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Autore: L0g1c1ta    01/10/2017    0 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Caro fratello, sono Bielorussia.

 

Come avrai già letto dalla lettera precedente, io sto bene. Sono insieme al lituano con il cadavere del polacco. Dice di voler restare qualche giorno in Polonia dopo il suo risveglio.

Io ho approvato per darti tempo di rintracciarci e di riportarlo a casa. È probabile che voglia definitivamente lasciare Mosca per restare lì. E come vedi sta delirando, riguardo al morto. Sappiamo che non tornerà più in vita, eppure lui insiste del contrario.

Ti prego di prendere il primo treno per Varsavia, o per quello che ne rimane. Io sarò vicina al lituano, per far smettere in fretta tutto questo e di concludere questa farsa. Domani mattina raggiungeremo la capitale. Spero che questa lettera sia più veloce di noi.

 

Tua sorella,

Bielorussia.

 

“Cosa stai facendo?”

Bielorussia sobbalza prepotentemente. Per fortuna non è sbattuta contro il legno. Le si arruffano i capelli, s’incrinano gli occhi. Diventa feroce come una tigre. Lituania è ancora alle sue spalle, paziente e muto. L’atteggiamento adulto e severo del suo compagno di viaggio la irrita. Respirando profondamente, fa la bambina. Volta la testa di poco, quel che serve per guardarlo e per nascondere ciò che ha fra le mani. Ha ancora quell’espressione fredda, il ragazzo. Lei sbuffa, spazientita.

“Non sono affari tuoi” le esce dalla bocca la frase affilata. Compiaciuta, lo osserva ancora. Sbuffa di nuovo, comprendendo che l’effetto desiderato si fa attendere. Lituania è ancora immobile, non ha mosso nemmeno un dito, nemmeno le ciocche di capelli tentano di frantumare la tensione che ha il suo sguardo. Bielorussia blocca involontariamente il fiato, come messa alle strette. Si è resa conto che la lettera che ha appena scritto non dovrebbe leggerla nessun altro se non lei e Russia. Lituania probabilmente ha già notato il suo collerico nervosismo. I gelidi occhi grigi si spostano verso le sue mani. Vede la carta. Bielorussia si volta. Nasconde la lettera dietro la sua schiena. Il ragazzo vede con la coda dell’occhio quel pezzo di carta, che ora pare bruciare come fuoco ardente. Lei trattiene ancora il fiato. Si rende conto di essere patetica.

“E allora perché nascondi quella lettera?” Bielorussia digrigna i denti. Si è già accorto di tutto. Questo nuovo Lituania non le piace per niente. La sua severità la fa sentire più bassa, più misera, più colpevole. Eppure lei non è nulla di tutto questo. Scuote la testa e scaccia via la sensazione dispettosa.

“Perché sono cazzi miei, idiota!” Lituania sospira. Vorrebbe pestare i piedi a terra: è ritornata la sensazione irritante sulla sua pelle. Le pizzica il cuore e i polmoni respirano più di come dovrebbero. Le gambe hanno un attacco di nervi e vogliono correre e calciare qualcosa. Lituania la guarda ancora come un uomo guarda una bambina capricciosa. Inclina gli occhi in modo nuovo: pare deluso ed intristito. A Bielorussia parte la stizza, sa che vuole quella lettera.

“Dammela” alza la mano, con la voce affatto severa. Lei guarda la sua mano come se reggesse fra le dita un groviglio di serpi. Arriccia il naso, i denti tornano sotto le labbra, al caldo: si sente sconfitta e ancora più bambina. Vorrebbe togliersi questo sguardo pesante dalla schiena. Alza il braccio con rabbia, gli sbatte in faccia il pezzo di carta, ora sgualcito e sudato. Allontana gli occhi da lui, li detesta, i suoi occhi e il suo sguardo, anche se un po’ più ammorbidito. Sente la carta scivolarle via dalle dita. Alza lentamente gli occhi, lo vede leggere con interesse. Le sue ciglia restano ancora immobili, ritorna il cavaliere senza sentimento e senza voce. Bielorussia si compiace. Adora quell’espressione. Allunga il sorriso come una strega.

“E’ inutile distruggerla: tanto ne scriverò un’altra e mio fratello ti verrà comunque a prendere” dice, soddisfatta delle sue parole. Lituania pare ignorarla, o comunque ascolta a metà la minaccia immatura. Smette di leggere, ma le risponde con lo sguardo ancora fermo sul pezzo di lettera.

“Hai capito male. Non ho mai detto di voler restare in Polonia” Bielorussia sobbalza, il suo sorriso crudele sbiadisce “E non hai compreso un altro particolare…” il sorriso le cade completamente: vede le dita del lituano afferrare i lati della carta. Sente il foglio stracciarsi in due, in quattro, in tanti piccoli pezzettini mingherlini. Guarda i resti della lettera con stupore, ma non con sorpresa. Immaginava che l’avrebbe fatto, ma non credeva che potesse farlo per davvero. Lituania si avvicina ad un bidone, abbandonato lì come una lattina schiacciata, e ci butta dentro, indifferente, i resti del foglio “…Polonia si sveglierà, appena arrivati a Varsavia” si scrolla le dita dei pezzettini rimasti attaccati tra le dita. Alza gli occhi, la guarda con un sentimento che lei non riconosce “E’ la pura verità”.

“E chi te lo dice, idiota?” sospira “Senti, quell’imbecille è morto anni fa e rimarrà morto per sempre” lo vede afferrare il pesante baule ed incominciare ad incamminarsi. Bielorussia sbuffa ancora, si sente arrabbiata senza alcun motivo. Il ragazzo non si volta nemmeno “Lituania, ti stai solo prendendo per il culo!” non la ascolta, non ha nemmeno preso in considerazione le sue parole. Non aspetta che lei lo segua.

Lituania guarda la città grigia e buia in lontananza e la vede macchiata d’oro e marmi.

 

 

 

 

 

Prussia guarda il gruppetto di bambini a righe come un pastore guarda tristemente il suo gregge morente durante una camminata tra la neve e i rovi nascosti.

Polonia guarda il gruppetto di bambini sopravvissuti alla tortura dei tedeschi come un caporale guarda i suoi futuri cadetti, chi pieni di sonno, chi già esausto, senza nemmeno aver iniziato la futura marcia.

Prussia non aveva aperto bocca quando gli altri due suoi soldati, scampati alle bombe e agli aerei, rigidi fino all’ultima goccia di sangue, avevano indicato lontano, tra la neve e le colline cineree in lontananza, discutendo di come liberarsi degli ultimi superstiti di quello che doveva essere il loro trionfo. Non aveva alzato gli occhi per un istante nemmeno quando discutevano su dove trovare altre munizioni e su come scavare abbastanza buche per quelli che per Prussia erano meno che ragazzini. Non è abituato a tutto questo, nonostante ciò che ha già visto. Però aveva voltato la testa pian piano verso terra e aveva visto gli zoccoli di legno di Polonia e i pantaloni della sua divisa. Era come un fantasma: gli era scivolato alle spalle, invisibile. Aveva la pelle quasi trasparente e gli occhiacci di un verde smorto e limpido. Aveva voltato il collo di poco, pochissimo, tuttavia aveva visto il suo sguardo penetrante.

Polonia guardava i due soldati come un boia guarda con superiorità e disgusto i bastardi a cui dovrà dare il fatidico colpo.

