Fanfic su artisti musicali > Demi Lovato
Segui la storia  |       
Autore: crazy lion    06/10/2017    5 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Salve a tutte, ragazze! Come state?
Aggiorno alle due di notte e non l'ho mai fatto in vita mia. Dio, sono pazza! No, è che domani dovrò operarmi ad una gamba e sono molto agitata, ma siccome poi mi ci vorrà un po' di tempo per riprendermi e non so se, avendo male, riuscirò a postare in fretta, ho concluso questo capitolo lunghissimo sul quale stavo lavorando da più di un mese e oggi pomeriggio e stasera l'ho ricontrollato e corretto. Ora lo posto solo per voi, e credo si capisca che, se lo faccio a quest'ora, è perché adoro voi che seguite e commentate la storia e amo i miei personaggi.
 
Devo fare alcune precisazioni, scusate se mi dilungherò un po'.
* Mi è stato detto che i numeri vanno scritti in lettere a meno che non si tratti di date o risultati scientifici cosa che non sapevo), per cui sto rifacendo un po' un editing di questa storia, correggendo errori, refusi e sistemando anche la questione dei numeri.
* Ho aggiunto un piccolo pezzo al capitolo 58 perché mi sono accorta, rileggendolo, che Andrew non ha detto a Demi che anni prima beveva ogni tanto e mi pareva importante che lo facesse, per cui troverete delle riflessioni in proposito. Ringrazio la mia amica _FallingToPieces_ per aver controllato quella pagina e avermi detto cosa ne pensa. Grazie cara, ti dedico questo capitolo! Ti adoro!
Ho anche aggiunto un mini-pezzo nel capitolo 13 per spiegare che, quando Andrew ha trovato i gatti, per legge ha dovuto mettere un annuncio e dato che chi li aveva abbandonati, dopo dieci giorni, non si è fatto vivo, ha potuto tenerli. Questo è stabilito dallo Stato della California: se si trova un gatto per strada è necessario fare così. Insomma è una precisazione, ma ho voluto essere corretta.
* Avevo bisogno che Mac uscisse da scuola e mi sono inventata una scusa un po'… boh, strana. Di solito se manca un insegnante e nessun altro può sostituirlo gli studenti vengono divisi nelle varie sezioni, ma qui non ho voluto aggiungere questa cosa perché era assolutamente necessario che lei uscisse prima, quindi ho fatto andare via tutti i bambini con genitori o parenti dicendo che non era possibile fare altrimenti.
* Ad un certo punto il capo di Andrew gli romperà un po' le scatole, spero che non la odierete per questo XD.
* Mi auguro di poter aggiornare ogni due o tre settimane, nonostante la tesi, i miei problemi a casa e un po' di altri casini.
 
Dopo questa pappardella che forse non leggerà nessuno, vi lascio al capitolo più lungo che io abbia mai scritto. Le note in fondo sono importantissime, soprattutto la prima, quindi vi prego di leggerle.
E niente, ci sentiamo appena sto meglio. Fatemi gli auguri!
 
 
 
 
 
 
85. TRA ALTI E BASSI
 
Visto che Hope dormiva e che Mackenzie era in camera sua a leggere ciò che aveva fatto a scuola quel primo giorno, Demi ne stava approfittando per suonare un po' il piano e cantare. Non lo faceva da qualche tempo e le mancava. Ricordava a memoria le parole delle canzoni che aveva composto. Stava per iniziare a cantarne una, quando una vibrazione del cellulare la avvertì che c'era un messaggio nella sua casella di posta elettronica. Lo aprì e vide che a scriverle era stato
Phil.
 
Ciao Demi,
come stai?
Tra le varie tracce che mi hai mandato in questi mesi, io e i musicisti ne abbiamo scelte alcune che ci piacciono molto. Tra queste abbiamo apprezzato in particolare "Sorry Not Sorry" e "Tell Me You Love Me". Altre, invece, sono da rivedere. Forse dovresti cambiare qualche frase, ma per il resto non sono male.
 
Appena tornerai al lavoro dovremo subito metterci all'opera. Non serve dirtelo, ma "Confident" è uscito nel 2015 e da allora hai solo pubblicato alcuni singoli. Sono quattro anni che non esce più un tuo album, quindi dovremo lavorare sodo per cercare di pubblicarne uno il prima possibile, ma allo stesso tempo di fare le cose per bene.
 
Ti aspettiamo lunedì.
A presto,
Phil
 
Demi sospirò. Il suo manager aveva ragione. Era vero, si era presa un anno di pausa dalla musica dopo aver adottato Mackenzie e Hope e non se ne pentiva affatto, ma dal 2015 al 2018 non aveva mai avuto abbastanza ispirazione per scrivere un certo numero di canzoni in modo da poter iniziare a lavorare su un nuovo CD. I fan l'avevano sempre capita e supportata, dicendole di prendersi i suoi tempi e nessuno, nemmeno una volta, le aveva fatto alcun tipo di pressione, ma la verità era che quattro anni senza pubblicare un album erano decisamente troppi.
Grazie al cielo nemmeno i giornalisti mi sono stati addosso in questo senso pensò.
Era stato già abbastanza brutto sentirsi rivolgere quelle accuse su una sua presunta ricaduta nei disturbi alimentari e nell'autolesionismo. Non avrebbe sopportato anche domande come:
"Quando pubblicherai un nuovo album? Perché non ne è uscito nessuno, in questi anni? La musica non ti interessa più?"
Lei la adorava! La musica era da sempre stata la sua più grande passione e l'avrebbe dimostrato ancora di più, prima di tutto a se stessa e poi agli altri, tornando a lavorare con grinta e determinazione dal lunedì successivo.
Iniziò a suonare il piano, entrando in un altro mondo fatto di suoni che si univano armoniosamente l'uno con l'altro; poi cominciò a cantare.
"Payback is a bad bitch
And baby, I'm the baddest
Now I'm out here looking like revenge
Feelin' like a ten, the best I ever been
And yeah, I know how bad it must hurt
To see me like this, but it gets worse (wait a minute)
Now you're out here looking like regret
Ain't too proud to beg, second chance you'll never get
And yeah, I know how bad it must hurt to see me like this
But it gets worse (wait a minute)
Now payback is a bad bitch
And baby, I'm the baddest
You fuckin' with a savage
Can't have this, can't have this (ah)
And it'd be nice of me to take it easy on ya, but nah
 
Baby, I'm sorry (I'm not sorry)
Baby, I'm sorry (I'm not sorry)
Being so bad got me feelin' so good
Showing you up like I knew that I would
Baby, I'm sorry (I'm not sorry)
Baby, I'm sorry (I'm not sorry)
Feeling inspired 'cause the tables have turned
Yeah, I'm on fire and I know that it burns
[…]"
"Sì!" esclamò alla fine. "Sono riuscita a cantare anche la parte del coro!"
Si riferiva a quegli "wait a minute", "ah" e "I'm not sorry". Cantare tale canzone la faceva sempre sentire meglio. Aveva spiegato al suo manager che l'aveva scritta per i suoi haters, ovvero per tutti coloro che la odiavano e poi aggiunto che l'aveva fatto, in particolare, pensando alle false accuse di quella giornalista che le avevano dato tanto fastidio. Probabilmente la diretta interessata non avrebbe recepito il messaggio - e nemmeno sentito la canzone visto ciò che le aveva detto -, ma a Demi questo non interessava. L'unica cosa che le importava era che aveva scritto quei versi per sfogarsi, per stare meglio. Sì, aveva usato anche alcune parolacce, ma non se ne vergognava affatto. Altri cantanti lo facevano e, anche se a lei non piaceva dirle, in quella canzone ci stavano tutte. Aveva avuto un momento di indecisione prima di scriverla, pensando che Mackenzie non avrebbe dovuto imparare parole del genere e che non voleva essere un cattivo esempio per lei, ma alla fine si era detta che, in ogni caso, la bambina le avrebbe sicuramente sentite a scuola e che lei, come mamma, sarebbe stata capace di insegnarle che meno se ne dicono, meglio è.
Si alzò in piedi, trasse un profondo respiro e si rese conto che, effettivamente, si sentiva più leggera.
Aveva lasciato la porta aperta, in modo da udire il pianto di Hope o le grida di Mackenzie. Temeva sempre che la bambina avrebbe potuto avere un'altra crisi. Da un po' non accadeva, ma la ragazza credeva che sarebbe successo di nuovo. Non voleva essere pessimista. Era il suo istinto, quello che Dianna avrebbe definito "sesto senso", a suggerirglielo.
"Arrivo!" esclamò poco dopo, quando sentì la bimba più piccola strillare.
La trovò nel lettino, seduta. Si era scoperta buttando copriletto e lenzuola in fondo ai piedi.
"Ciao, amore! Abbiamo fatto un po' di disordine su questo lettino, eh?" La bambina smise di piangere e le rivolse uno sguardo colpevole, chiaro segno che aveva capito ciò di cui la mamma stava parlando. Demi le sorrise e le scompigliò i capelli. "Non sono arrabbiata" la rassicurò. "Quando sarai più grande imparerai a rifarti il letto e sono sicura che sarai bravissima! Tra qualche mese comincerai a dormire con la tua sorellina, visto che ormai sei grande."
Pensava di provare a fare quel cambiamento quando Hope avrebbe avuto due anni. Ne aveva già parlato con Mackenzie e lei era stata d'accordo. La sua camera era piuttosto grande, lo spazio c'era; poi, se la piccola l'avesse voluto, più avanti avrebbe potuto dormire da sola, nell'altra stanza.
La prese in braccio, le fece indossare le calze e le scarpe e, mentre la bambina girellava per la stanza, lei rimise a posto ogni cosa.
"Mamma, giochiamo?" chiese la piccola, impaziente.
"Sì, un minuto e andiamo."
"Gioca anche Mac Mac?"
"Andiamo a chiederglielo, se vuoi, ma credo che stia…"
"Sì!" esclamò Hope, felice.
 
 
 
Mackenzie stava disegnando. Non era la prima volta che lo faceva, ma da un po' di tempo a quella parte, all'insaputa di tutti, disegnava solo quando non aveva nessuno intorno. La volta in cui aveva raffigurato la casa dei suoi genitori naturali e Selena e la mamma avevano visto tutto, si era sentita male. Non voleva far angosciare sua madre. Era già stata troppo male per colpa sua nei giorni precedenti. Non aveva mai parlato, nemmeno una volta, con Catherine, di questa sua attività che nascondeva a tutti. In fondo aveva cominciato a disegnare con regolarità solo da quattro o cinque giorni, ma aveva già riempito un quaderno di fogli nei quali aveva fatto sempre le stesse cose. Tutto ciò iniziava a diventare una specie di ossessione per lei, anche se in realtà Mackenzie lo faceva in modo automatico. A volte pensava:
Ora voglio disegnare un campo pieno di fiori.
Dopo un po', invece, si rendeva conto che la sua mano faceva una cosa completamente diversa da quella che la testa le aveva ordinato. Su quei fogli c'erano… Tre piccoli colpi alla porta la distrassero dai suoi pensieri. Si alzò e andò ad aprire. Erano la mamma e Hope.
"Mac Mac!" esclamò la bambina, gettandosi fra le braccia della sorella, che la strinse forte. "Vuoi giocare con noi?"
Dille che non posso, mamma. Devo studiare.
 
 
"È il primo giorno di scuola e già ti metti a studiare? Vi hanno dato compiti? Non me l'avevi detto!"
No, ma voglio comunque ripassare il poco che abbiamo fatto in classe. Dille che giocheremo più tardi,.
"D'accordo."
Demi lo riferì a Hope e la bambina fece scnno di sì, lasciando la stanza con una faccina triste che intenerì molto Mackenzie e fece star nmale la mamma. Tuttavia er vero, ora era tempo di smettere di disegnare e cominciare a studiare.
 
 
 
"No" disse Janet, perentoria.
"Cosa vorrebbe dire?" le domandò Andrew. Lavorava in quello studio legale da otto anni e il suo capo era sempre stata una donna gentile e disponibile. Quella sua risposta così secca l'aveva fatta apparire molto più autoritaria di quanto fosse in realtà. "Non mi sembra di averti fatto una richiesta impossibile. Ti ho semplicemente domandato il permesso di uscire alle 15:00 per stare un po' con Demi e poi accompagnare lei e Mackenzie dalla psicologa. Sai che dobbiamo parlarle."
Nei giorni precedenti le aveva raccontato tutto quel che era successo a Mackenzie nell'ultimo periodo, aggiungendo che lui e Demetria avrebbero dovuto parlarne con Catherine per farsi dare dei consigli e anche, almeno così speravano, per essere tranquillizzati un po'.
"Non ho bambini," riprese la donna più dolcemente, facendolo accomodare accanto a lei nel suo ufficio, "ma posso immaginare che, trattandosi di tua figlia, tu voglia il meglio per lei. Tuttavia, Andrew, sai che abbiamo tutti moltissimo lavoro, ultimamente. In questo periodo ognuno di noi deve seguire tante cause allo stesso tempo e, dato che la settimana scorsa hai chiesto un permesso per andare a cercare la tua gattina, non posso concedertelo anche questa. Non te l'ho detto per non farti star male, ma la verità è che la ta assenza, quel giorno, mi ha causato qualche problema. Avrei voluto discutere con te riguardo una causa, e invece ho dovuto prendere alcune decisioni, molto importanti, da sola. Non è stato facile. Io sono un avvocato esperto, ma tengo moltissimo al tuo parere e non posso sapere tutto, per questo ho avuto difficoltà."
"Mi dispiace" riuscì a dire Andrew, con un filo di voce. "Non avrei mai voluto metterti in quella situazione. Se l'avessi saputo sarei tornato."
Si sentiva malissimo. Non voleva dare l'impressione di trascurare il suo lavoro.
"Sì, e saresti stato con la testa da un'altra parte visto il problema che avevi. No, hai fatto bene a risolverlo, credimi. Come sai sono molto disponibile con i miei dipendenti, ma a tutto c'è un limite. Pensi che Demi se la possa cavare anche da sola, oggi?"
"Sì, credo."
"Allora scusati con lei da parte mia, e devi dirle che non potrai esserci. Purtroppo questo è un periodo molto stressante, lo so, ma dobbiamo fare tutti degli straordinari se vogliamo portarci avanti con il lavoro."
"Hai ragione" sospirò Andrew, affranto.
Da una parte gli dispiaceva non poter essere con la fidanzata in un momento tanto delicato. Mackenzie ora sembrava stare meglio, ma entrambi sapevano che, in fondo, non era proprio così. La bambina aveva nascosto la sofferenza e, comunque, gli incubi c'era o ancora, e si facevano sempre più frequenti. D'altro canto, capiva che assentarsi ancora dal lavoro sarebbe stata una mancanza di rispetto verso il proprio impiego, il suo capo e i colleghi. Non poteva farlo.
 
