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Autore: padme83    30/09/2017    6 recensioni
"È successo ancora.
Come tutte le notti.
Lo stesso incubo, la stessa follia, la stessa paralizzante morsa allo stomaco."
__________________________________________________________
Piccolo missing moment dedicato al periodo forse più buio della vita di Paperone, così come raccontata da Don Rosa nella $aga.
(importante: leggere la nota introduttiva per una maggiore comprensione del testo)
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Paperon De' Paperoni
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nota (eccezionalmente all'inizio, ma è necessario, e capirete perché):

Ohibò, scompaio per mesi, e poi in una sola giornata mi faccio viva per ben due volte: la fine del mondo è vicina.
Due parole su ciò che andrete a leggere.
Il primo esercizio assegnatoci per il corso di scrittura creativa (del quale ho parlato in calce alla drabble "Regina di Cuori") consisteva nel riscrivere il racconto "Giorni perduti" di Dino Buzzati (che potete trovare qui --> http://www.toskana-art.it/varie/i_giorni_perduti.htm) con una narrazione in prima persona, scegliendo uno dei due personaggi (Kazirra o il camionista) come narratore unico e senza usare i dialoghi.
Io ho optato per una versione "onirica" del racconto, adottando il punto di vista del protagonista che si sveglia nel cuore della notte dopo aver sognato di camionisti, casse rubate e giorni perduti. La prima stesura, ovviamente, si rifaceva con maggiore precisione al testo originale.
Però, se devo essere sincera, ho impostato l'intera storia in modo che potesse essere facilmente adattata anche ad un altro famoso personaggio – ricco, solo e carico di rimpianti – di nostra conoscenza: Paperon De' Paperoni.
In particolare, ho pensato ad un missing moment che avesse però necessariamente una precisa collocazione temporale: la vicenda non può infatti che svolgersi tra "Il cuore dell'Impero" e "Il papero più ricco del mondo" (più vicino a quest'ultimo, in realtà). Più precisamente, la scintilla che mi ha fatto dire "ehi, si può fare" sono state le primissime tavole del 12° capitolo della $aga di Don Rosa: Paperone vecchio e stanco che sussurra "Doretta", in completa solitudine, nel buio della sua villa a Monte Orso. Ho pensato che il rimpianto, in quel determinato momento, fosse lo stato d'animo dominante nel cuore del nostro Zione preferito. Inoltre, quando Paperino e i nipotini lo raggiungono, lo trovano addormentato e immerso in un sogno del passato: segno di quanto l'attività onirica di Paperone fosse già ampiamente collaudata :)
Spero di non aver fatto troppa confusione, e di non essere uscita troppo dal seminato e dai limiti dell'OOC: nel caso comunque fatemelo sapere, le critiche e i consigli sono sempre ben accetti.
L'accompagnamento musicale, che non poteva mancare, non ha bisogno di presentazioni (Dio benedica Tuomas Holopainen).
È tutto, buona lettura!

 

 

 

- Lost Days -

 

 

 

 

 

Silent night, silent years,
the cold heart haunting still.
Sleepless watch of the night
and her face on the moon.”

(Tuomas Holopainen – To be rich)

 

 

 

 

 