Prussia si era lasciato trasportare da quell’espressione e aveva visto fuoco acceso d’Inferno. Un soldato l’aveva richiamato e aveva dimenticato la sensazione di gelo lungo le sue ossa. La marcia della morte non è ancora iniziata e ha già il cuore pesante. Non ha ancora imparato l’indifferenza a tutto questo. Sente polacco dietro le sue spalle. Si volta, desiderando qualsiasi altra chiacchiera. Vede ancora Polonia, con le spalle rivolte a sé. Capisce poco. Lo vede gesticolare con fermezza e vitalità. Odia il polacco e ha imparato della lingua ben meno di tre parole. Ascolta, cercando di immaginare.

Polonia sembra farsi capire dai piccoli e dai più grandi. Gesticola come un italiano forsennato. Volta piano la testa e il busto e indica in lontananza. Tutte quelle teste, Prussia ne conta con fatica una trentina, si volgono, attratti dal dito come tanti pulcini al cibo. Anche lui stesso si volta, interessato dalla lingua incomprensibile. La lingua cambia. Russo. D’istinto fa stridere i denti, infastidito. Capisce anche meno. Ripete le stesse parole e indica lo stesso punto. I bambini capiscono. Sente tedesco. Comprende. Ascolta poco. Ripete ancora una volta le stesse parole e indica sempre nello stesso punto.

“…faremo una lunga camminata, forse non potremo nemmeno fermarci per un po’. Per questo voglio che siate tutti dietro di me e che non perdiate il passo. Vi cercherete un amico e vi prenderete per mano. Poi mi seguite tutti, va bene?” i bambini, quelli che comprendono, perdono la stanchezza nei loro occhi. Si guardano fra di loro, come sperduti. Alcuni si alzano le mani e guardano le cinque dita come se non le avessero mai viste prima d’ora. Osservano di sottecchi i loro compagni, quelli senza la loro lingua. Non sembrano capire molto. Un ragazzino, con lo sguardo un po’ più sveglio e le ginocchia sdrucciolevoli, incrina gli occhi verso Polonia.

“E come lo vediamo un tappo come te?” i più piccoli lo guardano, chi comprendendo, chi no. Nessuno ride, non era divertente e non voleva essere divertente. I bambini hanno dimenticato la risata. Polonia guarda in mezzo ai piccoli e ai più grandicelli. Non sfiora nemmeno con lo sguardo quello che l’ha insultato. Volta tutto il corpo, ignora Prussia e i soldati e guarda i rami degli alberi, caduti nella neve. Ne adocchia uno, snello e alto, senza rametti o foglioline. Lo afferra e ritorna al gruppetto. Poggia a terra il legno così come si poggia a terra un’asta. Prussia ricorda di averglielo mostrato e sbatte le palpebre, non avendo sentimenti a riguardo. Il lungo ramo scuro si erge tra tutti i piccoli a righe.

“Così mi vedete” il ragazzino che l’aveva apostrofato non apre bocca e ritorna a nascondersi nella crocchia. I soldati alle sue spalle urlano in tedesco. Prussia sobbalza, non riconoscendo nemmeno la sua stessa lingua. Quelli si voltano e incominciano ad incamminarsi. Sanno già dove andare. Prussia deglutisce e, con la coda tra le gambe, incomincia il cammino anche lui. I bambini trovano un compagno e si tengono per mano, senza conoscere nemmeno la Nazione dell’altro. Polonia è a capo del gruppo, con la schiena dritta.

Marsh!” e Prussia dimentica ogni cosa che vede, in questa marcia senza onore. Tanto non c’è altro che neve e nuvole grigie…

Un sobbalzo di uno dei due soldati lo risveglia dal sonno della sua coscienza. Alza lo sguardo e vede una fattoria e un campo di grano ormai marcio, trascurato dalla mietitura. I due osservano la mappa e annuiscono. Era qui che volevano andare. Prussia si ricorda di Polonia. Il gruppetto di bambini si tiene davvero per mano e tutti procedono in fila dietro al polacco, come un capo banda di una parata. La fila sembra ingrandita, per la lunga coda di piccini. Polonia tiene stretto il ramo. A Prussia ricorda una chioccia in mezzo ai suoi pulcini e a quelli di altre galline. Sorride debolmente, in un'altra situazione avrebbe riso. I due soldati fanno segno di proseguire. Devono andare in quella casa. Scavalcano il recinto ed incitano i bambini di fare lo stesso. Tutti entrano nella fattoria.

I piccoli vengono lasciati fuori con Polonia e uno dei due tedeschi. Prussia entra per primo, il compagno spalanca le finestre del soggiorno e della cucina. Le stanze sono piccole e umili nelle case di campagna polacche. Il legno del pavimento scricchiola ad ogni passo di cuoio. Prussia e il soldato guardano in alto, coi fucili in mano. Rimangono in silenzio, senza vere parole. L’uomo appeso al soffitto è stato di sicuro costretto a legarsi la corda al collo, immagina senza sforzo. Guarda le mani legate del poveraccio. Non incrocia i suoi occhi con quelli del morto: la sua coscienza si dimenerebbe ancora dentro di sé. Il soldato sa quello che deve fare. Trova una sedia e slega il morto dal suo posto: cade a terra come un sacco di patate e fa il medesimo suono sul legno marcio.

Il secondo soldato sbircia dentro, avendo sentito il rumore. I due ignorano Prussia, come si lascia in disparte un’ombra senza voce. Discutono, decidono di buttare il corpo in cantina. Tanto nessuno si sarebbe accorto della sua assenza. I due sono freddi e senza emozioni: presto la casa sarebbe diventata cenere, insieme al povero impiccato e ai bambini. Nessuno avrebbe saputo niente, in qualsiasi modo sarebbe finita la guerra.

Prussia li ascolta con la medesima emotività. Scruta fuori dalle finestre Polonia, ancor più gesticolante di prima, di nuovo circondato da piccini. Uno di loro sembra interessare il ragazzo. Polonia si china e lo tiene stretto a sé. Il comandante alza gli occhi alla scena. Polonia poggia una mano sulla testa del piccolo piagnucolante, più ossa che carne. Gli carezza la testa senza capelli. Gli altri piccolini guardano con trasporto la scena. Non sanno nemmeno loro se vorrebbero lo stesso.

Prussia ha un lampo, un ricordo veloce. Ricorda Ungheria e come stringeva al seno il piccolo Italia, quand’era bambino e lei era solo una ragazza. Qualcosa si muove dentro di lui e non sa nemmeno come chiamarlo, questo sentimento di gioia e tristezza.

 

 

 

 

 

Russia guarda dalla finestra del suo ufficio. Non c’è niente da fare e l’aria calda dell’estate non lo conforta.

Estonia è in biblioteca a leggere, poco fa l’ha aiutato a riordinare gli ultimi documenti. La Polonia chiede di ritornare viva come un tempo, dalle ceneri della guerra e dal sangue dei tedeschi. Aveva guardato quel foglio stampato come si guarda un banale foglio bianco. Non l’ha ancora firmato. Non sa cosa pensare.

Lettonia è con sua sorella. È guarita in fretta, come ci si aspettava. Non le duole più la testa, almeno così immagina. Lettonia le sta sempre dietro, come un cucciolo sta dietro l’ombra della madre. Ad Ucraina sembra piacere tutto questo. La sta trascurando molto, sua sorella. In verità… non ricorda bene quand’è stata l’ultima volta in cui le ha veramente parlato. Non ne è certo. Ultimamente sta trascurando molti, in quella casa. Ultimamente sta trascurando anche se stesso.