 
 
Demetria era in salotto. Guardava Hope giocare sul tappeto ai suoi piedi e pensava. Da giorni, ogni tanto, si tormentava ponendosi delle domande che non trovavano risposta. Si sentiva una sciocca, perché in fondo non erano questioni così urgenti,
Forse io ed Andrew non dovremmo fare quell'intervista. In fin dei conti, non dobbiamo dimostrare niente a nessuno. I miei fan hanno capito che noi stiamo insieme e non mi interessa quel che pensano i giornalisti. Beh, ne parlerò con lui stasera e decideremo insieme.
I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti dallo squillo insistente del cellulare. Era Andrew.
"Ciao!" gli rispose, allegra.
"Ciao."
Lo strano tono del fidanzato la mise in allarme.
"Qualcosa non va?"
Lui le spiegò tutto.
"Mi spiace moltissimo che tu non possa esserci, amore. Sai che ci tenevo" gli rispose la ragazza, triste.
"Anche io, ma come ti ho spiegato…"
"Sì, lo so. Lo capisco" lo interruppe, parlando con dolcezza. "Non sono arrabbiata. Immagino non sia stata una scelta facile e comunque posso parlare con Catherine da sola. Non è un problema. In fondo ultimamente la situazione si è calmata. Non dico che non sia seria, anzi, ma solo che non sono più così in ansia come qualche settimana fa; e soprattutto Mackenzie sta meglio, quindi posso spiegare io ogni cosa a Catherine."
"Sei sicura?"
"Sì. Ti dovrò parlare di una cosa, stasera. Vorrei vederti per cenare con te e discuterne, se non è un problema."
"No, assolutamente!"
A Demi arrivò un messaggio sul cellulare, così disse al fidanzato che l'avrebbe richiamato subito. Non sapeva perché, ma aveva la sensazione che fosse importante. Era sua madre.
Ciao Demetria. Scusa, ma oggi e domani né io, né Eddie, né le tue sorelle saremo a casa. Accompagniamo tutti Madison a fare un provino fuori città e staremo via per un paio di giorni. Mi dispiace non poterti tenere Hope finché andrai dalla psicologa con Mackenzie. Perdonami! Ti voglio bene!
Le rispose che non c'era nessun problema, che avrebbe trovato una soluzione e di augurare buona fortuna a Maddie da parte sua.
Quando Andrew rispose al telefono le disse di attendere un momento. Demi poté sentire chiaramente la voce di Janet - la ricordava benissimo - e poi lui che le rispondeva qualcosa. "Tesoro, Janet ha detto che, se vuoi, puoi portare qui Hope. Io devo lavorare, ma posso occuparmene comunque."
"Tempismo perfetto, direi! Ho appena saputo che i miei sono fuori città. Allora la porto lì e ringrazia Janet da parte mia."
"Sarà fatto! Vi aspetto."
 
 
 
In camera sua, Mackenzie stava rileggendo ciò che aveva scritto sulle prime pagine dei quaderni quel giorno. Era stato bello essere finalmente in prima elementare. Andare a scuola la faceva sentire grande.
"La vocale "a" si pronuncia con la bocca completamente aperta."
La maestra aveva detto così e lei, che era veloce a scrivere, aveva preso appunti. Alcuni suoi compagni, invece, avevano solo scritto le lettere, facendo anche fatica. Elizabeth si era complimentata con lei perché scriveva molto bene e Mac aveva sentito alcuni bambini domandare, sussurrando, come facesse ad essere così brava. Lei, però, non desiderava essere elogiata per la propria bravura. Voleva solamente imparare tante cose nuove. Aveva dovuto riuscire a scrivere così in fretta per forza di cose. Era stata la vita ad imporglielo. Le aveva tolto i suoi genitori e lei si era sentita talmente sola! Certo, c'era Hope, ma era troppo piccola per capire e Mackenzie aveva sempre cercato, per quanto possibile, di non piangere davanti a
lei.
"Mac, è ora!"
La voce di Demi risuonò forte e chiara. Mackenzie chiuse il quaderno di inglese e lo mise nello zaino, poi scese in salotto. Avrebbe dovuto andare da Catherine e non vedeva l'ora di raccontarle com'era andato il primo giorno di scuola.
La donna fece salire le sue figlie in macchina.
"Mamma, vedrò i mici-miao?" chiese la bambina.
Demetria sorrise.
"Brava Hope! Sì, li vedrai stasera. Ora starai un po' in ufficio con papà e dopo andremo a casa sua."
"Sì! Sì! Sì!" rispose Hope agitando le manine.
Leggere la gioia negli occhi delle sue figlie era per lei la cosa più bella del mondo. Anche Mackenzie sorrideva continuamente. Era un ottimo segno!
Arrivate allo studio legale, Demi stava per far scendere le bambine, quando si rese conto che Mackenzie si era addormentata. Prese quindi in braccio Hope, si mise in spalla un piccolo zainetto con alcune cose che servivano alla bambina - lo portava sempre anche quando andava da Dianna, benché lei continuasse a ripeterle che non era necessario -, poi chiuse la macchina a chiave e entrò a passo spedito. Non c'era nessun altro a parte la segretaria, che Demi salutò cordialmente. La donna sorrise ad entrambe e poi riportò la sua attenzione su ciò che stava scrivendo.
Andrew aveva la porta dell'ufficio aperta. Appena le vide andò loro incontro.
"Eccovi!" esclamò, avvolgendole in un caloroso abbraccio. "Dov'è Mackenzie?"
"Si è addormentata, l'ho lasciata in macchina" disse, mentre Hope lanciava gridolini di gioia guardando il papà, che la prese subito in braccio.
"So cosa stai per dire, ma non serve che mi ringrazi di nuovo."
Demi sorrise.
"Mi conosci proprio bene, eh?"
"Direi di sì!"
"Ho portato questo" aggiunse la ragazza, appoggiando il piccolo zaino accanto al tavolo. "Dentro ci sono alcuni pannolini e un cambio, nel caso servissero. Le ho dato da poco della frutta omogeneizzata, quindi non dovrebbe aver fame e l'ho ance cambiata, ma ho portato comunque quelle cose per qualunque evenienza."
"Perfetto, grazie!"
Andrew si domandò come avrebbe fatto a cambiare la bambina in uno dei minuscoli bagni dello studio, nei quali ovviamente non c'era nemmeno un fasciatoio. Beh, se fosse stato necessario ci avrebbe pensato.
Dopo aver dato un bacio ad entrambi Demi se ne andò. Aveva fretta.
Tornata in macchina, vide che la figlia si era
svegliata.
Appena Catherine vide Demi e Mackenzie, capì che qualcosa non andava. Sembravano tranquille e rilassate, ma nei loro occhi c'era comunque un sottilissimo velo di tristezza, che nemmeno i sorrisi riuscivano a nascondere. Le aveva fatte entrare nello studio subito.
"Vorrei parlare un po' con te e Andrew, Demi" le disse. Le si avvicinò e sussurrò: "Ho notato che c'è qualcosa che ti preoccupa. È così, vero?"
"Sì. Io ed Andrew volevamo parlarti, ma oggi lui non è potuto venire a causa di problemi al lavoro."
"Possiamo farlo…" disse, mentre prendeva la sua agenda e la sfogliava "mercoledì alle 16:00, se per voi va bene."
"Più tardi lo vedrò e glielo chiederò. Ti faccio sapere."
Mamma, perché tu e Catherine parlate piano? Come mai vuole incontrare te e papà?
Mackenzie temeva che le stessero nascondendo qualcosa, o che la psicologa volesse parlare del fatto che forse si era comportata male durante la seduta precedente. Ci pensò. Cosa poteva aver fatto? A parte il momento in cui si era agitata, non le pareva fosse successo nulla di particolarmente brutto; e poi Catherine l'aveva tranquillizzata ed ora non sembrava avercela con lei. La bambina guardò confusa prima la mamma e poi la psicologa, aspettando una risposta.
"Catherine vuole parlarci per sapere come stai, tesoro" le spiegò Demi."Dovremo raccontarle quello che è successo in questi giorni."
Posso farlo anch'io! protestò la bimba.
"Sì, Mackenzie, lo so" intervenne l'altra donna. "Il fatto è che, ogni tanto, devo parlare con i genitori dei bambini che seguo, capisci? Anche se tu, come hai detto, mi vorrai parlare di ciò che è capitato, avere l'opinione dei tuoi, sapere come si sentono e ascoltare qualunque altra cosa vorranno dirmi, sarà utile a tutti quanti: tu ti liberarai di un peso e lo faranno anche loro, io invece cercherò di capire a fondo la situazione e di aiutarvi."
Mackenzie annuì e poi scrisse:
Va bene.
Demi le sorrise e andò ad accomodarsi fuori, chiudendo la porta.
 
 
 
"Come stai oggi?" chiese la psicologa a Mackenzie, quando entrambe si furono accomodate.
Sono ansiosa.
"L'altra volta non ti sei sentita molto bene alla fine della nostra prima seduta, e mi dispiace tantissimo."
Scusa, le prossime volte sarò più tranquilla. Te lo prometto, farò la brava!
Era convinta di aver sbagliato tutto e che Catherine non avrebbe più voluto aiutarla. Per un momento temette che l'avrebbe cacciata dallo studio e i suoi occhi si riempirono di acrime. Era così che sarebbe andata? Nessuno sarebbe stato in grado di darle una mano a superare il proprio dolore e a lasciarsi il passato alle spalle, e sarebbe successo sempre per colpa sua, perché non riusciva a sfogarsi, o perché non era una brava bambina? Lei non avrebbe mai sconfitto i demoni del proprio passato, nemmeno con le sue forze?
Catherine guardò intensamente la piccola negli occhi e capì tutto ciò che stava provando. Si sentì stringere il cuore.
"Mackenzie, ascolta" disse, allungando poi le mani verso di lei in modo che la bambina le prendesse. Lo fece e le strinse forte. "Non ti voglio mandare via e non sono arrabbiata con te. Tu sei stata bravissima e sono sicura che lo sia sempre. Essere ansiosi non significa che non si è bravi e non devi pensare, nemmeno per un momento, di essere una bambina cattiva. Se ti ho detto quella cosa non era per spaventarti, e mi scuso per averlo fatto, ma perché voglio aiutarti. C'è un gioco che possiamo fare insieme e che mi aiuterà a capire cosa provi quando sei ansiosa. Ti piacerebbe farlo?"
Mackenzie tirò un lungo sospiro di sollievo e i suoi muscoli si rilassarono.
Davvero mi vuoi ancora aiutare?
"Sì; e lo vogliono anche tutte le persone che ti amano. Forse a volte non ti sentirai capita dai tuoi, o da me, ma ricorda che non sarai mai sola. Mai."
Anche la mamma mi dice queste cose, con parole diverse, ma il concetto è lo stesso.
"Come ti senti quando ti parla così?"
Bene; è bello quando qualcuno che ti ama ti dice questo scrisse, mentre un piccolo sorriso si dipingeva sul suo volto. Okay, facciamo questo gioco.
"Perfetto!"
Catherine aprì un cassetto della scrivania e ne tirò fuori un foglio che passò a Mackenzie. C'era disegnato un gatto nero molto grande. Chi aveva fatto quel disegno era stato bravissimo, perché il micio era talmente bello da sembrare vero.
Wow! esclamò, affascinata.
"Leggi cosa c'è scritto dietro al foglio."
La bambina lo girò e notò che c'erano diverse frasi, messe l'una sotto l'altra. Iniziò a leggere.
 
IL GATTO TOM SI SENTE ANSIOSO!
 
Il gatto Tom si sente ansioso.
Respira affannosamente.
Gli fa male il petto.
Gli sembra di soffocare.
A volte le sue gambe tremano e non riesce a stare in piedi.
Gli gira la testa.
Il cuore gli batte molto forte.
 
Tu cosa provi quando ti senti ansioso o ansiosa?
 
