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Autore: PawsOfFire    06/10/2017    3 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Note iniziali:
Buondì!
Il prossimo capitolo sarà la conclusione della prima parte della storia, con la chiusura dell'anno 1943 e l'inizio del 1944. La seconda parte, per comodità, verrà chiamata "Furia Nera - Stella rossa" e narrerà il penultimo anno di guerra. La terza ed ultima parte riprenderà gli ultimi mesi del conflitto mondiale e verrà pubblicata nel duemilacredici (?) 
Probabilmente continuerà qua e, sostanzialmente, non ci sarà nessun cambiamento nella pubblicazione. O forse avrà una formattazione a sè e verranno pubblicate in una serie...vedremo. Se avete qualche suggerimento non esitate a consigliarmi ~
Questo capitolo ha, come quello precedente, due punti di vista. La prima parte è il PV del Capitano. La seconda, dopo il simbolo  ~ è il PV di Daniel, che... 
Trigger Warning: in questo capitolo è descritta una scena di autolesionismo. Avverto, onde evitare situazioni spiacevoli. 
Ho scritto troppo, vi lascio alla storia. Buona lettura!





I giorni che seguirono furono aspri e duri.

Non che prima non lo fossero, ovvio, però...anche un eroe come il sottoscritto deve pur riposare, ogni tanto. Quando ricevemmo l’ordine di seppellire fino alla torre i nostri panzer decisi, in quanto Capitano (e capocarro) di autoproclamarmi capocantiere della compagnia.
In assenza del colonnello, intento ad incazzarsi per lo stato di semi-abbandono nel quale versavamo, IO, il secondo più alto in grado, presi le redini della situazione ordinando a tutti i miei subordinati di mettersi in fila in ordine crescente di grado.
“Soldati” sfilai a petto gonfio davanti a loro, camminando piano per destare tutta la soggezione che il mio ruolo potesse influire su di loro.
“La Patria richiede un enorme sforzo da parte vostra”
Qualcuno fece una pernacchia. “Ancora? E che palle” risuonò nell’aria ma io, magnanimo, non gli diedi peso.
“Dovete scavare fossi abbastanza grossi da seppellirci i vostri Panther. Dobbiamo creare la più lunga cortina difensiva della storia della cinquantesima divisione Panzer. Il destino del Reich dipende dalla vostra efficienza: ogni singolo russo che riuscirà a varcare questa linea” e la segnai con la punta dello stivale, un solco abbastanza profondo da essere visibile a tutti “ sarà un fallimento personale e vi sentirete abbastanza in colpa da non riuscire più a guardare la vostra patria con gli stessi occhi. Come vi sentireste se sapeste che l’uomo che avete lasciato scappare per vostra incapacità riuscisse a raggiungere casa vostra, darle fuoco e stuprare tutta la vostra famiglia?”

Un tizio con meno cervello che gradi (e stiamo parlando di una recluta) ridacchiò di buon gusto, esclamando “Che ci provino, tanto io vivo sullo Wildspitze!” *
A volte mi chiedo con quale coraggio riescano a reclutare giovani provenienti dalle vie più impervie dell’universo. Dall’accento potevo intuire che fosse un montanaro e che parlasse come prima lingua un assurdo dialetto conservato da quattro mummie e tramandato da vaccaio a figlio fino alla fine dei secoli.
Nonostante ciò io trovai il coraggio di impormi con la più ferma democrazia.
“Abbassi i toni, recluta. Sono il tuo superiore. Per altro, le consiglio di obbedire ciecamente nei dettami della più ferrea disciplina prussiana se non vuole finire davanti alla corte Marziale”
Il giovane montanaro, forse affascinato dalla mia colta dialettica, tacque, senza però nascondere un ridolino da sotto i baffetti incolti.
“Voglio una distanza di almeno cinque metri da un carro all’altro.
Compagnia, al lavoro!”
Aspettai invano un’ode, un eco di feroce carica battagliera che già contemplavo a braccia conserte ed occhi chiusi, ricevendo invece imprecazioni e pernacchie.

La nostra compagnia contava circa dieci carri e cinquanta carristi. Avremmo dovuto essere molti di più ma, per esigente belliche, alcuni plotoni vennero spostati e così mi ritrovai con carenza di personale.
In compenso trovai un delizioso ceppo miracolosamente asciutto, sul quale mi sedetti a gambe larghe per sovraintendere il lavoro.