Dalla finestra vede il giardino ombroso, quello che non dovrebbe nemmeno esistere e avere un significato. La lapide, alla fine, l’ha staccata dalla terra e portata nella sua vecchia casa. C’è ancora l’orma del buco che aveva scavato. Le rose sono appassite, sono meno che grani di cenere. Non sa bene il perché, ma l’altro giorno è riuscito a tornare in quell’angolino di terra. Aveva incominciato a fissare il fosso come se ci fosse ancora un cadavere, lì dentro. Non ricorda quanto tempo ha lasciato alle spalle.

Aveva schiacciato le rose. Una ad una. Non ne era rimasta più nessuna. Aveva riempito il suolo di sangue rosso e bianco.

Guarda ancora dalla finestra. Poggiate lì, ancora vive, ci sono quelle due rose. La bianca cresce affiancata alla rossa, la rossa si appoggia dolcemente alla bianca. Vivono ancora, in qualche modo si sostengono insieme. È da molto che Russia non vedeva due steli intrecciati, di rose. Tra le carcasse delle altre sorelle, i due fiori sembrano rinati dalla cenere. Si mostrano con colori sgargianti e piccole perle d’acqua. Vivono insieme, bevono dallo stesso stelo e si abbracciano, senza spine.

Russia immagina che il destino voglia Lituania insieme a Polonia e Polonia rinato debba restare al fianco di Lituania. Sembra che nulla possa strappargli dall’abbraccio altrui. Russia si addolora: voleva anche lui far parte del destino di Lituania. Immagina che anche Estonia e Lettonia l’abbiano desiderato tanto. Il destino vuole solo loro due, nello stesso cerchio di vita. Russia se n’era reso conto anni fa, quando la guerra era giunta anche nelle terre lituane e Germania pretendeva la vita dei suoi ragazzi.

Era ritornato dalle trattative fallimentari. Aveva i capelli gremiti di sudore, il cappotto sgualcito. Sua sorella non l’aveva seguito. Col cuore gonfio di vergogna era tornato a casa. Gli aveva aperto Estonia. Tremava. Lituania non si sveglia. Aveva perso un battito nel petto.

 

La tempia del ragazzo sembra gonfia. L’aveva fatto notare ad Estonia. Aveva trovato il fratello a terra. Doveva aver battuto la testa. Aveva immaginato che fosse inciampato e svenuto. Dopo minuti e minuti, si era reso conto delle guance rosseggianti e della fronte bollente. L’aveva portato nella loro stanza, l’aveva spogliato ed infilato sotto le coperte. Non si svegliava, non gli rispondeva. Sembrava accennare talvolta, sussultava se qualcuno lo sfiorava, anche per errore. Più di questo nulla. Estonia se n’era andato tossendo. Aveva ignorato anche lui.

Trascinata la sedia, vi ci siede. Questa scricchiola sotto al suo peso, non ci bada. Si sfila per la prima volta i guanti. Solo ora si accorge di non esserseli tolti. Si alza, li poggia sulla scrivania. Si siede una seconda volta, i suoi piedi non hanno controllo. Fa troppo rumore, gli sussurra una parte del suo cervello. Dimentica di ascoltarla. La mano è imbizzarrita: con uno scatto sfiora la fronte di Lituania. Brucia. Deglutisce, si calma di poco. Questa stanza è fredda e buia. Si sente schiacciare dalle pareti. Il ragazzo fa un respiro più profondo dei precedenti. Russia lo osserva, pieno di aspettative. Guarda i suoi occhi, li vede pian piano aprirsi. Sono carichi di sonno e malattia. Russia si quieta del tutto, d’istinto sorride. Lituania lo osserva, si sforza di scrutare nell’oscurità. Lo guarda con una sfumatura debole di incredulità.

“C-Cosa fai qui…?” sente con fatica, in quel silenzio ovattato e con la sua gola in fiamme “Come sei arrivato…?”

“Con il treno, Lituania” lo interrompe, con una tonalità involontariamente ironica nella voce “Ero preoccupato per te. Sono corso il prima possibile” Lituania lo guarda ora con velata confusione. Russia smorza il sorriso. Probabilmente non riesce ad udirlo o forse non comprende l’ironia. Guarda il ragazzo, come mortificato “Scusami…” Lituania ha occhi rossicci, vede a malapena il celeste dei suoi occhi. Le ciglia, pesanti, tentano di alzarsi ancora un po’. Abbozza un sorriso sincero. I capelli sono intrisi di sudore e umidità. Russia lo contempla: sembra una sincera felicità di un bambino. Ingoia una risata “Cosa c’è?”

“Sai che ho fatto un sogno? C’eri anche tu” gli muore il sorriso, rimane perplesso. Ha pronunciato queste parole come se sia per iniziare una chiacchierata tra amici. Russia si sente inopportuno, non riesce a crede che gli stia parlando in questo modo. Riflette un attimo, gli ritorna in mente ciò che ha detto. Si sente ingenuamente felice.

“Davvero?” Lituania annuisce con lentezza. Lo guarda ancora come un amico. Ora pare lui inopportuno. Russia non capisce, ma vuole ingannarsi “Che cosa hai sognato?”

Sembra tutto così irreale…

Lituania prende un respiro profondo e ricorda.

“C’eri tu, io e il sole. E i campi di grano” racconta, felice, immaginando sotto le palpebre chiuse “C’era l’estate e il raccolto doveva essere falciato. Mi mettevo d’impegno a raccogliere le spighe. Tu no, volevi dormire e stare sotto al sole. Mi ero arrabbiato con te, ti avevo detto di muoverti o si sarebbero arrabbiati con noi. Tu non ne volevi sapere, eri proprio un pigrone…” Russia lo ascolta e non capisce. Lituania continua a raccontare, come un vecchio ricordo “Mi ero arrabbiato ancor di più con te. Ti avevo sgridato, ma tu non mi davi retta. Allora ho buttato a terra il mio lavoro e ti avevo preso per le spalle ‘Senti’ ti ho detto ‘se non la finisci di fare il bambino, io non ti insegnerò più ad andare a cavallo’. Tu ti sei rianimato e mi sei scappato dalle braccia. Ti sei rimesso in piedi e hai falciato tutto il campo da solo” Russia lo guarda con ancora più confusione “Io ti ho guardato soddisfatto e ho detto ‘Hey, ti insegno a comunque cavalcare, non aver paura!’. Hai smesso di lavorare e ti sei rincuorato. Avevi avuto così tanta paura che hai mietuto tutto un campo di grano!”

Russia vede sotto le labbra i denti lucidi di Lituania. Ha il cuore pesante, immagina un’orribile realtà che il ragazzo vede dentro la sua carne. Si rende conto di aver finito il racconto. Deglutisce, tira su un sorriso infelice. Lituania non apre più bocca, non pare nemmeno respirare. Russia immagina che si sia addormentato. Immagina di essere una banale figura di carta, nell’angolo di questa stanza. Si alza, la sedia questa volta non scricchiola. Felino, nonostante la grandezza del suo corpo, afferra i guanti e imbocca la porta.

“Aspetta” si arresta la mano, che per poco avrebbe girato la maniglia “Resta ancora qui, mi fai un po’ di compagnia” chiede gentilmente. Una vocina così minuta non la sente da mesi dalla sua bocca. Russia dimentica la maniglia e ritorna lentamente alla sedia. Il suo cuore pare volare per la stanza. Si sente leggero e felice, nonostante l’angoscia di questo momento. Lituania lo osserva rapito, capisce che rimarrà lì. Il groviglio di lenzuola si scosta. La sua mano smagrita esce dalle coperte e si alza con fatica verso di lui “Tu non te ne vai più, vero?”