Catherine sapeva che i bambini, soprattutto molto piccoli, non riescono a descrivere a parole ciò che provano; e lei faceva leggere quel foglio a tutti i bimbi che lo sapevano già fare, in modo che potessero dirle come stavano. Mackenzie avrebbe potuto spiegarglielo, certo, ma la psicologa aveva comunque ritenuto giusto farla giocare un po'.
Devo scrivere quel che provo? chiese la piccola.
"No, se non te la senti. Come definiresti la tua ansia?"
In che senso?
Mackenzie non capiva. Che voleva dire quella frase?
"A cosa la assoceresti? Può essere qualcosa di materiale, come un oggetto, una pianta, o anche un animale, o una creatura immaginaria. Pensaci un po'. Non ci sono risposte giuste o sbagliate. Devi solo lavorare di fantasia."
La bambina si mise la testa fra le mani. Provava ansia da tanto tempo, visto che la sentiva da quando aveva cominciato a fare gli incubi, ma si era sempre concentrata sulle sue sensazioni fisiche, non l'aveva mai associata a nulla. Pensò a quel che sentiva quando faceva quei brutti sogni o aveva delle crisi, alla rabbia che aveva provato e che l'aveva portata a lanciare la tazza piena di latte a terra e, improvvisamente, le si figurò nella mente un'immagine.
Un mostro scrisse. Lo associo anche alla rabbia e al dolore, non solo all'ansia. Quando sono ansiosa provo le stesse sensazioni del gatto Tom.
"Ho capito."
Posso fare anche oggi un disegno?
"Sì, certo. Puoi fare o dire quello che vuoi."
Catherine avrebbe voluto che la bambina le raccontasse ciò che era accaduto i giorni precedenti, o il primo giorno di scuola, oppure che le descrivesse il mostro, ma non voleva costringerla a fare qualcosa per cui, almeno per il momento, non si sentiva ancora pronta. Magari, si disse, avrebbe disegnato quel che si era immaginata, ma se non l'avesse fatto, non sarebbe stato un problema. Il compito di Catherine era aiutare i bambini, non forzarli a reagire o a fare passi avanti quando non erano ancora pronti. L'altra volta aveva fatto troppe domande a Mackenzie e non voleva stressarla o farla agitare.
La bambina continuava a disegnare. Dopo il primo foglio ne prese un altro e poi un altro e anche un terzo. Solo quando ebbe finito tutti e tre i disegni li passò a Catherine.
La donna li guardò e poi lanciò alla piccola uno sguardo preoccupato, ma cercò di contenere le sue emozioni.
"Mackenzie," disse dopo qualche secondo, "questi tre disegni sono uguali; e sono delle copie di quello che hai fatto l'altra volta, sulla tua famiglia e i tuoi genitori naturali racchiusi in una nuvola. Perché ne hai fatti tre identici?"
Non lo so ammise la piccola. Mi è venuto spontaneo, credo. Non ci ho nemmeno pensato.
"Ti è successo altre volte, in questo periodo, di ripetere delle azioni, o dei giochi, o di fare gli stessi disegni tante volte?"
Catherine doveva saperlo. Era fondamentale per lei, e lo sarebbe stato anche per il medico che avrebbe visitato Mackenzie per capire se i suoi problemi avevano una causa fisica o se, invece, c'era il sospetto che soffrisse di PTSD.
Mackenzie sospirò e prese una piccola borsa di nilon che si era portata. La psicologa non l'aveva nemmeno notata. Dentro c'era un album da disegno e tutti i fogli erano già stati colorati. Nella prima metà c'erano disegni uguali a quelli che ora Catherine aveva davanti, nella seconda, invece, tanti altri con due persone con degli schizzi rossi sopra e attorno.
"Che cos'è?" chiese la psicologa, riferendosi a quel colore.
Si aspettava la risposta, ma voleva sentirla da Mackenzie.
Sangue. Non riesco a smettere di fare questi disegni. È più forte di me. A volte mi sveglio dopo aver fatto un incubo e mi viene automatico disegnare queste cose. Altre, invece, lo faccio senza un vero motivo. È come se avessi bisogno di farlo sempre più spesso. Solo che dopo, quando ho finito, mi sento peggio. Mackenzie continuò a parlare. Raccontò a Catherine che a volte giocava con alcuni peluche, che gli animali erano una famiglia e che due di loro morivano, mentre altri due sopravvivevano ma erano feriti. Faccio questi giochi quando sono da sola continuò poi. Non voglio che la mamma mi veda, ma non so perché. Insomma, sono solo giochi e questi sono semplicemente disegni, vero?
Catherine sapeva di cosa poteva trattarsi ed era quasi certa che un medico, dopo alcune analisi, avrebbe confermato i suoi sospetti. Non se la sentiva di parlarne alla bambina, non ancora almeno. Non voleva spaventarla e poi avrebbero dovuto essere i genitori a dirglielo. Lei, in seguito, l'avrebbe aiutata a far fronte a quella realtà.
"Ne parliamo un'altra volta, tesoro, okay? Stai tranquilla! Sei stata bravissima a dirmi tutto questo, ma non penso proprio che la mamma ci rimarrebbe male se vedesse i tuoi giochi o i disegni che fai, anche se sono così ripetitivi. Anzi, potrebbe aiutarti meglio se tu non le nascondessi queste cose."
Davvero?
"Certo!"
No, non glieli voglio mostrare.
Catherine scrisse qualcosa su un block notes.
Cosa fai? le chiese la bambina.
"Scrivo alcune cose che dovrò dire dopo domani ai tuoi genitori, ma non ti preoccupare, ora sono tutta per te."
 
 
 
Andrew, nel suo ufficio, cercava di lavorare. Non era facile, dato che Hope non ne voleva sapere di dormire e che quel giorno era particolarmente vivace, ma l'uomo provava ad intrattenerla il più possibile con alcuni giochi che si inventava al momento.
"Queste quante dita sono?" le chiese.
"Tle!" rispose la piccola, alzando le mani in alto.
"Il numero è giusto, ma dillo meglio."
Hope fece qualche secondo di pausa e poi urlò:
"Tre!"
"Brava! Parla più piano ,però, okay?"
Andrew non alzava mai la voce con lei e non l'aveva fatto con Mackenzie nemmeno una volta. Anche quando rimproverava gentilmente Hope, come aveva appena fatto, si sentiva male. D'altra parte, sapeva che era giusto insegnarle cosa si poteva fare e cosa no.
"Giochiamo ancoa?"
L'aveva fatta divertire con alcune matite. Era stato attento per paura che la piccola si potesse infilare qualche punta nell'occhio, ma quando aveva capito che Hope voleva soltanto farle rotolare sul tavolo si era tranquillizzato. Aveva anche provato a disegnare con lei, aiutandola a capire come farlo bene, ma la bambina non si era interessata a quel gioco e, anzi, si era stancata molto presto.
"Adesso devo lavorare un po', ma tra qualche minuto giocheremo di nuovo."
Andrew ricominciò a scrivere velocemente, battendo sulla tastiera con foga. Ci riusciva bene anche solo con una mano. L'aveva imparato negli anni e ormai ci era abituato. In quel momento stava tenendo Hope in braccio. La piccola allungò una manina e schiacciò varie lettere della tastiera. Andrew sorrise, notando che aveva il tipico sguardo furbetto dei bambini quando combinano una marachella. Quel visetto lo intenerì talmente tanto che non riuscì proprio a sgridarla.
"Tesoro, mi dispiace. Capisco che tu ti stia annoiando" le disse il papà. "Tra un po' finirò, promesso" aggiunse, mentre cancellava ciò che la bambina aveva scritto, poi gli venne un'idea. "Ehi, vuoi vedere come si scrive il tuo nome?"
"Sì!"
Andrew avvicinò un po' la sedia alla scrivania, chiuse il file su cui stava lavorando, inserì la sua chiavetta USB nella quale teneva, oltre ai documenti di lavoro, anche foto e video personali, creò un nuovo file, lo aprì e scrisse:
Hope.
"Papà, io voio scrivere! Io!" esclamò la bambina.
"D'accordo."
"Evviva!"
Andrew le fece mettere le mani sui tasti e, tenendo le sue sopra quelle di lei, le fece schiacciare quelli giusti.
"Un altro giorno ti farò vedere come si scrive con la penna."
"Quando?"
"Quando sarai più grande."
"Perché?"
"Si impara a scrivere a cinque o sei anni, ma ci sono bambini che ci riescono anche un po' prima. Dovrai aspettare."
Hope si accontentò di quella risposta.
Qualcuno bussò.
"Avanti" disse Andrew.
Era Bill.
"Ciao!" esclamò entrando.
"Ciao! Non ti ho mai visto, oggi. Stai bene?"
"Non proprio; oggi è l'anniversario della morte di Oscar e quindi mi sono preso mezza giornata libera. Volevo andare al cimitero e stare un po' da solo."
Da quanto tempo non vado a trovare mia sorella? si chiese Andrew.
Non era più andato al cimitero dal giorno del funerale. Ci aveva pensato innumerevoli volte, soprattutto da quando era tornato a casa dall'ospedale, eppure non aveva più avuto il coraggio di varcare quel cancello, di percorrere i pochi metri che l'avrebbero portato alla tomba di Carlie. Il dolore e i ricordi avrebbero rischiato di annientarlo e lui non voleva soffrire più di quanto stesse già facendo. D'altro canto, si sentiva tremendamente in colpa perché pensava che non andare a trovarla fosse una grave mancanza di rispetto.
"Io ci ho messo un anno."
La voce di Bill lo riportò alla realtà.
"Cosa?" gli domandò, confuso.
"Mi ci è voluto un anno per decidermi a tornare al cimitero da Oscar. Non sentirti in colpa se non ce la fai. È normale e Carlie non te ne vorrà di certo."
"Come hai fatto a… Voglio dire, cazzo, mi hai letto nel pensiero?"
Andrew era scioccato.
"So riconoscere quello sguardo pieno di sensi di colpa e di sofferenza. Mi è stato detto che l'ho avuto tante volte anch'io. Non vorrei intromettermi, ma se vuoi posso accompagnarti" si offrì l'uomo, gentile.
"Papà, sei triste?"
La vocina dolce di Hope riempì la stanza. Fu solo allora che Bill si accorse di lei e si dette dell'idiota.
"No tesoro, ora sto meglio" le rispose Andrew, baciandola su una guancia.
"Chi è questa bellissima principessina?" chiese Bill, inginocchiandosi in modo da essere alla stessa altezza di Hope.
La bambina, che fino ad allora aveva guardato quel nuovo arrivato con curiosità, ora lo osservava timidamente e anzi, si era fatto così vicino che lei cercava di evitare il suo sguardo. Andrew se ne stupì: Hope non era mai stata timida.
"È tutto a posto, amore mio" la rassicurò. "Lui è un mio amico e ti vuole tanto bene, vero Bill?"
"Certo!" esclamò quest'ultimo, mentre il suo sorriso si allargava.
"Coraggio, digli come ti chiami."
Bill lo sapeva già, ma capì che Andrew stava solo cercando di mettere la piccola a proprio agio.
"Hope" disse la bimba e poi guardò di nuovo l'uomo negli occhi.
"Hai un bellissimo nome, sai?"
"Grazie. Vuoi giocale con me?"
"Certo, non so con cosa ma ora lo troviamo, okay?"
"Hope, forse Bill deve…"
Lui scosse la testa.
"Ho lavorato per due ore, oggi, Janet sapeva tutto ovviamente e adesso ho finito. Non mi dà nessun fastidio giocare con Hope, te l'assicuro!"
"Io terminerò tra un po'."
"Non preoccuparti, mi occupo io di lei."
"Grazie."
"Posso prenderla in braccio?"
Andrew stava per rispondere di sì, ma Hope alzò le manine e Bill la sollevò.
"Tu giochi con i tuoi bambini?"
Quella domanda, così innocente, commosse Bill nel profondo. Non se l'aspettava.
"Io non ho bambini" rispose, mentre la voce gli tremava leggermente.
"Pelché?"
"Beh, perché non tutti hanno la fortuna di averne" rispose, pensando poi che forse ciò che aveva detto era troppo complicato per una bambina di quasi due anni.
La piccola annuì e non disse altro.
Non ne ho, ma mi sarebbe piaciuto tanto averne, con Oscar
Quel pensiero improvviso lo colpì in pieno e una lacrima gli rigò il viso. Si affrettò ad asciugarla, perché Hope non si spaventasse o non ci rimanesse male.
Bill aprì un marsupio che aveva appoggiato per terra e ne tirò fuori un orsetto bianco.
"Lui si chiama Rodney. Me l'ha regalato il mio fidanzato anni fa. Ti piace?"
"Sì, è bello!"
Hope lo prese in mano e lo accarezzò, mentre l'uomo si sedeva per riuscire a tenerla meglio. La piccina iniziò a giocare con l'orsetto muovendolo di qua e di là, sempre con dolcezza. Bill si intenerì e prese una decisione.
"Te lo regalo, Hope. Lo vuoi?"
"Bill, non sei obbligato a…" cominciò Andrew, ma l'altro lo interruppe.
"No, non mi sento costretto. Lo voglio fare e penso che Oscar sarebbe molto felice di sapere che il regalo che mi ha fatto ora è di una bambina dolce come Hope."
"Grazie, Bill" rispose la piccola e lui le diede un bacio.
"Di niente, tesoro!"
"Giochiamo anche con qualcos'altro?"
"Non saprei con cosa, piccola e tra un po' devo andare via, ma ti prometto che un giorno verrò a trovarti e giocheremo insieme" le promise.
 
 
 
Posso raccontarti del mio primo giorno di scuola? chiese Mackenzie a Catherine.
"Certo che sì! Tu sei libera di raccontarmi tutto quello che vuoi, lo sai" le rispose la psicologa, sorridendo.
Fu così che la bambina, entusiasta, le parlò di Elizabeth, di ciò che si erano dette e di quanto quella sua compagna la facesse stare bene.
Non so se posso già considerarla un'amica. Voglio dire, perché qualcuno diventi nostro amico deve passare del tempo, giusto?
"Sì, di solito è così."
Catherine non lo disse, ma pensò che, quando ci sentiamo soli, spesso tendiamo a parlare con tutti, a sfogarci anche con gli sconosciuti, dicendo loro cose che, proprio perché non ci conoscono, non dovrebbero sapere; e li consideriamo amici anche dopo poco tempo, qualche ora o pochi giorni, proprio perché dobbiamo riempire il vuoto che c'è in noi. A volte queste amicizie sono preziose e si rivelano essere le migliori al mondo,altre, invece, si interrompno bruscamente, spesso senza un perché. A lei questo non era mai capitato, ma quando si era allontanata da Andrew a causa del cancro per entrambi era stato davvero molto doloroso, anche perché tra loro cominciava ad esserci qualcosa di più che una semplice amicizia. Benché avesse superato quella fase della sua vita e non provasse assolutamente niente per Andrew, la ragazza sapeva cosa significa sentirsi soli e quanto male fa allontanarsi da qualcuno che si ama solo perché lo si vuole proteggere da qualcosa di terribile. Quella era stata una delle scelte più ardue della sua vita, ma non se ne pentiva. Aveva fatto la cosa giusta. In cuor suo, la psicologa sperava che Mackenzie ed Elizabeth non si sarebbero allontanate l'una dall'altra. Non voleva che passassero ciò che aveva vissuto lei. Inoltre Mac le pareva abbastanza matura da capire che avrebbe dovuto conoscere l'altra bimba pian piano, senza raccontarle subito tutto di se. Lei era riservata, non era nel suo carattere aprirsi con gli sconosciuti.
"Mi sembra di capire che siete già molto unite" commentò, dopo che la bambina ebbe finito di raccontare.
Sì, è vero e la cosa bella è che oggi è stato solo il primo giorno, quindi…
Mac si bloccò con la penna ancora sopra il foglio. Questa le cadde di mano e finì a terra, ma lei sembrò non accorgersene. Catherine la osservò con attenzione. Pareva confusa. Stava fissando un cuscino che era sul pavimento. La ragazza aveva problemi di scoliosi e, dato che a volte la schiena le doleva, mettere quel cuscino dietro di sé le dava sollievo. Doveva essere caduto quando si era alzata per accogliere Mackenzie e Demi, tuttavia non riusciva a capire perché la bimba lo guardasse con tanta insistenza. I suoi occhi rimanevano fissi su di esso, come ipnotizzati.
"Cosa succede, Mackenzie?" chiese con dolcezza, ma la piccola non ebbe nessuna reazione.
 