Mi sveglio di colpo, il cuore in tumulto, il respiro affannoso, la pelle madida di sudore.
Le dita sono contratte, rigide, avvinghiate attorno alla seta consunta di un lenzuolo ormai completamente sfatto.
È notte fonda, e la stanza è rischiarata appena dal baluginio spettrale della luna, che filtra dalle imposte un poco socchiuse con l'impudenza e la ruvida dolcezza di un ricordo riemerso a tradimento dalle pieghe sfuggenti della memoria.
Ho freddo. A pochi passi dal letto, le ceneri spente del camino sembrano volermi lanciare una sequela di muti rimproveri. Che stupido. Avrei dovuto aggiungere almeno un ceppo prima di coricarmi.
Mi affagotto un po' più stretto nel gelo delle coperte, il viso affondato dentro al cuscino, la mente tesa nello sforzo di tornare presente a se stessa; cerco di ritrovare, per quanto possibile, una briciola di lucidità, un minimo di autocontrollo.
Una falena dispersa nel buio.
È successo ancora.
Come tutte le notti.
Lo stesso incubo, la stessa follia, la stessa paralizzante morsa allo stomaco.
Una strada che si snoda serpentina nel livido fulgore del crepuscolo: è così che ogni volta le danze prendono il via, con la lusinghiera verosimiglianza che è propria dei sogni. Mi trovo – stranamente solo[1] – al volante della mia Limousine nera, di rientro a Monte Orso dopo una infinita giornata di lavoro; all'improvviso, scorgo un'ombra scura che si staglia nitida contro il muro di cinta della villa, inondata in parte dalla luce potente dei fari dell'auto. Si tratta di un ragazzo – come possa esserne certo senza neanche averlo visto in viso rimane, anche adesso, un mistero, o, meglio, una sorta di impulso ambiguo scaturito, per chissà quale motivo, direttamente dal mio subconscio alterato. Rimango ad osservarlo mentre, issatasi una grande cassa sulle spalle, si avvia a passi svelti verso un camion parcheggiato poco lontano.
Il giovane mette in moto prima che io abbia l'occasione di fermarlo; non mi resta altro da fare che seguire lui ed il suo carico sospetto fino al luogo in cui avranno la compiacenza di condurmi.
Una curva, poi un rettilineo, un tornante e un'altra curva ancora. Il viaggio si protrae per un tempo che mi appare infinito. La nebbia sale dall'asfalto in brevi sbuffi sinuosi, arrotolandosi pigra attorno ai lampioni ed avvolgendo in un manto traslucido le case che scorrono grigie ed indistinte ai margini della carreggiata.
Quando il furgone si ferma, sul ciglio di un precipizio, il sole è scivolato da un pezzo oltre il basso profilo delle colline.
Senza degnarmi di un'occhiata, il giovane scarica la cassa dal rimorchio e la getta con noncuranza nel vallone.
Ed è allora che le vedo.
Centinaia, migliaia di casse tutte uguali, ammucchiate una a ridosso dell'altra; indistinguibili, formano una massa squadrata e compatta, simile al batrace irsuto di una gigantesca creatura preistorica.
Avverto un brivido freddo correre rapido lungo la spina dorsale. Cosa diavolo sta succedendo?
Mi avvicino allo sconosciuto e gli domando spiegazioni, senza riuscire a fermare il tremito che mi scuote la voce: un rantolo spezzato prorompe dalle mie labbra, urticante e stridulo come il gracchiare di una vecchia cornacchia inacidita. La sua bocca – una linea sottile ed umida, quasi una ferita – si piega in un sorriso beffardo. Sussurra qualcosa a proposito di... giorni perduti?
No... No, non può essere...
Mi precipito verso la scarpata, atterrito, incapace di credere davvero a ciò che l'istinto invece ha già parzialmente compreso.
Apro una cassa, poi un'altra, e un'altra ancora.
Ogni movimento è un pugno in pieno petto, un artiglio mostruoso conficcato a fondo nell'epidermide, un pungolo affilato che penetra indisturbato nella carne, perfora i polmoni, tritura le ossa – spacca il cuore.
Perché? Perché Doretta? Perché non ti ho fermata quando ancora potevo farlo, in quel dannato mattino al Fosso dell'Agonia Bianca? Perché non ti ho stretta fra le braccia, annegando le unghie e l'anima nel profumo dei tuoi capelli di fulgido oro?
E dimmi, dimmi sorella[2], quanto hai aspettato di vedermi comparire sulla soglia di quella camera d'ospedale, quanto hai desiderato sfiorarmi un'ultima volta la mano?
Oh papà, come posso spiegarti che, se nella vita ho potuto imparare il significato della parola “onestà”, è solo grazie al tuo insegnamento? Una lezione nella quale l'allievo non ha mai superato il maestro, puoi esserne sicuro; fra noi due, il migliore, lo sai, sei sempre stato tu[3].
È questo, dunque, l'autentico aspetto della morte? Avvertire la speranza scivolare via dalle mani come sabbia, inesorabile, senza poter far nulla per impedirlo, per arrestare la sua fuga crudele?
È troppo tardi.
Il rimpianto è un giudice sadico – eppure, terribilmente, magnificamente giusto: d'altra parte, in cosa consistono i suoi supplizi, se non nel permetterci di vivere fino in fondo le conseguenze delle nostre stesse, libere scelte?
Il rimpianto è un giudice, altresì, incorruttibile: “troppo tardi” sentenzia, e nemmeno la potenza del papero più ricco del mondo riuscirà mai a vanificare l'effetto di un tale anatema.
Rivolgo un ultimo, disperato sguardo verso colui che è l'indiretto artefice della condanna che mi pende sul capo[4]; finalmente posso guardare l'enigmatico autista in pieno volto. I suoi occhi – ora animati da un palpito di velata compassione (o di disprezzo?) – hanno un che di famigliare, mi ricordano qualcosa, qualcosa che mi annoda la gola in un cappio d'acciaio...
Alla fine, in un lampo di impietosa consapevolezza, capisco.
I suoi occhi.
I suoi maledetti occhi.
Sono uguali ai miei[5].
È a questo punto che mi sveglio urlando.

 

 

 

 

[Words Count: 895]

 

 

 

[1] Ovvero senza autista (che comunque ancora non era Battista, quindi la sua presenza sarebbe stata superflua a prescindere).
[2] Nella $aga si accenna ad una generica "scomparsa" delle sorelle di Paperone. Mi sembra però verosimile immaginare Ortensia o Matilda (più Ortensia, perché Matilda compare ancora in "Una lettera da casa") in una situazione del genere (erano pur sempre anziane).
[3] Remember Gongoro.
[4] A questo punto ci tengo a sottolineare una fondamentale differenza che, secondo me, intercorre tra il racconto di Buzzati e la $aga: mentre per Kazirra il dado ormai è tratto (il che fa di lui, sostanzialmente, uno sconfitto), per Paperone si tratta solo di un momento di "sconforto" passeggero, poiché il destino lo sta già aspettando dietro l'angolo, e ha in serbo ancora molte sorprese per lui – perché per Paperone non è mai troppo tardi.
[5] Ho immaginato che il camionista del sogno altro non fosse che un giovane Paperone che osserva – se non con biasimo, perlomeno con perplessità – se stesso da vecchio.

 


 


 

Nota-bis:

Non ho nient'altro da aggiungere! Ci vediamo su Lost Fantasy, se vi va (per raggiungermi in fretta, basta cliccare sull'icona con i due gioppini vicino all'immagine del profilo) ;)

Un bacione e a presto :*


padme


 

   
 
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