Russia d’istinto l’afferra. La sua mano inghiotte la piccola del moretto. Si commuove.

“No, non me ne vado più” Lituania guarda con allegra confusione la sua mano inghiottita in quella del gigante. Allunga il sorriso, chiude le palpebre. La febbre lo investe e gli fa gli occhi rossicci e stanchi.

“Che mano grande… sei proprio cresciuto molto, Polonia…”

Si addormenta e a Russia cade il cuore, che fino ad ora non faceva altro che volare per tutta la stanza buia.

 

“Signore, c’è una lettera da sua sorella” dice Estonia, aperta la porta. Russia si sposta dalla finestra e lo accoglie nell’ufficio. Il ragazzo gli lascia la lettera nelle sue mani. Russia osserva con indifferenza la firma, con il ricordo ancora in mente. Il ragazzo attende ordini. La lettera viene letta con altrettanta indifferenza. Bielorussia non ha cambiato nemmeno una parola nella carta, forse esagerando ancor di più i fatti. Le conclusioni sono le medesime, così come sono medesime le sue richieste. Lo vuole a Varsavia, per tornare a casa e per far tornare a casa il ragazzo e il morto. Estonia continua ad attendere. Russia non sospira, non si affretta nemmeno. Il destino è un avversario divino e lui è solo una misera creatura di Dio, anche se potente. Non può strappare un’altra creatura dai desideri del fato. Firma la carta polacca, di fronte agli occhi di Estonia. Fa una pessima firma, ma gliela consegna ugualmente.

“Inviala a Varsavia, sapranno cosa farne” Estonia si aggiusta gli occhiali sul naso e afferra con una mano tremante la carta. Osserva di sbieco la firma, con fatica capisce di cosa si tratti.

“Sì, signore… e la lettera di sua sorella?” Russia non ha bisogno di guardarla, né di riflettere. Poggia fra le mani del ragazzo anche quella.

“Buttala, non è niente che ci riguardi” si volta, scuro in volto e di voce, come un tempo. Non attende nemmeno che Estonia se ne esca dalla stanza. Si appoggia di nuovo alla finestra e lì rimane. Il ragazzo capisce di essere stato congedato e scivola fino alla porta, silenzioso come un gatto.

Con la porta chiusa alle sue spalle, Russia guarda il giardino ombroso e le due rose, gemelle dello stesso stelo, poggiate sulla tomba di quella carcassa di Polonia. Porta ai denti la carne della cicatrice riaperta sul pollice. Morde quel pezzo di carne. Non dovrebbe farlo, diventerà una cattiva abitudine. Malgrado ciò pensa solo di aver perso e di aver avuto finora un nemico ben più grande di lui. Non Polonia. Non Lituania stesso. Il destino gli era rivale e pretendeva che il suo andamento continuasse senza impigli, come lui. Morde troppo in profondità: una lacrima di sangue taglia in due la mano. Russia morde con più forza. Non accetterà mai un fallimento così doloroso.

La goccia di sangue cade dalla sua carne e s’infrange sul legno chiaro. Presto avrà altre sorelle con cui sdraiarsi al sole.

 

 

 

 

 

Prussia non aveva fatto altro che fissare il soffitto sopra la sua testa. I due soldati non avevano fatto altro che dormire.

La notte non terminava e non era nemmeno certo che fossero passate più di due ore. Aveva sentito russare nelle stanze affianco a lui. Che schifo, aveva pensato, con la gola attorcigliata. Aveva annusato l’aria dalla sua finestra e aveva adocchiato la stalla. Loro, soldati del Reich, dormono nelle stanze di una famiglia ammazzata, loro, bambini, con più ossa che carne, dormono tra il fieno e la neve. Trova rivoltante anche questo. Aveva sentito odore di patate e sale, dalla stalla. Aveva visto una carica scia di fumo nell’oscurità. Era sceso dalle scale, senza far rumore, senza alcun pensiero, e aveva seguito l’odore quasi piccante. Aveva trovato un banchetto di patate, nascoste sotto al fieno, zucchero e pepe. L’aria era frizzante. I bambini parlavano, sussurravano in tante lingue. Nessuno l’aveva notato. Polonia l’aveva osservato come un gatto bisbetico osserva un cane addormentato. Non aveva voglia di fare il cattivo. Si era seduto nel fieno e non si era mosso più da lì.

I bambini hanno le pance piene, dopo chissà quanto tempo, e dormono accasciati l’uno all’altro. Sembrano tanti sacchi di ombre, buttati nel fondo della stalla. La pentolaccia di stagno smette di dare fuoco alla sua bocca. Si spegne la fiamma sotto la legna. Ora è buio e c’è silenzio. L’odore di patate dà a Prussia un ricordo e un rimpianto. Gli viene voglia di mangiare, ma non ha cuore per chiedere un piatto. Immagina che non abbia il diritto di stare qui, allora lo stomaco si mette il cuore in pace. Polonia è sveglio, lo sente respirare non lontano da sé. Non ha smesso di guardarlo. Prussia osserva i pezzi di legno sotto la pentolaccia, con ancora qualche gramo di fuoco attaccato. Stanno per spegnersi del tutto. Prussia si guarda le mani e non vuole fare altro. Le patate gli ricordano suo fratello, quand’era bambino ed innocente, quando ancora non poteva tenere in braccio un fucile. Lo zucchero gli ricorda Ungheria e come la sua gonna ballava col vento e Italia l’aiutava a spazzare le scale. Il pepe gli ricorda Austria e come da bambini era tutt’altro che quello che è ora. Prussia scuote la testa, sa che l’altro lo sta ancora osservando e valutando.  

“Austria da piccolo era diverso” dice dal nulla. Vede un movimento veloce con la coda dell’occhio. Polonia è colpito dal silenzio spezzato. Non dice una parola. Prussia si stringe i pollici tra le altre dita “Era uno scricciolo senza spina dorsale e aveva i capelli arruffati. Quel maledetto ciuffo non si vedeva quasi per niente in quella zazzera nera” deglutisce, c’è ancora silenzio. Polonia non si muove. Prussia sospira “Ad un certo punto si era deciso di essere forte. Non ne capiva di spade e nemmeno di campi di battaglia. Era negato, ma fino al midollo. Quella volta mi aveva chiesto anche aiuto” Polonia è immobile, la stalla è ferma. Lo ascolta con pazienza “Ma non c’era verso. Avevamo provato di tutto, ma non era proprio il suo mestiere. Non gli entrava in testa che quando tiri con l’arco devi

inclinarlo un po’ per dare equilibrio alla freccia” sospira “Non so perché io abbia deciso di dargli una mano…” forse perché volevo essere suo amico…

Una mano ossuta gli si presenta tra le ginocchia. La pelle è appiattita sulle ossa senza carne, le unghie sono state morse. Prussia segue le vene sporgenti. Polonia lo guarda senza espressione e senza voce. Ripercorre di nuovo il braccio. Regge un bicchiere, come tanti altri bicchieri che i bambini avevano tra le dita. Le patate non sono più calde e lo zucchero e il pepe sembrano più grami di terra. Prussia prende in mano il cibo offerto. Lo osserva, poi osserva Polonia, immutabile come una statua greca. Lo guarda negli occhi, Prussia non osa e inclina lo sguardo. Gli scuote la testa, non sa nemmeno lui cosa provi.

“Sei come Austria” dice, poggiando il bicchiere sulla paglia “non capisci mai niente” si alza, senza voltarsi, senza far rumore. Se ne va.

Polonia lo segue con lo sguardo. Lo segue con i piedi.