Non si trovava più lì, ma nella casa dove aveva vissuto con i suoi genitori. "Casa" era una parola grossa. Sarebbe stato meglio definirla una capanna fatta di legno e lamiera. Del resto, molte abitazioni in quel quartiere erano fatte così. A Skid Row, nella periferia di Los Angeles, pareva di vivere in un incubo. Lì c'era solo povera gente, molti senzatetto e ragazzi che si drogavano e bevevano. Alcune persone vivevano in tenda, altre in case come la sua - e quelle erano le più fortunate-, altre ancora non sapevano nemmeno, o non più, cosa volesse dire avere una casa. Suo papà definiva Skid Row "il quartiere dimenticato da Dio" e forse aveva ragione.
Mackenzie smise di pensare a tutto ciò e tornò con la mente alla sua abitazione, benché in quel momento le sembrasse di esserci dentro anche fisicamente. L'uomo cattivo aveva appena sparato ai suoi genitori e se ne stava lì, in piedi, a guardare lei e Hope con occhi iniettati di sangue. La bimba si avvicinò ai genitori. Il padre era vicino alle scale. Sembrava non respirare più. Che cosa gli era successo? Forse quel rumore così forte che l'uomo cattivo aveva prodotto con l'arma della quale Mac non ricordava il nome l'aveva fatto stare davvero tanto male. Lei sapeva di dover fare qualcosa, ma non riusciva a capire cosa. I suoi genitori erano così pallidi! Avrebbe voluto chiedere a quell'individuo cos'aveva fatto loro, ma quando aprì la bocca per parlare, non ne uscì alcun suono. La mamma si trovava a qualche metro di distanza, con le mani legate dietro la schiena e un fazzoletto sulla bocca. Mackenzie si chinò e, tenendo Hope con una sola mano, glielo tolse. Avrebbe voluto slegarla, ma in quel caso sarebbe stata costretta a girarla e non credeva di avere la forza fisica per farlo. Inoltre, temeva di farle provare ancora più dolore rispetto a quello che già sentiva.
"Mettimi un… un c-cuscino sotto la t-testa, amore" le mormorò la donna. "Mi farà s-stare meglio."
"Va bene" rispose, poi corse accanto al divano, ne prese uno e fece quanto la mamma le aveva chiesto. "Mamma?"
"Sì?"
"Tu e papà starete meglio, vero?"
Dai loro petti usciva sangue, ma sarebbero guariti, Mackenzie ne era sicura. Voleva solo che la mamma la tranquillizzasse.
"S-sì, certo."
Il suo tono non era rassicurante. Fu allora che Mackenzie cominciò a comprendere.
"S-state per m-morire?" chiese, iniziando a piangere.
No, non era possibile. I suoi genitori le avevano sempre detto che sarebbero rimasti con lei e con Hope per sempre. No, non se ne stavano andando! Si sentivano solo male, ma sarebbero guariti presto.
"Stanno per fare la fine che farai tu, se non ti decidi a chiudere quella maledetta boccaccia del cazzo una volta per tutte!" ruggì l'uomo, avvicinandosi.
Le diede un calcio al fianco sinistro e la bambina cadde a terra, riuscendo a proteggere Hope, che altrimenti avrebbe battuto la testa.
 
Mackenzie alzò il viso di scatto e vide che la psicologa la stava guardando, preoccupata.
"Tesoro, hai ricordato qualcosa?" le domandò.
Lei fece cenno di sì.
Ho parlato scrisse. Mia mamma stava morendo - anche se io allora non lo capivo -, mi ha chiesto di metterle un cuscino dietro la testa ed io le ho detto:
"Va bene".
Quella sera ho parlato, capisci? Solo che io, ecco, non sono sicura che quelle siano state le mie ultime parole. È successo qualcosa, dopo. È stato prima che arrivassero i vicini e la polizia. Non so cosa, però; oh mio Dio, Catherine, perché non riesco a ricordare?
Aveva scritto quelle frasi senza riuscire a fermarsi, sentendo dentro di lei un gran senso di vuoto e di insoddisfazione verso se stessa che aveva cercato, inutilmente, di colmare con tutte quelle parole.
"Tu hai ricordato, Mackenzie. Hai fatto grandi progressi, sai? Ragiona: è solo la seconda volta che ci vediamo, eppure sei riuscita a parlarmi di quello che vi siete dette tu e tua madre. È come se i tuoi ricordi fossero avvolti da una fitta nebbia. Ci sono, solo che non riescono a farsi strada nella tua mente e ad uscire dalla foschia. Oggi, però, quest'ultima si è un po' diradata. Ti sei fermata perché il mio cuscino ti ha ricordato quello che hai messo dietro la testa della tua mamma, giusto?"
Sì.
"Vedi? Grazie ad un semplice oggetto hai ricordato qualcosa che prima non ti era più venuto in mente. Hai fatto un grande passo avanti!" la incoraggiò la psicologa, ma Mackenzie fece cenno di no.
Perché non me lo sono ricordata a casa, o in qualunque altro posto in cui ho visto dei cuscini?
"Forse la tua mente non era ancora pronta a farlo e non ha collegato le due cose. NOn fartene una colpa. La cosa importante è che ti sia tornato in mente qualcosa, no?"
Mackenzie fece un altro cenno di diniego.
"Come no?" le chiese allora la ragazza.
Avrò anche ricordato, ma non molto.
"Non importa. Ciò che conta è che tu l'abbia fatto. Sai, ricordare può essere un processo lungo e soprattutto doloroso. Potresti metterci molto tempo a rammentare ogni cosa, ma pian piano ce la farai. Io e i tuoi familiari ti staremo accanto."
D'accordo, ho capito.
Mackenzie sorrise. Fu un sorriso sincero che le illuminò il volto. Forse Catherine aveva ragione. Magari quello che era riuscita a fare era davvero importante. Doveva essere così, si disse, altrimenti non avrebbe sorriso in quel modo e non sarebbe stata soddisfatta di se stessa. Per la prima volta dopo tantissimo tempo si sentiva felice e fiera di qualcosa che aveva fatto. Era una sensazione molto particolare, alla quale Mackenzie riuscì a dare un nome: gioia. Era una felicità inebriante, che è così grande da lasciare senza fiato chiunque la provi. Non sapeva per quanto sarebbe durata - probabilmente poco, visto che quelle sensazioni arrivavano all'improvviso e con la stessa velocità spariscono -, ma non le importava. Voleva godersela appieno.
Catherine sorrise notando che la bambina era più serena,  poi disse:
"Purtroppo dobbiamo concludere qui la seduta, Mackenzie, ma ci vedremo la settimana prossima e parleremo ancora."
Okay.
Quando Demi entrò nello studio, disse a Catherine che sperava che anche Andrew sarebbe venuto all'appuntamento il mercoledì.
"Lo spero anch'io" le rispose l'altra. "Oggi sono successe delle cose molto importanti."
"Cosa?" domandò subito lei, illuminandosi in volto.
"Te lo dirà Mackenzie. È stata davvero brava!"
Il cuore di sua madre iniziò a battere all'impazzata. Che fosse riuscita a ricordare qualcosa di importante?
Catherine chiese a Mackenzie di uscire perché doveva dire una cosa alla mamma. La bambina lo fece senza chiedere nulla.
"Demi, volevo dirti che quando porterai Mackenzie a fare quei controlli, probabilmente i medici la sottoporranno a qualche test come analisi del sangue o elettrocardiogramma per escludere che i suoi disturbi siano legati al cuore, poi potrebbero sottoporle qualche questionario per capire se invece soffre di PTSD. Tuttavia, la loro diagnosi di questo disturbo sarà solo un sospetto, nel senso che loro non hanno le competenze per giudicare se si tratta di questo o no. Quando avrò i risultati degli esami capirò meglio la situazione e potrò trattare i suoi problemi come fisici, quindi parlando con lei di come si sente, o andare più in profondità se si tratterà di qualcosa di psicologico."
"Ho capito, grazie di avermelo spiegato."
Una volta in macchina, Demi decise di aspettare che la figlia fosse pronta a dirle tutto. Non voleva forzarla in alcun modo. Mac, che non avea sentito neanche una parola del discorso tra la mamma e la psicologa, non si chiese nemmeno di cosa avessero parlato. Per il momento non le interessava. Era troppo contenta per poter pensare adaltro. Voleva godersi quella fortissima gioia ancora un po', prima di condividerla, pur sapendo che, quando l'avrebbe raccontato ai genitori, quella felicità sarebbe raddoppiata.
 
 
 
"Andiamo ad aspettare Mackenzie e la mamma fuori?" chiese Andrew a Hope.
"Sì! Dopo posso vedele mici-miao?"
L'uomo sorrise.
"Appena tua mamma e tua sorella arriveranno andremo a casa mia ad accarezzarli."
Andrew prese Hope per mano e i due uscirono. Si fermarono accanto all'entrata dello studio legale e attesero.
"Ti ricordi come si chiamano i miei gatti?" domandò Andrew alla bambina.
"No" sussurrò lei abbassando lo sguardo, come se si vergognasse di quella mancanza.
"Non importa, te lo dico io: Jack e Chloe. Prova a ripeterli, coraggio!"
"Jack, e CH-Chl-Chloe!" esclamò allafine, felice di essere riuscita a dire anche quel secondo nome, che per lei era piuttosto difficile.
"Sì, bravissima!"
"Grazie, papà."
Parla davvero molto bene, vista la sua età. Demi è stata brava ad insegnarle a dire tutte queste parole pensò l'uomo.
Certo, la bambina faceva qualche errore, ma era normale. La sollevò e se la mise sulle spalle, tenendola in modo che non cadesse. Hope rise di gusto.
 
 
 
