. Hijikata non era un uomo che parlava molto.

Ordinava da bere, si ubriacava in silenzio, veniva cacciato, aspettava di riprendersi abbastanza per passare al prossimo e così via. Ancora e ancora. Urlava e si agitava scosso da singulti secchi di fronte al bar di Otose. Vomitava sperando di poter estirpare via anche i ricordi. Il sorriso di quel bastardo continuava a comparire e comparire e non importava quanto gridava, quanto beveva, quando graffiava, mordeva, picchiava. Era sempre lì, nitido come non lo era mai stato. Un sorriso che gli diceva “non preoccuparti, ho fatto la scelta giusta, starò bene, non rimpiango nulla”, lo pregava di andare avanti. Ma come poteva? Quando pensava di aver ritrovato una specie di strano equilibrio proprio con lui gli era stato strappato via dalla Mimawarigumi, da Kondo, dallo Shogun, da Shoyo, da quello stramaledetto mondo sempre in guerra. Guerre che nessuno avrebbe ricordato. Si risvegliava nel letto in preda agli incubi, più volte in una notte, sentiva Shinpachi entrare in casa e lanciare il suo cortese saluto all’aria. Aria che aveva iniziato a rispondergli e che se ne tornava a bere il più in fretta possibile, aspettando solo quel piccolo momento di pace dato dalla presenza dell’unica persona che sapeva tutto e che stava soffrendo esattamente come lui, anche se aveva un modo diverso di dimostrarlo.

Shinpachi, Kagura, Otae, Sacchan e tutte le persone che gli si erano appiccicate addosso durante quegli anni pensavano che la scoperta che il suo maestro fosse ancora vivo e che facesse parte della fazione avversaria l’avesse sconvolto a tal punto da farlo andare verso l’autodistruzione. Forse c’entrava anche quello. Forse era tutto collegato. Gintoki era sicuro, però, che non era la faccia di Yoshida Shoyo quella che sognava di notte, non più ormai. Non erano gli sguardi privi di vita dei suoi amici, dei suoi nemici. Non erano le innumerevoli volte in cui era stato sul punto di morire. C’era solo lui. Solo quel sorriso. Ci sarebbe affogato dentro.

Sempre di più.

Fino a scomparire.

   
 
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