Prussia si sente stanco, il cuore gli pesa come tonnellate di acciaio. Butta il fucile sul divano. Non lo vuole più vedere. Lo lascia lì. Non vuole fare la donna e pensare troppo a cose orribili. Crollerebbe, se lo farebbe. Urlerebbe se ricordasse che il mattino dopo avrebbe dovuto bruciare quei bambini. Bestemmierebbe se immaginasse di dover impiccare Polonia e lasciarlo legato all’albero, mentre i due suoi compagni brindano di questa piccola vittoria. Però riderebbe, se sapesse che la stessa fine spetterebbe a loro. Sarebbe divertente, vedere quei due maiali morire prima di aver toccato il fucile. Sarebbe interessante sapere di essere stati traditi dalla loro stessa Nazione. Sarebbe… spassoso. Un po’ più leggero di prima, sale le scale e si butta sul letto. Il mattino dopo avrebbe tolto la sicura al suo fucile.

Polonia lo ha seguito, silenzioso come un fantasma. Senza alcun tormento o rimorso, entra in casa. Come un gatto, vede nell’ombra, ormai abituato a vivere come un ratto. Vede una coperta sul divano. Immagina che possa servire anche quella. Se la tira in spalla, scopre ciò che nascondeva: il fucile di Prussia. Lo osserva, con vivo interesse. Tende la mano sul metallo ghiacciato e se lo tira sulla seconda spalla. Non pensa nemmeno, esce subito di casa. Nella stalla butta la coperta sul ramo appuntito che aveva trovato quella mattina. Non ricorda nemmeno perché se l’abbia portato dietro. Esce dal buio e dai sospiri notturni dei bambini. Alza il fucile, bianco per i raggi di luna. Lo apre. Ha proiettili. È carico. Lo richiude.

Alza gli occhi in alto, verso i campi di grano bagnati di neve e letti di luna. Lo sguardo diventa scuro, gli occhi bruciano fuoco maledetto, come se lì, lontano, fra le colline, ci sia il suo reale nemico e non in quella casa, tra quelle assi marce.

Polonia respira, le sue guance riprendono il rosso della vita. Fa scattare la sicura.

 

 

 

 

 

Varsavia aveva il cielo sereno, senza nemmeno una nuvola. I suoi palazzi erano crepati e i vetri sporchi. Le strade si frantumavano sotto i piedi di Lituania e qualche piantina cresceva indispettita tra le crepe del calcestruzzo. Aveva visto la gente passeggiare allegramente con le loro famiglie, le donne coi loro bambini e gli uomini con le loro mogli e i loro figli. I ragazzini calciavano il pallone per le strade senza macchine e un gruppo di giovani donne leggevano sotto i rami degli alberi. Lituania si siede sulla panchina e finalmente, dopo tante ore di viaggio, tira un respiro di sollievo.

Lascia il baule con Polonia lontano dalla sua mano. Si stiracchia le dita, che schioccano come ossa spezzate. Ha trascinato Polska fino a questa collinetta, in questo parco senza vita. La panchina pare avere più ruggine di quanto ne abbia un ferro ossidato. Ormai non ha più nemmeno un briciolo del suo vecchio colore, Lituania non potrebbe dire come sia stata in passato. L’albero che copre loro due è sopravvissuto alla guerra. L’ombra e il fruscio delle sue foglie sono piacevoli. Lituania si stiracchia la schiena e lascia i suoi capelli scivolare lungo le spalle. Si sente bene.

Apre il baule. Polska non ha cambiato posizione per tutto il viaggio. Ha bagnato il corpo d’acqua e ora sembra ben più che un cadavere putrefatto. La pelle è ugualmente incolore, ma c’è molta più carne di quanta ne aveva il corpo prima di iniziare il viaggio. Fa uscire con cautela il busto e poi le gambe che, leggere, si aprono sulla panchina. I piedi sporgono un po’. Lituania sorride ingenuamente e poggia la testa dell’amico sulle sue ginocchia. La folla di polacchi aumenta sempre più per le strade.

“…dopo la Grande Guerra, finalmente potremo avere la nazione che noi, popolo polacco, abbiamo chiesto per anni…” mormora una voce in lontananza, da qualche altoparlante per strada. Lituania sospira ancora, con la gola attorcigliata attorno ai polmoni. Respira con fatica. Il sole cala in lontananza, dietro ai palazzi accartocciati e quei pochi che stanno per essere ricostruiti. La città vuole rivivere di nuovo. Lituania guarda Polonia, che pare più dormiente che morto. Si chiede con ironia quando potrebbe smettere di fare il pigro e svegliarsi. Sorride con più maturità. Respira profondamente. È pieno di commozione.

“…presto avremo conferma dalle Nazioni dell’Unione Sovietica e dalla Germania Est sugli accordi stipulati…” non lo sente quasi più. La folla in strada è diventata immensa. Non vede altro che il tramonto scomparire per davvero oltre l’orizzonte. Il cielo da arancione diventa pian piano blu e nero. Vede le prime stelle puntellare il cielo. La stella della sera è un puntino insignificante adesso. Gli sembra che la testa e il corpo di Polonia brucino di fuoco adesso. Ha occhi lucidi.

“…gran parte del blocco orientale ha dato già conferma alla formazione di una nuova Polonia…

Che idioti, pensa Bielorussia, che ha ascoltato finora, senza aprir bocca, tra le ombre delle foglie, il discorso. Lituania aveva creduto che non l’avrebbe seguito e tutt’ora crede che sia ancora lontana chilometri da Varsavia. Il ragazzo è tuttora seduto in panchina, coi capelli spruzzati di arancione. Bielorussia regge fra tre dita il coltello a serramanico. Alza ancora gli occhi e guarda la schiena di Lituania con disprezzo. Colui che sta facendo soffrire suo fratello siede in un parco, acciambellato di fronte al sole, con le ginocchia pregne di qualcosa che non avverrà mai. Bielorussia si sente ancor più insultata. Sente che Russia sia stato ancor più umiliato. Lentamente si avvicina alla schiena ora scura di Lituania e alza il coltello, di cui una luce lo sfiora e lo illumina sulla sua testa.

Urlo di gioia tra le strade. È arrivata una lettera.

“Biela” Bielorussia, col braccio ancora alzato, rimane bloccata come una statua di sale “metti giù il coltello” si scuote di nuovo, alza più in alto la lama bianca. Lituania si volta con lentezza. La ragazza deglutisce, i suoi occhi si fanno accesi come lampi: viene di nuovo colpita dagli occhi azzurri di Lituania. Rimane ancora paralizzata: vista la lama, Lituania sembra essersi fatto lupo. Nascondendo il tremore e l’indignazione, digrigna i denti.

“Ti stai prendendo in giro, Lituania e tu lo sai!” dice, reggendo l’arma con sicurezza “E stai prendendo in giro anche mio fratello!” urla, questa volta, con molta più rabbia, credendo in ogni parola che ha pronunciato. Si sforza di guardare negli occhi il suo avversario. Lituania abbandona Polonia e si alza in piedi. Bielorussia abbassa il coltello, ma rimane ugualmente in allerta: qualcosa in Lituania la turba “Tu ora vieni con me e ce ne torniamo a casa!”

“Tu non mi ordini niente qui” dice con molta più certezza di quanto abbia detto lei. Questo la disturba ancor di più. Un nervo le si scopre sulla sua tempia e incomincia a pulsare. Lituania pare feroce e controllato allo stesso tempo. La fulmina con gli occhi e non spezza il contatto tra di loro. Lei si sente frustrata. Alza il coltello e ruggisce al vento.

“Oh, fanculo!” 