Demi e Mackenzie erano quasi arrivate allo  studio legale di Andrew. Mancava circa un chilometro, quando una macchina, che sfrecciava come un bolide, tagliò la strada alla ragazza. Nell'attimo che seguì, Demi credette che sarebbe morta. Il conducente di quell'auto sarebbe impazzito e lei non sapeva se sarebbe stata in grado di frenare in tempo. Forse l'airbag avrebbe protetto sia lei che Mac, ma se ciò non fosse accaduto…
Mackenzie avrebbe voluto aprire la bocca e urlare con tutto il fiato che aveva in gola; ma, come al solito, ogni volta che cercava di farlo, non ci riusciva mai.
Ad entrambe sembrava che tutto stesse accadendo a rallentatore. Il tempo non passava più. Quella macchina si avvicinava sempre più alla loro e stavano seriamente rischiando di andarsi addosso, eppure Demi e Mackenzie avevano la sensazione che i due veicoli stessero andando pianissimo. Era questo che si provava, quando si era consapevoli che pochi secondi dopo ci sarebbe stato l'impatto?
Sto per perdere la mia mamma pensò Mackenzie. No, no, non può succedere di nuovo! Non voglio morire nemmeno io. Ti prego, Signore, salvaci!
Demi non aveva mai fatto un incidente prima, né Mackenzie vi aveva assistito. La ragazza si rese conto che la sua auto e quella dell'uomo che le stava passando davanti erano troppo vicine. Se avesse frenato gli sarebbe comunque andata addosso. Doveva fare qualcosa e subito. Girò a sinistra, sterzando, in un disperato tentativo di evitare la collisione. La curva che fece fu, però, troppo ampia, quindi rischiò di andare fuori strada.
"No!" gridò, frenando di colpo.
Le ruote dell'auto, facendo attrito col terreno, produssero un fischio forte e spaventoso.
Pur avendo la cintura sentì che il suo stomaco si premeva con forza contro il volante, provocandole un gran dolore. Mackenzie ebbe la terribile sensazione che una forza alla quale non poteva opporsi la spingesse sempre più avanti.
"Dovresti già aver perso la patente da un pezzo, coglione!" urlò Demi, in preda al panico. L'altro conducente, però, era già lontano.  Mackenzie le appoggiò una mano sulla spalla, cominciando a piangere. "Tesoro mio, ti sei fatta male?"
Lei fece cenno di no.
"So che hai paura, ne ho anch'io, ma è tutto finito. Hai capito?" le sussurrò la mamma, stringendosela forte al petto per quanto la cintura e le loro posizioni lo permettessero e dandole un bacio su una guancia.
Demetria sapeva di doversi spostare. Era ancora in strada, grazie a dio, ma dietro di lei moltissime persone stavano suonando i clacson. Stava bloccando il traffico, nella posizione in cui si trovava. Nessuno sembrava essersi accorto di quanto le era appena successo, o, se qualcuno l'aveva fatto, non se ne curava. Dopo aver dato un fazzoletto alla bambina, Demi riprese a guidare. L'ansia che ancora provava la stava spingendo, involontariamente, ad andare più veloce, ma lei cercò di mantenere il controllo. Guidava sempre con prudenza e, si disse, quella volta non avrebbe fatto eccezioni. Quando arrivò davanti allo studio legale di Andrew notò che Mackenzie non si era asciugata gli occhi. Il fazzoletto giaceva sulle sue gambe. La bambina voleva che fosse sua mamma a calmare quel pianto. Cercava, insomma, un gesto di rassicurazione.
"Scusami, Mackenzie. Prima non potevo farlo, dovevo guidare."
Lei annuì, comprensiva.
Demetria le asciugò le lacrime e le disse di soffiarsi il naso, poi scese dall'auto.
Quando Andrew la vide notò che era pallida come un cadavere. Incrociò il suo sguardo ed esclamò:
"Sembra che tu abbia visto un fantasma!"
"Beh… mi sono presa un bello spavento" rispose lei, che era quasi senza voce tanta era stata la sua paura.
"Che è successo?"
Ora il suo ragazzo era preoccupato.
Demi gli raccontò ogni cosa.
"Perché certa gente non sta attenta quando guida? Non mi stupirei se scoprissi che quel tipo era ubriaco!" commentò Andrew. "Vi siete fatte male?"
"No, per fortuna; abbiamo solo avuto tanta paura. Sai che si dice che quando stai per fare un incidente ti passa tutta la vita davanti? Ecco, io non so se a me sia successo. Non riesco a ricordare cos'ho pensato, ma sicuramente il mio primo pensiero è andato a Mackenzie e Hope. Se non avessi sterzato in tempo, lui ci sarebbe venuto addosso e Dio solo sa come sarebbe andata! Magari ci saremmo fatte solo male, o forse no, ma chi può dirlo?"
"Mamma!" urlò Hope per attirare la sua attenzione.
Demi la prese in braccio e intanto Andrew andò da Mackenzie. Aprì lo sportello e la osservò: anche lei era pallidissima. La chiamò una, due, tre volte. La piccola non si muoveva, né lo guardava. Fissava il vuoto e pareva assente.
"Sono suo padre, devo aiutarla" si disse.
Santo cielo, era una delle prime volte che si definiva così. Forse ciò accadeva perché Mackenzie non lo chiamava ancora sempre papà. In ogni caso la bambina iniziava a farlo più spesso e lui la considerava sua figlia a tutti gli effetti.
Avrebbe potuto chiamarla alzando un po' la voce: forse sentendolo parlare più forte Mackenzie si sarebbe riscossa. Tuttavia, Andrew non la ritenne una saggia decisione. Temeva di spaventare la bambina più di quanto già fosse. Per questo motivo le prese la mano e gliela strinse leggermente.
Da quando aveva rischiato di fare quell'incidente con la mamma Mackenzie si era sentita come se una lastra di ghiaccio le avesse congelato ogni parte del corpo. Era rimasta immobile per un tempo che le era sembrato infinito quando in realtà, si rese conto in quel momento, erano passati solo pochi minuti. La stretta di una mano di suo papà era stato un raggio di sole, al quale se n'erano aggiunti altri, fino a che il calore era stato tanto forte che aveva sciolto il ghiaccio che l'aveva circondata. Che cos'aveva pensato in quei momenti nei quali era stata tanto distante dal mondo? Per ora non riusciva a capirlo. Sapeva solamente che si era sentita come se la sua mente avesse avuto un blocco. Si piegò e raccolse il foglio e la penna che le erano caduti sul tappetino dell'auto. Provò a scrivere. Non ci voleva molto. In fondo, avrebbe anche solo potuto buttare giù qualche parola. Non appena ci provò, le sue mani tremarono così violentemente che tutto le cadde un'altra volta.
"Non preoccuparti, Mackenzie" la rassicurò il padre. "Sei ancora molto spaventata e il tuo corpo reagisce a questo modo. È normale, sai? Anche a me è successo una volta."
Lei gli lanciò uno sguardo interrogativo.
"Avrò avuto circa undici anni. Ero ad una festa paesana con i miei genitori e la mia sorellina e un amico mi ha proposto di fare una cosa: avrebbe dovuto bendarmi e poi farmi salire sugli autoscontri e lui si sarebbe seduto accanto a me per guidare. Io ho accettato. I miei in quel momento stavano parlando con i genitori di quel ragazzino, quindi non si erano resi conto di ciò che avevo deciso di fare. A me quelle giostre avevano sempre fatto paura e non ci ero mai salito prima di allora, ma non volevo dire a quel mio amico che ne ero terrorizzato e che ciò che mi aveva proposto era stupido. Quando siamo saliti sulla giostra, io non mi sono divertito per niente. Ho avuto davvero tantissima paura. Ogni botta che sentivo quando qualcuno ci veniva  addosso mi pareva fortissima! Quando non vedi nulla succede così."
Mackenzie sorrise appena. Capì che suo papà stava cercando di tranquillizzarla e di farle comprendere che non doveva restare sola con la propria paura, perché altri, come lui, l'avevano vissuta, anche se in contesti diversi. A volte, quando proviamo emozioni negative così forti da togliere il fiato, pensiamo che nessuno ci possa capire, anche se nel profondo sappiamo che non è affatto così ed è bello che qualcuno ci dica che anche lui ha sperimentato qualcosa di simile. Ci dà un senso di sicurezza.
"Vuoi alzarti e prendere un po' d'aria? Te la senti?" le chiese Andrew.
Lei annuì.
L'uomo la aiutò ad uscire dalla macchina, ma appena si mise in piedi Mackenzie cominciò a tremare. Non riusciva a tenere ferme né le gambe né le braccia, tanto che il papà dovette sostenerla per evitare che cadesse a terra.
"Amore mio!" esclamò Demi, avvicinandosi e mettendo giù Hope. "Dovrei avere dell'acqua in borsa. Aspetta." Aprì in fretta la zip e tirò fuori una bottiglietta. "Bevi piano."
Andrew fece sedere Mackenzie a terra.
Lei provò a bere, ma il suo respiro, troppo rapido e irregolare, le rendeva difficile anche un'azione semplice come quella. Cercò di mandar giù un piccolo sorso, ma l'acqua le andò di traverso. Iniziò a tossire forte e respirava a fatica.
"Guarda in alto" le disse Demi mentre le dava dei piccoli colpetti alla schiena.
Non ricordava chi gliel'avesse detto, né se ciò fosse vero, ma aveva sentito che fare così non aiutava chi si stava soffocando. Tuttavia, non le venne in mente altro modo per aiutare la sua bambina. Poco dopo lei ricominciò a respirare regolarmente, riprese pian piano colore e riuscì ad alzarsi e a rimanere in piedi. Tornò accanto alla macchina e prese carta e penna.
Sto meglio, ora. Possiamo andare a casa, per favore?
"Va bene" rispose Demi.
Decisero di andare comunque da Andrew. Forse vedere i gatti avrebbe aiutato Mac a rilassarsi.
Una volta in auto, però, cominciò a respirare affannosamente e non servì a nulla aprirle un finestrino.
"Mac Mac tanto male?" chiese Hope, guardando la sorella con gli occhi pieni di lacrime.
"No, tesoro. Ora le passa tutto" si affrettò a rassicurarla la mamma, poi accostò e si fermò, in modo da poter dedicare tutte le sue attenzioni alla figlia più grande.
"Inspira profondamente e poi espira, così, come faccio io. Chiudi le mani a pugno mentre inspiri e tienile strette per qualche secondo; mentre espiri aprile."
Quella era una tecnica che le aveva insegnato la psicologa molti anni prima, in clinica. Le aveva detto che, chiudendo e aprendo le mani, avrebbe fatto circolare meglio il suo sangue e che, lentamente, anche il respiro si sarebbe regolarizzato. Mackenzie si sforzò di calmare il proprio. Non fu facile all'inizio. Era molto più semplice per lei respirare velocemente, anche se sapeva che continuando così si sarebbe sentita peggio. Mackenzie guardò la mamma che le spiegava come avrebbe dovuto respirare. Si rese conto che chiudere e aprire le mani al ritmo del proprio respiro la faceva sentire molto meglio e, dopo qualche minuto, la bambina si calmò. Pregando che quella crisi fosse davvero passata, Demi ripartì.
Giunta a destinazione fece scendere le bambine e vide che Andrew le stava aspettando.
"Ad un certo punto non vi ho viste più. Del resto, con questo traffico…"
"Mackenzie non si è sentita molto bene.£
"Cos'hai avuto, piccola?"
Non so, credo fosse un attacco di panico.
"Sì, lo penso anch'io" confermò Demi, "ma ora sembra passato tutto."
"Ne sono felice. Entriamo?" chiese l'uomo, prendendo in braccio la bambina.
Mackenzie, che si sentiva ancora debole, non cercò nemmeno di scrivere che ce la poteva fare da sola, perché non era sicura che sarebbe riuscita a camminare senza rischiare di cadere. Inoltre ogni tanto era bello essere portati in braccio.
Una volta in casa, Hope chiese alla mamma di metterla giù e poi esclamò:
"Gatti!" iniziando a correre dietro ai due mici che, spaventati, scapparono.
Chloe si nascose dietro una tenda, mentre Jack fu più lento e, proprio quando stava per rifugiarsi in un angolo del salotto, la bimba riuscì ad acchiapparlo. Gli tirò la coda per trattenerlo. Il gatto soffiò e si lamentò, ma poi quando la piccola lo abbracciò non cercò di fuggire, né di graffiarla. Hope lo prese in braccio tirandolo su piano, come la mamma le aveva insegnato a fare qualche tempo prima.
"Bel gattino" gli disse, mentre lui faceva le fusa.
"Brava" le disse la mamma. "Un giorno imparerai che tirargli la coda non è il miglior modo per farci amicizia" concluse poi con un sorriso.
Mackenzie si sedette sul divano. Era esausta. Tutte le emozioni che aveva provato l'avevano distrutta sia fisicamente che psicologicamente. Sbuffò. Perché doveva essere sempre tutto così difficile? Perché le cose non potevano andare benino per più di qualche giorno? Era stato talmente bello conoscere Elizabeth, quella nuova compagna che, forse, sarebbe diventata una sua grande amica! Eppure, poche ore dopo, Mackenzie si era sentita sempre più male, prima a causa dei ricordi, poi dell'incidente che per fortuna non aveva fatto, ma ci era mancato pochissimo. Sotto questo punto di vista si riteneva molto fortunata. Era troppo stanca per scrivere, coccolare i gatti, giocare con Hope o fare qualsiasi altra cosa. Non aveva nemmeno più voglia di raccontare ai suoi genitori ciò che era successo. Tutta l'adrenalina che aveva avuto in corpo quando era uscita dallo studio di Catherine non c'era più.
 
 
 
Demi, intanto, andò in bagno, poi si lavò il viso e bevve qualche sorso d'acqua. Aveva la gola riarsa e si sentiva come se stesse per vomitare. Si sedette accanto al water e aspettò.
"Oh mamma" sospirò, mentre iniziava ad avere i conati e si inginocchiava davanti al WC.
Tossì forte e un sapore acido le riempì la bocca. Non rigettava nulla, ma si disse che avrebbe tanto voluto farlo. Forse, in quel modo, la terribile nausea che le stava mettendo in subbuglio lo stomaco sarebbe passata. Udì bussare.
"Demi, tutto bene?" chiese Andrew, preoccupato.
"Vieni" riuscì a mormorare.
L'uomo entrò e le si inginocchiò accanto, sostenendole la fronte.
"Non… non credo di stare per vomitare."
"Okay, allora vieni con me. Hai bisogno di mangiare qualcosa."
Demi chiuse il water e tirò lo sciacquone, poi lo seguì. Andrew la fece accomodare e le diede un pacchetto di cracker.
"Questi faranno diminuire la nausea."
Demetria conosceva un altro rimedio, ma non lo disse perché aveva odiato i momenti in cui sua mamma le aveva fatto bere dell'aceto. Si sentiva male al solo pensiero.
Jack corse in cucina e cominciò a grattare sulla sedia di Demi. Lei si scostò un po' dal tavolo permettendogli di salirle sulle gambe. Il gatto, felice, cominciò a lavarsi e a fare le fusa. La ragazza sorrise e diede un'occhiata alle bambine. Mac era seduta sul divano, Hope invece stava giocando con Chloe. La gattina le aveva preso una manina fra le zampe, senza però tirare  fuori gli artigli e cercava di tenerla lì. La bimba, invece, provava a tirare via la mano e, quando ci riusciva, la micia la riprendeva.
"Hai una brava gatta" commentò Demi. "Non la sta nemmeno graffiando mentre gioca."
"Grazie; evidentemente le ho insegnato a comportarsi  bene."
"Come sta la sua zampa?"
"È guarita. Sono andato ieri dalla veterinaria che le ha tolto i punti."
"Fantastico!"
"Non so se sia il momento adatto per parlarne, ma cosa mi dovevi dire?"
"Stavo pensando che non sono convinta di voler fare l'intervista, ma preferirei parlarne un altro giorno, ti dispiace? Ora sono un po' troppo scossa."
"Tranquilla, posso immaginarlo."
"Pensavo di portare Mackenzie in ospedale domani pomeriggio per farle fare quegli esami che Catherine vuole avere, solo che dovrò annullare la lezione con Padre Thomas. Oh cavolo, Mac ci rimarrà malissimo!"
"Basterà spiegarglielo, capirà."
"Sì, in fondo la cosa più importante per qualsiasi persona è la salute. Tuttavia, di questo passo, chissà quando riuscirà a fare il battesimo. Domani chiamerò il Padre e quando Mac uscirà da scuola glielo dirò. Oggi Catherine mi ha chiesto se potremmo andare a parlarle, mercoledì. Vorrebbe dirci alcune cose su Mac, su come la vede" continuò la ragazza abbassando la voce.
"D'accordo, dimmi l'ora e mi libererò di sicuro."
"Non ti creerà problemi con Janet?"
"Le spiegherò tutto. Del resto, si tratta di una cosa importantissima e non posso e non voglio mancare."
Demi gli sorrise, grata. Sapeva che Andrew sarebbe venuto di sicuro, ma sentirselo dire era stato comunque molto bello.
"Demetria, pensi che dovremmo raccontare a Catherine ciò che è successo oggi, o lasciare che sia Mackenzie a parlargliene la settimana prossima?"
"Non so. Sicuramente dovrò raccontarlo al medico, domani, oppure lo farà lei. Forse potremmo solo accennarlo alla psicologa, in modo che poi Mac possa raccontarle cos'ha provato."
"Va bene, faremo così."
"Mamma, perché la micia non vuoe più giocale con me?" chiese Hope entrando in cucina.
"Si dice "vuole", tesoro, e "giocare"" la corresse. Chloe era corsa via, non si vedeva più lì in salotto. "Forse è stanca. I gatti amano giocare e farsi coccolare, ma solo quando lo vogliono loro. Tra un po' tornerà, vedrai. Vuoi accarezzare Jack?"
"Sì."
Hope iniziò a toccargli la testa, rischiando di mettergli un dito nell'occhio.
"Piano amore, devi toccarlo un po' più lontano dagli occhi. Gli piace quando qualcuno lo gratta dietro le orecchie, così" le spiegò il papà, mostrandole come si faceva.
Quando Hope ci provò, il gatto ricominciò a fare le fusa.
"Perché fa così?" domandò la piccola, curiosa.
Non riusciva a capire cosa fosse quello strano rumore, che però le piaceva moltissimo.
"Si chiamano "fusa"" le disse la mamma. "I gatti le fanno quando hanno voglia di coccole, o quando qualcuno li accarezza o li gratta sul pancino o dietro le orecchie, come stai facendo tu. È un modo tutto loro per dire che lo apprezzano. Noi li coccoliamo e i mici, con le fusa, fanno lo stesso con noi."
"Fusa… bello!" esclamò Hope.
"Sì, è bellissimo."
 