“Capitano”
...Prontamente interrotto da Tom che, con la sigaretta in bocca ed un’espressione scocciata rigirava la miuscola pala da trincea tra le mani.
“Che c’è, adesso?”
“Mi chiedevo se potessimo avere una dotazione migliore rispetto a...questo”
“Negativo, Weisz. Ed ora non perda tempo in un inutile chiacchiericcio, sono sicuro che con la bocca chiusa il fosso verrà scavato molto più velocemente”
“Ma Capitano” Questa volta fu Klaus ad interrompermi. Era già grondante di sudore nonostante si fosse semplicemente chinato a terra.
“Noi siamo terribilmente svantaggiati. Siamo solo in tre, il ragazzo è in licenza e lei...”
“Kemple è ancora in licenza?” curai poco le sue parole, preferendo osservare l’orizzonte con i binocoli alla ricerca di possibili nemici.
Uno stormo di oche selvatiche si alzò in volo diretto verso il sud. Le seguii fino all’orizzonte, prima di distogliere lo sguardo e riprendere il mio lavoro da capocantiere.
“Dovrebbe tornare oggi”
L’uomo sospirò, spalando una minuscola porzione di terra.
“Spero sia stato piacevole il suo soggiorno in patria...”
Improvvisamente uno sparo rieccheggiò nell’aria, facendomi destare repentinamente dai miei pensieri per imbracciare il mio fidato mitra e rotolare giù dal ceppo, utilizzandolo come vana copertura.
“Cecchino?” chiese una vocina timida.
“Stai zitto, ignorante!” rispose una seconda voce. I due improvvisamente iniziarono a battibeccare giungendo infine alle mani e, grazie alla loro immensa stupidità, capii che, in realtà, non c’era nessun cecchino pronto a darci la caccia in quanto loro, visibili e mobili, sarebbero stati decisamente un ottimo bersaglio.
“Falso allarme” mi rialzai, posando l’arma per dare nuovamente l’ordine ai miei uomini di proseguire con il lavoro.
Restava solo da capire da dove provenisse quel suono.
“Dobbiamo davvero lavorare con un cecchino nei dintorni?” azzardò Joseph Aachen, cugino del mio sottoposto Klaus. Riunendo la vecchia compagnia il suo equipaggio era tornato al mio servizio e così anche quel fottuto di cervello del pittore che, rifiutando la pala perché troppo scomoda, preferì zappare utilizzando un bastone di legno strappato dalla fauci di Fiete.
Preferii non obiettare.
“Vi posso assicurare” enunciai, salendo sul ceppo a petto gonfio “che se ci fosse un cecchino, sareste tutti morti. Dunque, per dimostrare che ho ragione e che voi siete degli infedeli vergognosi, starò tutto il giorno in piedi su questo ceppo a dimostrazione della vostra scarsa fiducia nei confronti del vostro superiore, nonché Capitano, insignito della croce di ferro di seconda classe nell’anno 1942...”
“Capitano!”
Fu il campagnolo a chiamarmi, questa volta. In una mano reggeva un fucile di precisione russo trovato chissà dove e, nell’altra, una gigantesca oca morta.
Ecco chi aveva sparato.
“Prima ho fatto un po’ lo stronzo Herr e volevo scusarmi, quindi ti regalo questo se mi perdoni.”
Io, dall’alto del mio ceppo, lo osservai un po’ stranito. Certamente non era più vecchio di me, nonostante fosse fortemente segnato dal duro lavoro agricolo, nel suo volto scavato e nelle mani callose con cui mi porgeva il pennuto.
“Però prima di mangiarlo lo appende a testa in giù per tipo una settimana così tutti i liquidi vanno via e diventa più buono”
“Beh...” esitai.
In risposta lui sventolò la bestia morta, ficcandomi le zampe in mano.
“Non vuole il mio regalo, Capitano? È buono che le fa bene che lo vedo un po’ sciupato. Te lo manda il buon Wolki.”
“Wolki?”
“ Volker Höfler, Capitano! Come mio zio Volker che è morto in Russia qualche anno fa.
“Anche io ho uno zio mio omonimo morto durante la grande guerra ma...”
“No, no! Io intendo proprio in Russia che c’era andato per far fortuna e poi è morto derubato in Ungheria”**

...Ostmark.
Li riconosci subito per la loro scarsa capacità di orientamento. Credono che tutto il mondo sia loro. Stento a capirli.
“Vado a lavorare che i tuoi mi sembrano un po’ sciupati e da me siamo abbastanza.
Stammi bene, Capitano!”
Mi strinse il braccio, che ritrassi con un certo sdegno, prima di lanciarsi verso un Tom fintamente stanco che si concedeva l’ennesima pausa-sigaretta, lasciando che Klaus e Martin proseguissero nel tumulare la Furia, con la speranza che quella fossa che non diventasse la nostra tomba.