Ma non lo colpisce, così come non lo colpisce la seconda volta e la terza. La quarta. E la quinta. Lituania la spinge e si scansa. Non le ruba il coltello. Non la affronta. Bielorussia si carica di odio. Ricorda il fratello seduto sulle scale di casa, ignorante del mondo attorno a sé, solo concentrato sulla ricerca di questo ragazzo ingrato. In un attimo diventa ira. Ruggisce di nuovo. Non lo colpisce, si scansa in tempo. Respira con affanno, con le mani imbrigliate nella lama, ora scura per il tramonto andato. Non vede quasi nulla di fronte a sé, Lituania è solo un ombra immobile e irrisoria. Digrigna i denti, quasi come se li volesse spezzare tra loro.

“Ma che cazzo stai facendo?!”

“Aspetto”

“Cosa?”

E’ arrivata!” urla l’altoparlante, come se non ci credesse nemmeno lui “L’Unione Sovietica ha accettato! La Repubblica Popolare Polacca è una vera Nazione!”

E grida di mille e mille voci. Bielorussia non riesce a credere alle sue orecchie. Si fa pallida come la pancia di un pesce. Guarda l’ombra di fronte a sé come se fosse la sola cosa veramente importante ora. Lituania respira aria, dolore e liberazione. Non ci fosse la luce, probabilmente vedrebbe un sorriso e lacrime di felicità.

Rimane lì, ferma, immobile come gesso. Il mondo le gira attorno, il terreno le pare affatto sicuro sotto i suoi piedi. vede solo Lituania cadere con le ginocchia a terra, dove sulla panchina è disteso quello che lei credeva e sperava che fosse un morto.

 

 

 

 

 

Non aveva sbagliato un colpo.

Non aveva agito come un bambino, ma come un uomo. Non era corso come un pazzo e non aveva urlato quando i due soldati erano stramazzati sulle coperte di lana, nemmeno quando si erano girati e rigirati nel loro pantano. Aveva ricaricato di nuovo il fucile e le uniche vere voci infantili che sentiva erano quelle dei bambini nella stalla, spaventati da tanti spari e sangue che macchiava le finestre. Aveva ricaricato una terza volta il fucile e aveva colpito il petto di Prussia.

Le grida fuori sono più che disperate. Qualche ragazzino, più adulto, urla di scappare. Ogni piccino, chi con le gambe lunghe, chi corte, segue un solo nuovo capo e svaniscono dalla vista e dai pensieri di Polonia. Prussia è rotolato giù per le scale e si accascia a terra, su vera terra. Non vi sono più urla. Il fucile ha ancora due colpi nel caricatore. Polonia vede più sangue che il nero della sua divisa, che ha infangato anche la sua di divisa a righe. Polonia lo osserva senza rancore e senza gioia. Prussia sputa un grumo di sangue. Alza lo sguardo sulle righe nere di Polonia, imbrattate di fango e neve. Vorrebbe rosso su di lui. Ringhia dal profondo della sua gola.

“Ma non capisci?” sputa una seconda volta “Tutto quello che fai non servirà a niente! È tutto inutile. Tutto questo non è mai accaduto e non accadrà mai!” lo fulmina crudelmente coi suoi occhi, sperando in una reazione dall’altro “Quei bambini sono morti e non puoi fare niente per impedirlo!” Polonia sembra guardare attraverso il corpo che lui stesso ha martoriato. Non ha agito con odio. Sente un alito di vento sulle sue guance. Questa brezza è completamente innaturale: non dovrebbe essere calda, in mezzo alla gelida neve. Allunga lo sguardo dove batte il venticello “Che fai, nano!?”

Il fucile gli scivola dalle mani e cozza col terreno. Afferra quel che scorge lì affianco: il bastone e la coperta che ha racimolato. Li guarda con smarrimento. Prussia non accetta di essere ignorato dal demonietto che gli ha appena sparato a morte.

“Io… ti ucciderò” sghignazza con vergogna. Polonia alza gli occhi su di lui. Non ha reazione, come se quel pantano non lo avesse creato lui stesso “Io ho ucciso tutti voi e vi ucciderò ancora!” Polonia osserva i due oggetti che ha in mano e gli risultano più che familiari “Nessuno si chiamerà polacco, perché non esisterà nessuna Polonia…” Polonia esamina il bastone affilato e inizia a strusciarci sopra le unghie. Rivela argento vivo. Non è un bastone: è una lancia “Tu rimarrai con me per sempre… Ci faremo guerra tutti i giorni e io vincerò sempre! Non puoi andare via se non qui!” ride, come se avesse realmente vinto. Polonia riconosce la coperta: era la stessa che scoprì con Toris, nei suoi ricordi. Questi oggetti non li ha trovati per caso, si rende conto “Sarai per sempre il perdente e sarai per sempre umiliato e sconfitto!”

Polonia gli porge la coperta. A Prussia cade il sorriso e l’ironia. La fa adagiare sul corpo spruzzante di carne viva e sangue bruno. L’uomo sente vero calore. Questa non è una coperta, ma una bandiera bianca che il suo sangue sta macchiando per metà di rosso. Polonia, per la prima volta, lo guarda negli occhi senza alcun timore. Si sente grande e forte, Prussia si sente piccolo e timido. Non riconosce il ragazzo che ha visto per secoli e secoli di lotte e tragedie. Non sa chi sia questo piccolo uomo.

“Io oggi ho vinto, Prussia”

La bandiera è macchiata del sangue di un tedesco. Polonia la ritira. La brezza invernale è completamente distrutta dal calore della bandiera e della sua asta. Il ragazzo vede dei fermagli su di essa e vi aggancia la stoffa. Questa non è mai stata una lancia, ma un’asta per bandiere. Polonia si erge alto, col braccio fermo sull’argento. Prussia guarda Polonia, Polonia guarda Prussia. È tutto finito, sussurra una voce alle loro orecchie. L’aria invernale diventa estiva, pare che la neve si scongeli, o diventi carta di pagine di libro. Si sdrucciolano gli alberi e la stalla e la casa. Si sdrucciola il terreno e ritorna il bianco. Sono tornati indietro. Polonia guarda con occhi limpidi Prussia e un’aria più infantile, ma non immatura.

“Tu non sei veramente così, Prussia, io lo so!” Prussia accoglie queste parole con un sorriso che sa di rimpianto e di consapevolezza.

Polonia ricorda diversamente Prussia. Ricorda lui e Ungheria, nel giardino di Austria, lui con la spada e lei vestita da uomo. Ricorda i battibecchi, le urla e le risate. Ricorda Prussia alla finestra, silenzioso, ad ascoltare il pianoforte di Austria. Ricorda Prussia in una guerra lontana, retto dalle sole ginocchia e dall’orgoglio di un titano, brandire la spada e mostrare lo sguardo fiero di un cavaliere senza paura. Polonia guarda ora Prussia e non vede niente di tutto ciò che ricordava. Abbassa la fronte, abbattuto, deluso, confuso.

“Perché?”

Prussia sorride e non risponde. Scuote la testa. La risposta non la sa nemmeno lui. Non perché aveva desiderato gloria e fama, non avrebbe ucciso per così poco. Non perché si sentisse schiacciato da altri, non li avrebbe trattati come servi. Non perché volesse essere il migliore al mondo, non serviva una guerra per dimostrarlo. Perché voleva il fratello felice, in un mondo dove nessuno sarebbe stato migliore di lui. Ma non solo per questo. Polonia rinuncia alla risposta, non sa se la desidera per davvero.