 
 
Mackenzie aveva perso la cognizione del tempo. I suoi genitori, in cucina, continuavano a parlare mentre Hope accarezzava uno dei due gatti. Dalla sua posizione, la bambina non riusciva a capire quale. Che cosa le stava succedendo? L'unico momento nel quale si era sentita tanto spaventata e confusa era stato poco dopo la morte dei suoi genitori, sull'ambulanza. Lei era distesa su quella barella mentre Hope,lì vicino, continuava a piangere disperatamente.
Basta! pensò. Non voglio più ricordare, almeno non per ora. Mi fa troppo male e non riesco a gestire tutte queste emozioni. Ce ne sono state troppe, oggi.
Se avesse lasciato che la sua mente scavasse ancora nel suo passato si sarebbe sentita male, ne era certa. Odiava se stessa per non riuscire più ad essere felice dopo i passi in avanti che era riuscita a fare. Catherine diceva che lei non era debole e anche i suoi lo pensavano. Tuttavia, in quel momento, Mackenzie non era del tutto sicura che fosse la verità. Forse a volte era più forte, ma appena accadeva qualcosa si indeboliva di nuovo. Come avrebbe potuto essere felice se, nel corso della sua vita, avesse continuato a pensare di valere così poco? Eppure, in quel momento, era convinta di non poter cambiare. Si sentiva così, punto e basta. Non aveva né la forza, né tantomeno la voglia di pensare che le cose sarebbero migliorate, un giorno. Si alzò di scatto dal divano, così velocemente che ebbe un capogiro, ma per fortuna le passò subito.
"Amore, dove vai?" le chiese la mamma guardandola.
Lei la raggiunse e scrisse:
Vado in bagno. Torno subito.
"Okay."
La bambina non capì che sua mamma aveva compreso che c'era qualcosa che non andava, né aveva visto come l'aveva guardata, altrimenti avrebbe notato un misto di preoccupazione e paura dipinto nei suoi occhi.
Si chiuse la porta alle spalle, si sedette a terra e cominciò a piangere. Provò a pensare a qualche preghiera, ma nonostante le sapesse tutte a memoria - non solo grazie a Padre Thomas, ma anche alla mamma che spesso gliele faceva scrivere -, non gliene venne in mente nessuna. Non riuscì nemmeno a ricordare una delle canzoni delle Cimorelli che le avevano dato conforto i giorni precedenti. La sua testa era troppo annebbiata per poter pensare a qualcosa che la facesse stare meglio. Bevve qualche sorso d'acqua, poi uscì.
"Mac Mac?" chiese Hope, che era davanti alla porta e la guardava.
Lei sorrise e le prese la manina, poi tornarono insieme dai genitori.
"Tesoro, Hope è venuta davanti alla porta del bagno qualche minuto fa. Avrebbe anche voluto entrare. Le ho detto di allontanarsi pensando che a te potesse dare fastidio sentirla lì fuori, ma non mi dava retta."
Non importa, mamma. Non l'ho nemmeno sentita.
"Hai pianto" affermò sicura Demi, alzandosi e circondandole le spalle con un braccio.
Beccata. Alla bimba era venuto spontaneo pensarlo, quasi che piangere fosse una cosa che non avrebbe dovuto fare. Mio Dio, si stava davvero facendo problemi per quella stupidaggine? Devo avere qualcosa che non va, oggi.
Sospirò e chiese se avrebbero potuto mangiare qualcosa tutti insieme. Cominciava ad avere  una certa fame.
"Sì. Che cosa cuciniamo?" domandò Andrew.
Alla fine optarono tutti per un buon latte con dei biscotti. Né Demi né il fidanzato avevano voglia di mettersi ai fornelli: erano troppo stanchi.
Il pasto fu consumato in assoluto silenzio. Se da una parte Mackenzie avrebbe voluto raccontare come mai aveva pianto e perché quel pomeriggio era tanto strana, dall'altra non vedeva l'ora di finire di mangiare, andare a casa, infilarsi a letto e dimenticare tutto per qualche ora. Demi ed Andrew si lanciarono uno sguardo d'intesa.
"Pensi anche tu quello che penso io?" gli chiese la ragazza.
"Credo di sì."
"Faremo così, allora."
Non avevano voluto dirlo per non farla sentire a disagio, ma Mackenzie appariva loro troppo provata e la cosa migliore era lasciarla in pace. Nel caso il giorno dopo non avesse detto nulla, i due avrebbero insistito un po'.
Quando le aveva invitate, Andrew si era immaginato di passare una serata tranquilla a mangiare e poi a guardare un film o un cartone animato, ma visti l'incidente e tutte le emozioni che ne erano seguite, chiese a Demi e a Mackenzie se se la sentivano di restare oppure no. Non voleva forzarle. Demetria lasciò che fosse la figlia a rispondere.
Scusa papà, ma sono molto stanca. Vorrei solo andare a casa e dormire, ma se voi volete restare, posso fare uno sforzo.
L'uomo le diede un bacio e le disse che non c'era nessun problema.
"A volte è meglio non pensare e, come si dice, dormirci sopra" disse poi.
Demi fu d'accordo, così, dopo essersi coccolati un po', Andrew accompagnò le sue donne alla macchina e Demi e le bambine tornarono a casa. Una volta entrate, salirono al piano di sopra e andarono in camera loro. Dopo aver chiuso le imposte, Mackenzie si infilò sotto le coperte. Trasse un profondo respiro e iniziò a contare, sperando che farlo la aiutasse a prendere sonno. Voleva solo dormire per dimenticare quel pomeriggio difficile. Pian piano iniziò a non ricordare più a che numero era arrivata, mentre sentiva che il sonno la stava vincendo. Poco dopo si addormentò.
 
 
 
Andrew si svegliò di buon mattino. Aveva dormito abbastanza bene, anche se vedere Mackenzie tanto turbata l'aveva fatto sentire male. Avrebbe mandato un messaggio a Demi più tardi.
Starà ancora dormendo, a quest'ora.
Si lavò il viso e si vestì, poi scese in salotto. I suoi gatti dormivano, uno sul divano e l'altra su una sedia. Li lasciò stare e uscì. C'era una cosa che voleva fare e desiderava andare in quel posto adesso che era più tranquillo del solito. Forse sarebbe stato l'unico a trovarsi lì a quell'ora e quella consapevolezza lo fece sentire meglio. Una brezza gelida gli colpì il viso. La notte prima era piovuto e le temperature si erano notevolmente abbassate. La sera precedente, quando Demi era andata via, lui aveva acceso la televisione e guardato il telegiornale. Una giornalista aveva detto che in montagna c'era già la neve!
Pazzesco! pensò.
Incontrò un uomo che correva e un altro che passeggiava con un cane. Cercò di percorrere delle stradine interne che conosceva in modo da avere un po' di tranquillità: già la mattina presto il traffico rendeva Los Angeles una città caotica. Non guardava cosa gli stava intorno, né le case, né i rari giardini. Attraversò un parco senza nemmeno sentire il canto degli uccelli che, a breve, sarebbero migrati in terre lontane. Mentre procedeva a passo lento verso il cimitero, pensava solamente a Carlie e al dolore che provava per la sua assenza. Certi giorni era insopportabile. In altri, invece, Andrew riusciva a gestire le proprie emozioni. Le controllava finché era al lavoro, per poi rattristarsi una volta rientrato a casa e solo il calore dei suoi gatti e, quando si vedevano, l'affetto di Demi e le bambine, gli davano la forza di andare avanti.
Sì, ma la psicologa dice che anch'io sono forte. In fin dei conti forse era vero, visto tutto quel che aveva passato. Sto facendo passi avanti! Prima di oggi non avevo mai pensato una cosa del genere, non che io ricordi.
Iniziò a ricordare alcuni momenti passati con la sorella.
 
Andrew sedeva sulla poltrona del salotto. Era assurdo quel che era successo la notte prima, davvero. Ancora non riusciva a capacitarsene. Quando l'aveva detto ad un medico, colui che gli aveva dato la terribile notizia della morte del padre, e pochi giorni prima della madre, la sua risposta era stata:
"È normale."
Probabilmente era così e forse quell'uomo aveva pronunciato tali parole perché in ospedale doveva vedere cose terribili, ma per lui non era affatto normale tutto quel che era accaduto. L'intento del dottore era stato quello di consolarlo, ma in realtà aveva ottenuto l'effetto opposto: ora Andrew si sentiva peggio di prima. Il cellulare iniziò a vibrare una, due, innumerevoli volte. Sbloccò lo schermo e lesse qualche messaggio dei suoi colleghi.
Mi dispiace per i tuoi genitori.
Condoglianze.
Mi spiace, Andrew.
Come ti senti?
Ce n'erano molti altri, sempre dagli stessi colleghi e da Janet, che gli aveva domandato se poteva fare qualcosa per lui, ma non rispose a nessuno. Era grato ai colleghi per la loro vicinanza. Gli dimostravano calore nonostante lavorasse con loro da un anno appena e non si conoscessero così bene a vicenda, ma non se la sentiva di scrivere. Non ne aveva la forza, per il
momento.
"Andrew?"
Era Carlie. La ragazza, pallidissima, se ne stava in piedi sulle scale e ad Andrew sembrò che fosse riuscita a pronunciare il suo nome con fatica.
"Carlie, ciao."
Lei scese e gli si sedette vicino, lasciandosi cadere di peso sul divano.
"Dimmi che è stato tutto un brutto incubo! Dimmi che i nostri genitori torneranno presto, ti prego!" esclamò lei, iniziando a singhiozzare.
"Purtroppo no, piccola" le sussurrò abbracciandola, "ma andrà tutto… Insomma, ce la faremo, okay? In qualche modo riusciremo a stare meglio."
Andrew non capì se aveva detto quelle cose per dare forza più a se stesso o alla sorella. L'unica cosa della quale era sicuro era che non si sentiva affatto convinto che le cose sarebbero migliorate.
"Non dire così" replicò Carlie, asciugandosi gli occhi che però, subito dopo, si bagnarono di nuovo. "La nostra vita non sarà mai più come prima!" concluse, con voce rotta.
Andrew non avrebbe più dimenticato tale frase che, pronunciata da Carlie con quel tono greve, esprimeva il dolore immenso che entrambi provavano e la consapevolezza che, da quel momento in avanti, avrebbero dovuto cavarsela da soli.
 