 

~

 

Vidi tutto bianco.
Urlai senza emettere suoni per la paura di essere diventato cieco, invece era solo la nebbia spessa e bianca che ricopriva la piana.
Mi sfregai gli occhi cisposi, sbattendo le palpebre più volte per cercare di capire dove fossi, cosa dovessi fare, dove andare.
Nulla. Riuscivo a vedere solo le immediate vicinanze, come le mie mani pallide ed incrostate di terra e sangue, mio o di chissà chi altro.
Tesi l’orecchio, cercando di captare qualche suono che mi aiutasse ad uscire da quell’inferno.
Nulla. Solo un fischio prolungato ed affilato come una lancia, che trapassava la mia testa da una parte all’altra lasciandomi sordo ed intontito, come se avessi perso l’equilibrio.
La gamba sinistra lanciava echi di dolore a cui risultavo quasi insensibile, trasformandola in un sacco pesante ed inutile che mi costringeva a gattonare, trascinandomela mollemente dietro senza alcuna utilità.
Avevo trovato un coltello, nella valigia.
Uno di quelli belli, dalla lama bianca ed affilata, con la sua custodia in pelle bruna.
Lo avevo stretto tra le mani tutta la notte. Rigirai la lama tra le dita mentre una triste idea mi passava per la testa.
“Tagliati la gamba”
Insensibile, livida, gonfia e piacevolmente calda. Sarebbe bastato una botta di coraggio per tagliare sotto al ginocchio e liberarmi da quel fastidioso impiccio. Poi mi sarei alzato ed avrei saltellato fino al primo ospedale dove mi avrebbero disinfettato e curato, nutrito e coccolato. Infine sarei tornato a casa, magari con una medaglia al valore, e lì sarei rimasto.
Portai un guanto alla bocca. La sordità non mi impediva certo di urlare, nonostante non potessi udire le mie parole.
Con cautela sfilai il pesante stivale che copriva gran parte della gamba, lasciando scivolare i pantaloni della divisa fuori da esso, prima di arricciarli fino alla coscia. Li avrei annodati stretti alla fine del moncherino, sarebbe stato uno spreco tagliarli.
E adesso?
Osservai la gamba gonfia e violacea. Giaceva molle a terra e dovetti aiutarmi con le mani per poterla piegare almeno un po’ e facilitare l’amputazione.
Strinsi forte il guanto tra i denti mentre lacrime di terrore scendevano dal mio volto. Sfilai il coltello con mano tremante e lo portai al ginocchio, tastandolo per cercare di capire dove potessi tagliare. Avevo una conoscenza basilare del corpo umano, non ero certo un chirurgo.
La lama era piacevolmente fresca sulla mia pelle livida e pulsante. Tremante, feci scivolare il filo a fior di pelle, chiazzando delicatamente la pelle cianotica con una striscia rossa.
I denti battevano rumorosamente, nonostante cercassi di soffocare invano il mio terrore sul guanto di stoffa mentre gli occhi, ancora una volta, si gonfiavano di lacrime ghiacciate che mi offuscavano la vista.
NO!
Gettai a terra il coltello ed io con esso, raggomitolandomi come un feto a mani strette, sputando la stoffa per poter singhiozzare pianti che non potevo udire ed immaginarmi la voce di mia madre che mi portava a sé, cullandomi e chiedendomi di non aver paura in quella terra dimenticata da dio, solo e cadente nell’immensità della pianura.