Prussia sa che fra poco si separeranno. La carta non muta più: è già completamente trasformata. È solo infinito bianco, con granelli di polvere gialla e rossiccia. Polonia ricorda di avere una bandiera fra le mani e ricorda che in questo luogo non credeva di ritornarci più. Sente un fischio di volatile reale. Sente un richiamo dall’alto. Polonia spalanca gli occhi, i denti dimenticano di reggersi alla mascella. Toris fa una picchiata rapida, le sue piume paiono prendere fuoco con l’aria bollente. D’istinto Polonia alza il braccio e poco dopo gli artigli minuti del suo amico si curvano sul suo osso, che di carne non ne ha più. Polonia diventa bollente, le lacrime si liberano, la gola fa fatica a riempirsi d’aria.

“Toris!” il volatile lo guarda dritto negli occhi e strabuzza le penne “Credevo di non rivederti mai più!” il falcone si scrolla ancora le pelle della coda, nere e rosse. Osserva di sbieco il polacco e il suo sorriso di gioia. I suoi occhi si fanno come offesi, ma non irosi. Apre il becco e pizzica l’orecchio di Polska. Polonia dimentica la sorpresa e sente dolore. Quasi dimenticava tutto questo. Non si arrabbia, ma ride. Gli mancava tutto questo. È sinceramente felice. Prussia vede un secondo volatile. L’aquila nera dagli occhi azzurri non l’aveva mai abbandonato. Guarda il suo allievo e lo stato in cui è ridotto. Guarda Polonia e Toris, finalmente riuniti. Pare come annuire fra sé e sé. Si trasforma, diventa ciò che è sempre stato finora. Toris smette di tirare le orecchie a Polonia e osserva di fronte a sé. Polonia, confuso, fa lo stesso.

Vede penne nere aprirsi e rivelare vestiti candidi. Incrocia i suoi occhi verdognoli con quelli cerulei dell’uomo, che fino a poco fa credeva un semplice pennuto. Friedrich II di Hohenzollern annuisce e sorride. Polonia si sente meravigliato, come se non sapesse più reggere le sue stesse spalle. Il sovrano apre la mano anziana e rugosa e rivela oro e pietruzze sconosciute. Brilla la corona che il ragazzo credeva perduta nel suo primo giorno di prigionia. Timido, capisce che è sua e, con la mano decisamente tremante, afferra la coroncina. Toris, veloce, se la porta alla testa. E’ perfetta per lui. Meravigliato, Polonia poggia la mano al cuore e fa un inchino imbarazzato. Friedrich pare ridere della sua insicurezza.

“Mi prenderò cura io di questo qui” e indica scherzosamente Prussia, senza più sangue sulla divisa, senza più alcun dolore. La carta bianca guarisce ogni cicatrice “Ragazzo, tu invece dovresti andare: questo posto non è fatto per te” sorride con le labbra congiunte. Le parole erano anche per il giovane Toris che muta ancora, così com’era mutato al suo ultimo saluto con Liet. Diventa gigantesco, le piume cambiano colore, come invecchiate o forse divenute ben più sagge dopo una lunga avventura. Polonia si ritrova sulla groppa del falcone, bianco e puro, con la coroncina dorata alla sua testa, diventata anch’ella matura e possente. Polonia pensa che la sua vita stia per cambiare una seconda volta e pensa che debba rinascere ancora in un altro luogo. Sta per rivivere di nuovo.

Toris è grande. Toris è argentato. Toris è una fenice d’argento.

Prussia si alza in piedi, senza nemmeno una macchia sulla divisa. Guarda il Vecchio e Polonia. Trattiene la voglia di urlare “Salutami West e… controlla che Gilbird stia bene e… prenditi cura di Austria e Ungheria e… anche di Ita...” gli si rompe la voce. Polonia non vede lacrime, ma le sente “Dì a Francia e a Spagna che mi dispiace… Polonia, mi dispiace…” e sorride, come se non stesse per essere lasciato lì, in quel Purgatorio, per ancora tanti anni e forse decenni.

Toris spicca il volo. Le sue ali battono leggere sul terreno, come se fatte loro stesse di carta. Alcune piume lo abbandonano e raggiungono l’alto del cielo, di un delicato color arancio e blu. Polonia guarda ancora in basso, senza vertigini, con le mani fra le piume del collo di Toris. Prussia e il suo maestro sono piccole bamboline di stoffa in lontananza. Tende il collo, gli si spezza il cuore e riempie i polmoni “Addio, Prussia!” urla.

Non vede nient’altro, le due figure scompaiono del tutto. Il cielo su cui stanno volando pare scurirsi e farsi ben più che nero. Polonia vede stelle e sente aria bollente sul cranio spellato. Toris lascia una scia di piume bianche e trasparenti, che paiono ben più luminose degli stessi corpi celesti nel firmamento. Polonia spalanca gli occhi, il cuore gli batte forte. Ricorda qualcosa che avrebbe dovuto ricordare molto tempo fa. La sua pupilla si fa piccola nel vedere il suo stesso ricordo.

 

Il cavallo inciampa nello strapiombo e lui stesso cade a terra. Ruzzola lontano dalla povera bestia, senza più gambe per sorreggerla. Si rialza, gli si fa il cuore piccolo. Vede Varsavia, città che era tutto il suo mondo, rovinata e fumante di morte. Digrigna i denti: il cavallo si agita come un ossesso. Afferra la pistola e gli spara alla testa.

Corre nelle strade scoscesi, tra gli alberi strappati dalla terra, tra i ciottoli fumanti per i bombardamenti dall’alto. Le crepe nel suo cuore si riaprono. Si sente morire soffocato dal caldo. Tutto ciò in cui credeva sta per sparire del tutto.

Un pianto in lontananza, qualcuno dev’essere tra le macerie. Polonia si sente più morto che vivo, eppure si commuove e cambia strada. La periferia di Varsavia è ugualmente annientata dalle bombe aeree. Vede quella che ricordava una scuola, un giardino senza più giochi, un bambino che trascina un braccio da sotto le macerie. Il bambino recupera il compagno ricolmo di sangue nero. Polonia sente il suo cuore spezzarsi.

Il più in salute, occhialuto e disperato, vede la sua divisa e gli supplica di aiutarlo. Polonia è pessimista e non ha voglia di sprecare altro tempo, anche se triste: morirà, dice. Il bambino non vuole credergli e lo supplica di fare qualcosa, cieco delle sue stesse ferite e delle bende che fasciano il suo petto. Polonia si commuove e rigira il corpo martoriato.

Il piccolo respira, ma non si muove. Lo sente piangere, con gli occhi ciechi e neri e i capelli ramati. Polonia d’istinto pensa alla pistola, ma non potrebbe: non ha il coraggio e nemmeno le pallottole. Il bambino con gli occhiali capisce che è ormai tutto perduto e si copre il volto con gli occhi. È colpa sua, dice, Polonia lo ignora. Stringe il bambino, vede lentiggini e pelle bianca, vede capelli biondini e spalle larghe. Gli dice che andrà tutto bene, che deve solo rilassarsi. Che non sta accadendo nulla di brutto.

Il bambino pare credergli. Respira profondamente. Non ha più sangue. Chiude del tutto gli occhi. Non li riapre più.

L’altro piange, Polonia si sente sconfitto. Non sa più cosa fare e non sa più se valga la pena andare avanti. Presto morirà, lo sa bene, ma non vuole morire nascosto come un topo. Si alza e se ne scappa.

Incontrerà Russia, alto, con la divisa stirata e lucida, ridente e vendicativo e dei due bambini non ricorderà nulla.