L'uomo tossì forte e gli mancò il fiato. Non pensava a quelle cose da tanto di quel tempo!
Gli venne in mente una poesia che Demi gli aveva letto una volta. Era di un certo… come diavolo si chiamava? Ah sì, Victor Hugo, quello che aveva scritto "I miserabili". Sua figlia era morta annegata e lui, anni dopo, aveva scritto una poesia in cui diceva che il giorno seguente sarebbe andato alla sua tomba. Andrew ricordava ancora che Demi, con la sua voce calda e dolce, gli aveva letto quei versi, traducendoli in inglese subito dopo e che lui era rimasto così colpito dalla profondità della poesia che si era commosso. Ne ricordava una gran parte.
Non posso restare lontano da te più a lungo.
Camminerò con gli occhi fissi sui miei pensieri,
senza vedere niente al di fuori, senza sentire alcun rumore,
solo, sconosciuto, la schiena curva, le mani incrociate,
triste, e il giorno per me sarà come la notte.
Quei versi esprimevano ciò che lui provava.
Salì i pochi gradini che lo separavano dal cimitero e si fermò a causa di una vertigine improvvisa. Si appoggiò al freddo metallo del cancello e vi strinse le mani attorno per sostenersi meglio. Per un momento gli mancò l'aria.
"Ce l'ho fatta il giorno del funerale e ci riuscirò anche stavolta" si disse.
Inspirò ed espirò più volte e l'aria fresca gli parve una mano che, anche se gli provocò piccoli brividi, riuscì a calmarlo. Spinse il cancello che fece uno stridio terribile tanto da fargli male alle orecchie, poi proseguì tentando di fare meno rumore possibile mentre calpestava il ghiaino.
"Ciao, Carlie" sussurrò quando fu di fronte alla sua tomba. "Spero che tu stia meglio rispetto a come ti ho vista nel sogno qualche giorno fa. Io non mi sento più così male, anche se mi manchi tantissimo. Continua a pregare per me, sorellina! Sapere che lo fai mi dà ancora più forza per andare avanti. Ogni giorno mi sembra di scalare una montagna e quello successivo di essere di nuovo allo stesso punto. Non è così, probabilmente, però questo è ciò che provo per ora." Grandi lacrime iniziarono a inondargli il volto. "Io… ho sperato fino all'ultimo che tu ce la facessi" riprese, con voce tremolante. "Sono fiero di te perché so che hai lottato fino all'ultimo." Detto questo si inginocchiò e cominciò a pregare. Nel frattempo guardava la foto della sorella. Carlie sorrideva e lui pensò che non avrebbe mai più visto, nella realtà, quel sorriso. Carlie era felice in quella foto, ma nel sogno che aveva fatto l'aveva vista più triste che mai. Quel pensiero gli fece male al cuore. Sicuramente ho già pensato una cosa del genere. È proprio vero che, quando si perde una persona cara, si fanno spesso gli stessi pensieri, come in un circolo vizioso.
Si alzò e sistemò alcuni fiori che qualcuno aveva lasciato sulla tomba. C'erano anche dei bigliettini. Notò che erano firmati: Jenny e Alice, questi erano i nomi scritti. Sorrise. Carlie aveva delle amiche meravigliose che non l'avrebbero mai dimenticata. Prese un vasetto di crisantemi che stavano appassendo e percorse qualche metro. Nel cimitero, in disparte, c'era una piccola fontanella il cui rubinetto  poteva essere aperto al bisogno per innaffiare i fiori. Sperando che quei crisantemi potessero durare qualche altro giorno, Andrew li bagnò con cura e poi li riportò al loro posto.
"Vedi, Carlie? Sono già tornati belli. Certo non come quando sono stati portati, ma non sono male, vero? Te ne porterò un po' anch'io, la prossima volta. Ti piacevano le rose bianche, quindi vedrò di procurarmene un bel mazzo. Te lo prometto."
Non sapeva cos'altro dirle. Non aveva più molta forza di parlare, ma era sicuro che Carlie avrebbe capito, e poi il dialogo con chi non c'è più può essere anche muto, i defunti lo udiranno lo stesso. Si inginocchiò una seconda volta e pregò, se possibile con più intensità, poi andò sulle tombe dei genitori, sepolti lì vicino.
"Mamma… papà… mi mancate tantissimo anche voi" disse, iniziando a piangere. "A volte non riesco ancora a credere che non ho più una famiglia. Riuscirò mai ad accettarlo davvero?"
In realtà tu hai una famiglia: sono Demi e le bambine.
Quel pensiero arrivò senza che lui lo volesse. Era vero, non doveva lasciarsi abbattere così perché non era solo. Non lo sarebbe mai stato.
Si alzò dopo qualche minuto. Doveva tornare a casa, prendere le sue cose e andare al lavoro. Salutò la sorella e i genitori con un bacio e promise loro che sarebbe tornato a trovarli presto.
 
 
 
Quella mattina, con la mamma e Hope, Mackenzie era uscita a portare Batman a fare una passeggiata. Non ci riuscivano sempre, ma cercavano di farlo più spesso che potevano, almeno due volte al giorno. Al cane faceva bene camminare o correre in posti che non fossero la sua casa o il giardino. Molte volte, comunque, Batman stava fuori perché gli piaceva. Correva e scavava dei buchi dove nascondeva qualche osso che Demi trovava quando cercava di risistemare il giardino. Alcuni giorni prima il cane aveva fatto i suoi bisogni accanto ad una pianta. La ragazza non ne era stata molto felice, ma si era data della stupida pensando che avrebbe dovuto portare fuori Batman più frequentemente.
Il cane si fermò bruscamente ed iniziò a guaire prima piano, poi sempre più forte. Mackenzie guardò preoccupata la mamma e le domandò se era lei a sbagliare qualcosa. Forse tirava troppo i, guinzaglio?
"No amore, stai andando benissimo" la rassicurò la donna.
Era sempre stato un bravo cane e non si era mai comportato così. Che gli stava succedendo? Magari aveva sentito un rumore che gli aveva dato fastidio, oppure non stava bene. "Forse vuole correre un po'. Arriviamo fino al parco e poi lo liberiamo in modo che possa sfogarsi. Vediamo se così si tranquillizza."
Demi aveva fatto ciò altre volte e Batman non era mai scappato, anzi, era sempre rimasto abbastanza vicino a lei, per cui si fidava a lasciarlo libero per qualche minuto. Entrarono nel parco e la ragazza gli tolse il guinzaglio, ma stranamente il cane non si mosse. Annusò l'erba e poi guardò le sue padrone in modo strano. Sembrava triste, ma Demetria si disse che forse quella era solo una sua impressione. Se si fosse comportato ancora così ne avrebbe parlato con Andrew e magari portato il cane dal veterinario. Si disse che avrebbe dovuto satre più attenta al suo comportamento, almeno per quel giorno. Poco dopo, purtroppo, i quattro dovettero rientrare perché Mackenzie e Hope avrebbero iniziato la scuola a breve.
 
 
 
"Chi di voi sa contare fino a cinque?"
La maestra di matematica aveva appena terminato di presentarsi e di chiedere ai bambini i loro nomi e quanti anni avevano. Non avrebbe fatto nulla di impegnativo la prima lezione, ma desiderava comunque iniziare a capire se i piccoli sapevano fare alcuni calcoli.
"Io!" esclamò una bambina bionda.
Mackenzie sapeva che si chiamava Katie, ma non ci aveva ancora parlato. In ogni caso le sembrava simpatica.
"Puoi dirli ad alta voce?"
"Sì: uno, due, tre, quattro, cinque."
"Brava Katie! Sai anche scriverli? Non è un problema se non riesci a farlo, davvero! Imparerete tutti, pian piano" continuò la donna, parlando con dolcezza.
"No, non lo so fare."
"D'accordo. Allora adesso li scri…"
Io lo so fare.
Mackenzie alzò la mano e passò il foglietto con quella frase alla donna. Il suo banco e quello di Elizabeth erano vicinissimi alla cattedra, in modo che Mac potesse dialogare con le insegnanti senza doversi alzare ogni volta. Ammetteva che stare a pochi centimetri dalle maestre la faceva sentire un po' in soggezione e, anche se era sicura che Elizabeth non gliel'avrebbe mai detto, sapeva che lei provava la stessa cosa.
"Okay Mackenzie, ti andrebbe di venire alla lavagna a scriverli?"
La bambina annuì e si alzò, ma quando notò che tutti i compagni le puntavano gli occhi addosso iniziò a tremare. Come avrebbero reagito gli altri bambini se la maestra avesse fatto notare che stava sbagliando? Forse sarebbe stata presa in giro.
Certo che, se penso queste cose dei miei compagni non conoscendone nessuno a parte Elizabeth, inizio l'anno davvero bene! pensò, ironica.
Cercò di concentrarsi esclusivamente su ciò che avrebbe dovuto fare. Si avvicinò alla lavagna e non appena prese il gessetto, questo rischiò di cadere per terra a causa del continuo tremolio della sua mano. Inspirò ed espirò due volte e poi iniziò a scrivere.
1 2 3 4 5. Ce l'aveva fatta! La maestra la guardava e le sorrideva, quindi perché non scrivere qualche altro numero? 6 7 8 9 10. Continuò a guardare la sua mano che scriveva cifre su cifre non rendendosi nemmeno conto fino a dove fosse arrivata. Si sentiva più rilassata se pensava di essere sola in quella stanza e forse era per questo che aveva iniziato a scrivere senza riuscire a fermarsi. Lo fece soltanto quando sentì un fragoroso applauso.
"Brava Mackenzie, hai scritto i numeri dall'uno al cento!" esclamò la maestra, mentre i suoi compagni applaudivano sempre più forte.
La bambina sorrise e tornò a sedersi.
"Complimenti" le disse Elizabeth. "Spero di diventare anch'io brava come te."
Lo sarete tutti molto presto, ne sono sicura; e comunque io non so un sacco di cose e non voglio che qualcuno pensi che sono perfetta.
"Io non l'ho mai detto."
Tu no, ma forse qualcun altro lo farà commentò Mac e non aggiunse altro.
La sua nuova amica avrebbe voluto farle qualche domanda in proposito, ma non poté perché la maestra ricominciò a spiegare.
 
 
 
"Allora bambini, oggi faremo una cosa divertentissima, okay?" chiese la maestra Linda.
Tutti urlarono di sì e cominciarono a battere le mani. Hope, invece, sussurrò appena quella parola. Giocava solo con la sorellina e a volte con Batman mentre la mamma la guardava e la maestra ora forse voleva che facessero qualcosa tutti insieme. Aveva capito bene? Sarebbe stata brava a fare quel gioco con i suoi compagni?
"Bene, allora… shhh, Brian, non gridare" continuò la donna, cercando di calmare un bambino che, in preda alla gioia, continuava a urlare come un pazzo. "In fondo a questa stanza c'è un grande cesto pieno di animali di plastica. Lentamente, senza correre, dovrete andare a prenderne due a testa, portarli sul tappeto su cui ora siamo seduti e uno alla volta direte di chi si tratta, capito?"
"I nomi degli animali?" chiese Hope, un po' insicura.
"Brava, piccola. Al mio tre: uno, due, t…" I bambini si erano già alzati e, ignorando quel che la maestra aveva detto, stavano correndo verso il cesto. Alcuni caddero a terra, ma non si fecero male perché il tappeto, che occupava tutta la stanza, era grosso e morbido. "Tornate indietro!" esclamò la donna, cercando di non arrabbiarsi. Capiva i suoi bimbi: erano in otto, volevano giocare e non avevano pazienza. In più sentivano gli altri ridere e divertirsi nelle altre classi ed era ovvio che volessero farlo anche loro. Tuttavia lei voleva che i bimbi imparassero ad ubbidirle. "Bravi" disse quando tutti si furono seduti di nuovo e senza fare storie. "Uno, due, tre!"
Hope fu una degli ultimi ad arrivare al cesto. Camminava piano per non rischiare di cadere o di andare addosso a qualche altro bambino. Prese un paio di animali, tornò indietro e si sedette al suo posto incrociando le gambe.
"Chi vuole cominciare?" chiese Linda.
"Io!" urlarono tutti.
"Sceglierò io. Cominciamo da Annabelle" disse, guardando una bambina con i capelli biondi raccolti in due codine.
"Sì" sussurrò lei alzandosi.
Hope la guardò: aveva due bellissimi occhi. Di che colore erano? Lo sapeva, ma non ricordava come si chiamava. Blu? Sì, si poteva dire anche così, ma non era la parola giusta.
Annabelle si girò verso la porta, intimidita.
"Non fare così, piccola. Sono sicura che sarai bravissima, tutti lo sarete. Girati verso i tuoi compagni e, quando vuoi, di' i nomi degli animali che hai in mano."
La voce dolce di Linda tranquillizzò la piccola, che ubbidì.
"Cane" disse, mostrandolo a tutti.
"Esatto. Come fa il cane?"
"Bau, bau!"
"Brava, e l'altro che animale è?"
"Una tigre e fa arggggh."
"Sì. Sei stata bravissima! Siediti pure, ora."
Alcuni bambini riuscirono a fare entrambi i versi degli animali che avevano preso, altri no e quindi furono aiutati dalla maestra o dai loro compagni. Quando fu il turno di Hope, la piccola esclamò:
"Gatto, miao!"
"Benissimo, tesoro."
Guardò l'altro animaletto. Cos'era? La mamma gliel'aveva detto, ne era sicura. Volava e lei lo sentiva cantare ogni giorno. No, non lo ricordava. Si sentiva strana, stava male e provava qualcosa che non avrebbe saputo dire. Era troppo piccola per conoscere le parole "agitazione" o "ansia". Sapeva, però, una cosa: aveva paura. I suoi occhietti si riempirono di lacrime. Avrebbe pianto, ne era sicura.
"Hope, se non lo sai…"
"No, io lo so, ma… uccellino?" chiese, titubante.
"Sì, è giusto!"
La piccola si rilassò, mentre un meraviglioso sorriso le illuminava il volto.
 
 
 
"Magari vuole un compagno" disse Andrew dopo averci riflettuto.
Era al telefono con Demi e la ragazza gli aveva appena raccontato che Batman non faceva altro che guaire e andare in giro per la casa come se cercasse qualcuno. Aveva provato a farlo giocare e a distrarlo in ogni modo, ma non aveva ottenuto alcun risultato. Il cane lanciava dei guaiti che le facevano male al cuore, sembrava un pianto vero e proprio. Aveva anche guardato se si era preso una zecca - nonostante, adesso che non faceva più così caldo, quegli animaletti fastidiosi fossero praticamente spariti -, ma non ne aveva. Camminava bene, correva, mangiava, beveva, faceva i bisogni, insomma alla ragazza non sembrava che avesse un problema di salute.
"Quindi secondo te si sente solo?"
"Può essere che la compagnia e l'affetto degli umani non gli bastino più. Magari ha bisogno di un altro animaletto, un cagnolino o un gattino che gli faccia compagnia."
"Non ci avevo pensato, ma effettivamente è possibile. Non lo so. Avere un altro cane sarebbe un impegno, mentre con un gatto già di meno. Ci devo riflettere."
Forse a Batman avrebbe fatto bene, anche se avere un nuovo membro in famiglia avrebbe potuto non essere così facile da accettare per lui all'inizio. Mackenzie e Hope ne sarebbero state felici. Demi aveva sempre pensato che prima o poi avrebbe preso un altro batuffolo peloso e magari quello era proprio il momento giusto. Nel profondo del suo cuore lo desiderava tantissimo. Le sarebbe piaciuto prendere un altro cane, ma adorava anche i gatti e, dato che non ne aveva mai avuto uno, si disse che magari era giunta l'ora di iniziare una seconda avventura con un bel micio.
Chiamò Padre Thomas e si scusò mille volte. Gli spiegò la situazione e lui capì.
"Potresti portarla qui domani" le propose. "Mentre voi andrete all'incontro con la psicologa noi potremmo comunque fare lezione."
"Sei sicuro? Non vorrei mai disturbarti."
"Sono libero, Demi, non preoccuparti."
"Penso che per Mackenzie non ci saranno problemi, quindi va bene. Ti ringrazio."
 