Assetato, sfinito, spaventato ma dannatamente voglioso di vivere, tentai di rimettermi in marcia.
Un passo alla volta, a quattro zampe come i cani. La nebbia si era diradata, lasciando trasparire un sole freddo ed invernale.
Non so per quanto tempo camminai. Per ore, forse per qualche minuto, immerso nel fogliame bruno e secco che improvvisamente non mi faceva più paura. Sembravano piccoli schiocchi di fucile, ecco perché le temevo. Sarebbe stato tutto più facile se mi fossi imbattuto in un nemico, adesso. Avrebbe potuto uccidermi silenziosamente ed io, nella mia impotente sordità, non avrei potuto udire lo sfiato della carabina e sarei morto così, come un animale.
Sotto la nebbia rada e l’erba ghiacciata, oltre un dolce pendio dove giaceva una mitraglietta tedesca abbandonata ed un teschio dalla bocca spalancata, scovai un piccolo villaggio di quattro case ed un recinto di polli che pigolavano picchiettando i becchi sul pastone brunastro.
La gioia di quella visione mi fece stringere il cuore e, senza pensarci troppo, gattonai svelto verso quel brulicare di vita. Goffo com’ero, però, caddi e rotolai sotto l’avvallamento, finendo quasi ai piedi delle isbe.
Alcune donne che stavano stendendo i panni si accorsero di me.
O almeno, così pensai, visto che sembrarono allarmarsi per i colori ed i simboli che portavo addosso.

Un vecchio con un fucile si avvicinò a grandi passi verso di me, sparando un colpo in aria come se stesse cercando di cacciare dei corvi.
Così intuii, osservando la canna dell’arma fumare. Non potendo udire non potevo spaventarmi, ma ciò non mi impediva di avere un forte batticuore e maledirmi per essere stato così sciocco da catapultarmi verso la popolazione ostile.
L’uomo di squadrò per un po’. Avevo un calzino in testa e tenevo lo stivale in mano, dato che non riuscivo più a rimetterlo a posto. Una gamba rotta piegata malamente culminante in piede nudo e sporco.
Insomma, ero l’incarnazione perfetta dell’imbecille finito lì per caso ed un po’, in effetti, era anche vero. Forse per questo l’uomo desistette dall’ammazzarmi a vista ed anzi, ebbe perfino pietà per me.
Con poca grazia mi prese per un braccio e mi strattonò in alto, come se stesse cercando di rimettermi in piedi.
Spaventato, non potevo fare altro che ricambiare il suo sguardo. Stava provando a dirmi qualcosa, guardavo le sue labbra muoversi, ma non riuscivo a capire cosa stesse farfugliando. Non sapevo come fargli capire che no, non potevo sentire.
In compenso, appena mollò la presa, barcollai un poco prima di perdere completamente l’equilibrio e cadere rovinosamente a terra, imprecando meccanicamente. L’uomo mi squadrò arcigno dall’altro, ridacchiando.
E...no, quello che successe dopo fu deliziosamente assurdo. Tecnicamente loro, nonostante fossero civili, rimanevano sempre nemici e non avrebbero dovuto esitare ad uccidermi.
Invece mi accolsero, con mio immenso stupore. Con il fucile piantato nella schiena, certo, ma affiancato da qualcuno che mi aiutasse a camminare fin dentro una casa, dove trovai ad accogliermi una sedia di paglia, una pagnotta calda e dell’acqua.
Sotto i loro sguardi indaganti divorai tutto, fino all’ultima briciola. Il vecchio col fucile doveva sapere un po’ di tedesco, perché provò a dirmi qualcosa e, non avendo risposta da parte mia, provò a strattonarmi per il colletto della camicia, facendomi andare un boccone di traverso.
Gli dissi che non potevo sentire….o almeno, nella mi testa pensai che fossero quelle, le parole. Cercai di farmi capire meglio toccandomi bocca ed orecchio e gesticolando in qualche modo con la terribile speranza che, se non avessero capito le mia parole, potessero capire almeno il gesto.
Non fui sicuro ma, quando l’uomo mollò la presa, immaginai di essere stato compreso.
Ancora una volta mi maledissi un poco. Dannato io a non aver mai ascoltato gli altri! Il Capitano sapeva qualche parola di russo che mi aveva ripetuto più volte, in modo tale che, in casi come questo, avrei potuto cavarmela. Anche Tom e tutti gli altri…
Invece eccomi, nella merda fino al collo. Pazienza, poteva andare peggio,
Aspetta.
Magari chiameranno quelli dell’armata rossa e verranno a prendermi per uccidermi brutalmente o che ne so, magari mi consegneranno ai partigiani o qualche altra balla o forse ancora sono filotedeschi…
Ci capisco sempre meno ma adesso, nel più totale silenzio, ho tutto il tempo necessario per riflettere.




Note finali:

*Letteralmente "picco selvaggio". Cima evocativa, si trova in Austria.
** Volker parla volutamente in modo sgrammaticato. Vivendo su un monte impervio volevo dare l'impressione di un individuo molto alla mano e poco colto.

   
 
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