 

Polonia batte gli occhi, incredulo di se stesso per non essersi ricordato qualcosa di così importante. Sotto di loro, a centinaia di chilometri e miglia da terra, brilla un intero mondo e luci di città. Gli sembra di essere su di un elicottero. Toris non ha mutato espressione e non pare leggere i suoi pensieri. Polonia guarda la bandiera e l’asta che ha portato con sé. Prende un respiro profondo, si avvicina al becco del volatile “Toris, mi sono ricordato di una cosa di quand’ero ancora vivo. Vorrei raccontartela” il suo amico non accenna nulla, forse indifferente “Quando Varsavia venne bombardata, io mi recai laggiù per fermare Russia, anche se non c’era più niente da fare. Lì mi sono fermato in una scuola completamente distrutta e lì ho visto Simeon soccorrere un altro ragazzino tra le macerie. Quello era Feliks Lukasiewisz, uno dei bambini della famiglia che abbiamo visto”.

Toris non muta ancora espressione. Polonia si avvicina ancora “Toris… eri tu quel bambino. Tu ti chiami Feliks Lukasiewisz”

Il volatile spalanca i suoi occhi scuri. Anche le piume paiono sorprese o meravigliate e abbandonano tutte il corpo alato. Polonia non sente più sostegno sotto di sé e stringe con forza l’asta della bandiera. Le piume si sparpagliano nel cielo stellato. Polonia inizia a precipitare verso terra, eppure non ha paura. Toris si è ritrasformato in bambino, ma diverso da quello che ha sempre visto. I suoi capelli non sono rossicci, ma biondi, i suoi occhi non più scuri, ma chiari e limpidi. Con lentiggini e spalle larghe. Precipita dolcemente anche lui. Allunga una manina, Polonia d’istinto la afferra. È tiepida, piccina. Si sente incantato. Feliks Lukasiewisz sorride alla Nazione con la bandiera rapita dal vento.

“Grazie, Polonia, per avermi riconosciuto” dice, ridente “Mi bastava essere ricordato per tornare a casa dalla mamma e dagli zii” Polonia non potrebbe essere ancor più sorpreso di aver detto una verità “Ti sei davvero ricordato di me!” Polonia sente lacrime agli occhi.

“E come potrei dimenticarvi? Avete dato la vita per la vostra nazione. Che Dio vi benedica, voi tutti” le lacrime non scendono, ma salgono, trasportate dalla corrente calda e frizzante.

Il terreno sotto di loro si apre e diventa terra nera. Feliks pare rallentare la corsa della loro discesa. L’aria non sferza più le guance rosse di Polonia. Man a mano i piedi toccano vera terra, morbida come pan di Spagna. Le ginocchia rinsecchite giacciono sullo strato più morbido del mondo. Le stelle brillano come diamanti sulle loro teste. Feliks, leggero come un batuffolo di polvere, poggia l’asta della bandiera. Quella affonda da sé, come richiamata. Polonia rimane seduto sulle ginocchia, guardando il bambino riavere le piume e la coroncina d’oro. Polonia riconosce in lui l’aquila bianca della sua terra.

Le piume lasciano fumo e ciò che sembra cenere. La picchiata è lenta, come se il vento faticasse a portare il falcone alla Nazione. Feliks si getta su Polonia e il suo becco trafigge con lentezza il torace, sotto al collo. Si fa piccino, le piume bruciano. Polonia respira il fumo e gli ricordano le castagne ardenti. Adora questo profumo. Il falcone entra nel suo cuore. Il ragazzo non sente altro che un caldo brioso. Gli farebbe male il petto, ma il fumo lo acquieta. La sua bandiera, macchiata del sangue di Prussia, pare invece tinteggiata dal porpora del coraggio che sente ora. Non c’è la sua aquila leggendaria, eppure non ne sente la mancanza. La sua pelle incomincia a bruciare, vero fuoco divora la sua carne e beve il suo sangue. Questa sensazione è insolitamente piacevole per lui. Si lascia annientare dal fumo e dal calore, completamente inebriato e, in verità, anche stanco.

 

 

 

 

 

Apre gli occhi, come un bambino apre per la prima volta gli occhi al mondo.

Si sente debole, stanco, senza energie. Batte le palpebre, come se fosse la cosa più difficile del mondo. I rumori sono ovattati e man a mano si fanno reali alle sue orecchie. Lituania ha abbandonato Bielorussia e si sta precipitando da lui, senza sapere di trovarsi su di una panchina arrugginita.

Vede Liet e con fatica cerca di realizzare che sia tutto vero.

A Bielorussia cade il coltello dalle dita. Lo dimentica e si dirige dal rinato, con lo sguardo vuoto, la confusione e le lacrime di frustrazione. Polonia guarda Liet e lo vede sorridere e ridere e piangere, tutto insieme. Fa un nuovo sorriso, che non ricordava di aver mai visto. Polonia pensa solo che sembra molto più alto di come ricordasse e riderebbe, un altro giorno, di questo pensiero. Ora è veramente stanco.

Alza gli occhi. Fuochi nel cielo nero e stelle minute in lontananza. Adesso riesce ad ascoltare gli spari e la musica. Sente un violino e un grammofono o forse se lo sta solo immaginando. Osserva in silenzio, tra le lacrime di gioia di Liet e quelle infuriate e internamente felici di Biela il cielo costellato di colori. Spari, applausi, risa e una nuova nascita. Polonia è spossato e sinceramente felice. Crede di avere gli occhi lucidi adesso.

Sorride e guarda ancora Liet. Alzerebbe le dita per asciugargli le lacrime, ma non ha forze. Lo guarda e pare ridere sotto i baffi e piangere allo stesso tempo. Lituania comprende, e gli poggia una mano sulla testa calva, con mille e mille emozioni nel petto.

 

Russia apre la busta, nel buio del suo salotto. Estonia e Lettonia lo guardano e lo vedono annuire. I due fratelli sospirano, riconoscendo la sconfitta ben prima di leggere il contenuto della missiva.

Si stringono vicino al cammino spento, si accostano con un braccio attorno alle spalle e ignorano il loro padrone. Ignorano la mano sul suo volto e le lacrime che inesorabili scendono sulla cicatrice riaperta e bendata e tra le dita.

Mentre Polonia e Lituania piangono per essere di nuovo riuniti.

 

 

 

 

 

 

ANNUNCIO FINALE DI L0G1

 

Ho avuto solo una volta la sensazione esuberante di aver finito una fanfiction dopo anche solo un paio di anni dalla sua pubblicazione. È pura magia, felicità, soddisfazione e anche un briciolo di arroganza per aver fatto quello che per me rientra tra le cose più difficili da portare a termine. Potrebbe essere qualsiasi cosa, ma io tendo a lasciare le cose a metà, meno che questa.

Grazie al vostro aiuto e al vostro sostegno durante questi due (?!) anni dalla nascita della Fenice d’Argento.

Sarebbe troppo lunga la lista di persone che hanno contribuito, grazie a recensioni e alla lista dei preferiti che cresceva di mese in mese. Vi dico solo questo: vi ringrazio di cuore per avermi spronato a finire questa pazza e triste storia. Era iniziata per essere una stupidaggine di cinque capitoli o meno e adesso abbiamo di poco oltrepassato i venti.

Siete meravigliosi, voi tutti. Vi ringrazio dal più profondo del cuore <3.

Per sempre vostra,

L0g1

 

P.s Whoops! Dimenticavo: piccolo regalo… non è del tutto finita, in verità. Ci sarebbe anche l’Epilogo… o qualcosa del genere…

;)

  
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