 
 
"Non ti fa star male sapere che siamo da sole anche oggi?" chiese Elizabeth mentre si sedeva in un tavolo con Mackenzie accanto.
Avevano preso entrambe un piatto di ravioli ai funghi e uno di polpette con alcune verdure di contorno. Mackenzie non era abituata a mangiare così tanto in un solo pasto, ma quel giorno aveva molta fame.
La mensa era piena di bambini che facevano una confusione infernale e le due si erano mese molto vicine perché altrimenti Mac non avrebbe sentito Lizzie parlare.
No, oggi non ci faccio quasi caso. ÈÈ stata una bella mattinata e non voglio che qualcosa o qualcuno mi rovini la giornata.
"Hai ragione. Bisogna godersi i bei momenti."
Entrambe le bambine erano contente. Erano insieme e questo bastava loro per sorridere. Mackenzie avrebbe voluto parlare alla sua amica di ciò che aveva ricordato, ma si disse che non le aveva ancora detto nulla della psicologa e di quel che stava facendo con lei. Inoltre non la conosceva molto bene, quindi si disse che sarebbe stato meglio aspettare un altro po' prima di raccontarle cose tanto personali. Dal canto suo Elizabeth aveva mille domande da porre a Mac, ma non lo faceva per paura di essere indiscreta o di ferirla. Sapeva che era una bambina che doveva aver sofferto molto e si domandava come facesse a sorridere nonostante tutto quello che aveva passato. Lei, ne era certa, non sarebbe riuscita a farlo se i suoi genitori fossero morti.
Non è facile.
"Cosa?" chiese l'altra dopo aver ingoiato un boccone.
Mackenzie mangiò qualche forchettata di pasta, poi bevve un sorso d'acqua e scrisse:
Ho capito quel che stavi pensando. Il tuo sguardo si è perso per un momento nel vuoto e poi si è rivolto a me, quindi ho dedotto che ti stessi domandando qualcosa a proposito dei miei genitori, o di come riesco a vivere la mia vita cercando di sorridere più spesso che posso.
"Mackenzie, io non volevo! Insomma, se ci sei stata male ti chiedo scusa! Se pensi che io ti abbia guardata per… come si dice? Dai, conosco quella parola!"
Compassione?
"Esatto. Non volevo guardarti con compassione, ma pensavo semplicemente che sei una bambina molto coraggiosa e brava."
Elizabeth cominciò a sfregare le mani l'una contro l'altra, non sapendo più cosa dire e temendo di aver già parlato troppo. Aveva forse sbagliato ad esprimere i suoi pensieri ad alta voce? Parlare molto era sempre stata una sua caratteristica, ma la mamma le aveva detto che a volte, in certe situazioni, il silenzio era la cosa migliore.
Questa era una di quelle pensò, dandosi della stupida.
Stai tranquilla, Lizzie si affrettò a rassicurarla Mac. Non voleva che si sentisse in colpa. Non mi hai fatto nulla di male. Te lo direi se fosse così, credimi! In ogni caso, come stavo dicendo, non è facile, perché il loro ricordo è con me ogni giorno e assieme ad esso c'è il dolore, che non diminuisce e non va mai via. Penso che non sparirà. ' anche più forte della bellezza dei ricordi. Comunque ho una mamma adottiva e un papà fantastici ed è grazie a loro e alla mia sorellina se ora sto meglio.
"Sei fortunata ad avere una sorella. Ne vorrei una
anch'io."
Dopo due ore di educazione fisica, i bambini tornarono in classe per seguire l'ultima lezione del giorno: geografia. La maestra, però, non arrivava più, così i piccoli cominciarono a parlare ad alta voce e qualcuno iniziò a correre in giro per la stanza. Mackenzie ed Elizabeth se ne stavano tranquille ai loro posti, ma erano le uniche a farlo. Non si sentivano ancora integrate nella classe e per questo non si unirono ai giochi degli altri.
"Shhh, fate silenzio, bambini!" li sgridò Rosalie, una bidella.
A Mackenzie quella ragazza piaceva. Adorava i suoi boccoli biondi e il suo sguardo dolce. Inoltre aveva due occhi di un azzurro chiarissimo ed era sempre sorridente. Mac ci aveva parlato pochissimo, ma le pareva una persona dolce e simpatica.
"Quando arriva la maestra?" chiese Katie.
"Noi ci stiamo annoiando!" si lamentò un altro bambino.
"Ascoltate, la vostra insegnante si è fatta male. Si è rotta un braccio poco fa, mentre scendeva le scale ed è andata al pronto soccorso con una sua collega. Purtroppo non ci sono insegnanti che possano sostituirla perché hanno lezione. Ora io ed altre bidelle chiameremo i vostri genitori per  sapere se potranno venirvi a prendere."
I bambini si misero ad urlare. La ragazza sorrise guardandoli mentre gioivano e si ricordò che, quando anche lei andava a scuola, era sempre stata felice se qualche insegnante era assente e avrebbe potuto andare a casa.
Dopo un po' di tempo tutti i bambini poterono uscire con i genitori o altri parenti. Demi venne a prendere Mackenzie con Hope. La bambina salutò la sua amica. Le due si abbracciarono ed Elizabeth le disse:
"Non vedo l'ora che venga domani per poterti parlare di nuovo",
cosa che commosse molto la piccola. Era bellissimo che, anche se si conoscevano da così poco, Lizzie la considerasse già tanto importante da dirle una cosa del genere.
Demi avrebbe voluto salutare Elizabeth ma lei andò via in fretta con la mamma.
"Sembra davvero simpatica, come mi avevi detto" commentò.
Mackenzie sorrise e annuì.
"Mamma, cosa facciamo adesso?" domandò Hope mentre le tre si dirigevano verso la macchina.
"Andiamo a casa, ma poi dobbiamo fare una cosa" rispose, vaga, poi guardò Mackenzie e le spiegò quello che avrebbero dovuto fare e la soluzione che Padre Thomas aveva trovato.
Gli esami saranno dolorosi?
"No, sta' tranquilla. Andrà tutto bene. Abbiamo l'appuntamento alle 16:00, comunque, quindi possiamo tornare a casa e rilassarci un po'. Hai compiti da fare?"
Devo scrivere dieci volte le vocali e altre dieci i numeri dall'uno al cento. Sai che oggi sono riuscita a scriverli alla lavagna e tutti mi hanno applaudita? domandò, sorridendo felice.
"Wow, sei stata bravissima!" esclamò Demi, abbracciandola.
Comunque, mamma, per me è perfetto quel che avete stabilito tu e il Padre. In fondo, andare oggi o domani non fa molta differenza.
Demi annuì. Sapeva che sicuramente Hope si sarebbe annoiata in ospedale, ma non voleva affidarla di nuovo al fidanzato e i suoi genitori erano ancora via, quindi sperò che tutto andasse bene e che sarebbero uscite di lì presto.
"Sorpresa!" esclamò una voce alle loro spalle.
Era Andrew.
"Che ci fai qui?"
Demi era stupita. Non era mai venuto a prendere le bambine e  lavorava il pomeriggio.
"Sono uscito prima perché avevo finito tutto quel che dovevo fare e il mio capo ha detto che non aveva più bisogno di me. Avrei voluto venire con te e Hope a prendere Mackenzie, Demi, ma quando sono arrivato a casa tua tu non c'eri, per cui sono venuto direttamente."
"Mi fa piacere" gli disse la fidanzata sorridendo a trentadue denti e poi lo baciò su una guancia.
"Papà!" urlò Hope, alzando le braccia in alto per farsi prendere.
Andrew la sollevò e poi guardò Mackenzie con un velo di preoccupazione negli occhi.
"Come ti senti, amore?"
Rispetto a ieri, intendi? Molto meglio.
"Bene!"
Si chinò e le diede un bacio, poi visto che lui era venuto a piedi salirono tutti nella macchina di Demi.
"No, amore, hai sbagliato strada!" esclamò l'uomo.
Demetria avrebbe dovuto svoltare a sinistra, invece aveva appena fatto il contrario.
"Cosa? Oh, Dio, che stupida! Okay, ora mi giro." Andò un po' avanti per trovare un punto più largo della strada nel quale potersi muovere liberamente e tornare indietro quando, guardando davanti a sé, vide quello che sembrava un negozio con un cartello sul quale c'era scritto:
RIFUGIO PER GATTI ABBANDONATI.
"Se questo non è un segno, allora non so cos'altro lo sia" commentò.
"Che dici?" chiese Andrew, che non si era accorto di nulla.
"Guardate!" esclamò lei, rivolgendosi anche alle figlie.
Mackenzie lesse il cartello e sorrise. Avrebbe tanto voluto adottare un micio, ma non sapeva se la mamma sarebbe stata d'accordo e nemmeno come chiederglielo. Inoltre temeva che ci sarebbe stata malissimo se Demi avesse rifiutato la sua richiesta, benché capisse che un altro animale avrebbe comportato un maggior impegno.
"Ho sempre pensato che prima o poi avrei adottato un altro pelosino" disse, "ma non credevo sarebbe successo presto. Ci avevo pensato stamattina grazie a ciò che tu, Andrw, mi avevi detto. Non vorrei precipitare le cose, ma mi è sempre stato insegnato che quando capita qualcosa che potrebbe essere molto bello e che ci dà buone sensazioni, bisogna coglierlo al volo. Quindi, che ne dite se intanto entriamo e ci guardiamo intorno?"
"Per me va bene, se ne sei convinta" disse Andrew.
Adotteremo un gatto, mamma? Ne vorrei tantissimo uno!
Demi stava per dire che intanto sarebbero entrati a dare un'occhiata, ma poi si ripeté che doveva ascoltare il suo cuore e che voleva esaudire il desiderio della bambina. Lei non aveva quasi mai preso decisioni avventate, non era nel suo carattere, eppure quella volta si disse che stava facendo la cosa giusta. Sarebbe stato difficile, forse, occuparsi di un membro in più della famiglia, ma come anni prima aveva fatto Batman con lei, quel gatto avrebbe migliorato la vita di tutti. Sarebbero entrati, avrebbero chiesto informazioni, forse portato a casa il micio quel giorno stesso e quindi Demi avrebbe dovuto organizzarsi: comprare il cibo, la lettiera, un tiragraffi, un trasportino, una spazzola, una cuccia e nei giorni seguenti portarlo dal veterinario per eventuali controlli e vaccini, ma se pensava che avrebbe accarezzato e amato un altro animale il suo cuore si riempiva di una gioia immensa.
"Sì tesoro," rispose convinta, "lo faremo."
L'enorme sorriso che illuminò il viso di Mackenzie valse più di mille parole.
 
 
 
credits:
Demi Lovato, Sorry Not Sorry
 
Victor Hugo, Demain, dès l'aube
 
 
 
 
NOTE:
1. in questo capitolo ho iniziato a parlare di un album che Demi sta componendo.
Come avete notato sono presenti anche alcuni versi di una canzone. L'ha scritta per i suoi haters, è stata lei a dichiararlo. Io ho scritto che l'ha composta pensando alle accuse che le sono state rivolte dalla giornalista qualche capitolo fa, ma è qualcosa che ho inventato seguendo lo svolgimento degli eventi.
Ci tengo a precisare che il CD di cui ho parlato in realtà è uscito il 29 settembre di quest'anno, quindi nel 2017. Nella storia, però, per questioni di tempistica, verrà pubblicato più tardi. L'anno in cui gli eventi si stanno svolgendo è il 2019, per cui "Tell Me You Love Me" verrà pubblicato tra un bel po'. Mi sono informata il più possibile riguardo la composizione dell'album leggendo alcuni articoli di giornale e ciò che Demi ha rivelato a riguardo.
Sottolineo che ho fatto la scelta di ritardare l'uscita dell'album solo a causa dell'andamento della storia e che ciò non vuole assolutamente offendere né Demi Lovato, né il team che lavora con lei.
 
2. Per scrivere dell'attività sul gatto Tom che Catherine propone a Mackenzie mi sono documentata sull'ansia nei bambini e poi ho trovato, sul sito www.bcanxiety.com, un test che si può far fare ai bambini che si intitola:
Chester the Cat feels anxious!
Ovviamente ho scritto io le frasi del capitolo, non le ho assolutamente copiate, ma diciamo che leggere quelle cose mi è servito da spunto per creare qualcosa di realistico.
 
3. Victor Hugo perse la figlia Léopoldine il 4 settembre 1843. La ragazza, diciannovenne, si era sposata da poco con Charles Vacquerie, con il quale stava insieme da tre anni. Erano su una barca e stavano attraversando la Senna, quando un vento troppo  violento la fece rovesciare. Morirono entrambi. Ci sono varie versioni di questa tragica vicenda, una dice che Charles si lasciò morire dopo aver capito che la moglie era annegata, un'altra afferma che Léopoldine tentò di salvare Charles. Victor Hugo apprese la notizia quattro giorni dopo leggendo un giornale e non superò mai quel lutto. Per molti anni non scrisse più nulla. In seguito pubblicò "Contemplations", una raccolta nella quale è presente anche la poesia di cui ho citato alcuni versi, che si intitola "Demain, dès l'aube", ovvero "Domani, all'alba". Ecco il testo in lingua originale:
Je ne puis demeurer loin de toi plus longtemps.
Je marcherai les yeux fixés sur mes pensées,
Sans rien voir au dehors, sans entendre aucun bruit,
Seul, inconnu, le dos courbé, les mains croisées,
Triste, et le jour pour moi sera comme la nuit.
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Demi Lovato / Vai alla pagina dell'autore: crazy lion