Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Raptor Pardus    08/10/2017    1 recensioni
La chiatta rollava placidamente lungo il tranquillo corso del placido fiume bianco che da Khartoum risale verso sud.
Quel movimento continuo e perfettamente ritmato, per quanto potesse rassicurare l’esperto equipaggio nubiano a bordo del naviglio, non faceva che preoccupare il giovane russo imbarcatosi il giorno prima nella florida capitale sudanese e diretto verso il piccolo villaggio di Juba, dove la navigazione diveniva impossibile.
La delicatezza della missione che gli era stata affidata era indescrivibile, e questo non faceva che accrescere l’ansia che l’uomo provava.
Si grattò la guancia ispida, segnata da sei giorni in cui gli era stato impossibile radersi, e fissò le rive ricoperte di bassa vegetazione e campi coltivati.
"Compagno è preoccupato?" chiese il capitano di quel modesto vascello in un inglese più che discreto.
"Abbastanza, Abdul, abbastanza." disse l’uomo bianco, in un inglese perfetto, non fosse per il forte accento russo.
Il nero bofonchiò qualcosa, poi se ne andò fischiettando.
Chissà se si chiamava davvero Abdul, ma a lui non interessava, li chiamava tutti così.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Нил

 
La chiatta rollava placidamente lungo il tranquillo corso del calmo fiume bianco che da Khartoum risale verso sud.
Quel movimento continuo e perfettamente ritmato, per quanto potesse rassicurare l’esperto equipaggio nubiano a bordo del naviglio, non faceva che preoccupare il giovane russo imbarcatosi il giorno prima nella florida capitale sudanese e diretto verso il piccolo villaggio di Juba, dove la navigazione diveniva impossibile.
La delicatezza della missione che gli era stata affidata era indescrivibile, e questo non faceva che accrescere l’ansia che l’uomo provava.
Si grattò la guancia ispida, segnata da sei giorni in cui gli era stato impossibile radersi, e fissò le rive ricoperte di bassa vegetazione e campi coltivati.
<< Compagno è preoccupato? >> chiese il capitano di quel modesto vascello in un inglese più che discreto.
<< Abbastanza, Abdul, abbastanza. >> disse l’uomo bianco, in un inglese perfetto, non fosse per il forte accento russo.
Il nero bofonchiò qualcosa, poi se ne andò fischiettando.
Chissà se si chiamava davvero Abdul, ma a lui non interessava, li chiamava tutti così.
Loro invece avevano preso a chiamarlo compagno, quasi con fare canzonatorio, un soprannome sopportabile, doveva dire, considerando che le alternative già provate altrove erano “porco rosso” o “commie”.
Il capitano tornò poco dopo, con una scatola di gallette e due banane.
Il russo accettò il pasto di buon grado.                
<< Come pensate di superare la polizia di frontiera? >> chiese sbucciando una banana.
<< Soldi. Come sempre. Gente si fa corrompere, o perché povera o perché patteggia per ribelli. >> disse il marinaio staccando il primo morso al frutto tropicale.
<< E l’esercito? Non blocca la polizia? >>
<< Esercito è impegnato a stanare ribelli, non ha tempo per fiume. >>
Il nubiano aprì la scatola di gallette e ne offrì una al compagno.
<< Ma tu… perché lo fai? >> chiese il sovietico pescando una galletta dalla scatola.
Il capitano lo guardò crucciato, poi sorrise.
<< Soldi, ovvio. >>
<< E per soldi danneggi il tuo Paese? >> chiese stupito il sovietico.
<< Sono Egiziano. >> rispose il marinaio, riprendendosi la scatola di gallette.
<< Ah. >>
Il nero si alzò, svettando con i suoi quasi due metri sopra la figura del bianco, seduto sopra una cassa, chino sul cibo.
Il suo fisico era imponente, muscoloso, segnato da anni sotto il sole del deserto, il cranio perfettamente rasato, la mascella squadrata coperta da una fine barba nera.
<< Domani arriveremo in villaggio e faremo rifornimento, bevi tanto adesso, in prossimi dieci giorni dovremo razionare acqua. >>
 Si voltò, lasciando sulla cassa dove era seduto lui la scatola di gallette.
<< Ah, mio nome è Murad. >> disse prima di andarsene, lasciando solo il sovietico ai suoi pensieri.
 
La notte su un fiume che attraversa il deserto era stupenda.
Escludendo le poche luci sulla bassa chiatta rettangolare, nulla bloccava la vista delle stelle, che brillavano splendenti in un mare blu scuro che si stendeva su ogni lato senza impedimenti di ogni sorta.
Era struggente essere bloccato in quella piana sabbiosa, in cui le chiazze di ricca vegetazione non superavano il metro da terra.
Il russo fissava la volta stellata, steso per terra sul ponte di coperta della chiatta, i suoi occhi verdi lucidi per la commozione.
Un’ombra scura gli arrivò alle spalle, oscurandogli la visuale.
<< Non dormi? >> chiese Murad.
<< Potrei farti la stessa domanda. >>
<< Un capitano non dorme mai. >>
<< Oggi le stelle sono stupende, ieri invece era quasi impossibile vederle. >> disse il sovietico, cambiando discorso.
<< Troppo vicini alla città, troppe nuvole. >>
<< Già. >>
<< Mai visto un cielo così? >>
<< Sì, ma le stelle… sono diverse. Questo cielo mi è estraneo, così… selvaggio. >>
<< Sono solo stelle. >> replicò il nero.
<< Sai che il Sole è una stella, vero? >> chiese dopo poco il russo.
<< Ovvio. >> rispose il capitano, sedendosi accanto all’uomo steso e mettendosi a fissare il cielo con lui.
<< E sai che, sei noi siamo qui a girare intorno al Sole, probabilmente c’è qualcun altro, lì in mezzo, che fa lo stesso intorno a qualche altra stella? >>
<< Dubito, compagno. >>
Il russo si voltò e fissò il marinaio.
<< Dimmi Abdul, credi in Dio? >>
<< Sono musulmano, compagno. >>
<< Capisco. >>
Tra i due calò per un attimo il silenzio.
<< Però… vedi, io non sono credente, ma ho un’idea tutta mia di… qualsiasi cosa stia lassù. >>
<< E non è Allah, o come lo chiamate voi? >>
<< Beh, potrebbe essere. Però pensa, chi ti dice che siamo stati creati da un essere identico a noi? Chi ti dice che è unico? Chi ti dice che esistiamo, addirittura? Potremmo benissimo essere il frutto dell’immaginazione di qualcun altro. Ammettiamo che nell’universo esista una sola, unica entità, la cui esistenza è eterna, e se invece durasse solo un attimo? Eppure essa per combattere la sua solitudine ha creato, oppure si è solo immaginata tutto… >> Il russo alzò il braccio, indicando la volta stellata e l’orizzonte stesso. << …questo. Potremmo essere nient’altro che una storia da raccontare a qualcuno, potremmo essere soli all’universo, oppure essere solo una di tante realtà abitate da infiniti esseri, che coesistono tutti nello stesso momento, oppure sono ognuno solo una fiammella in un preciso momento del tempo. >>
<< E quindi? >>
<< Quanto poco sappiamo di noi stessi. Quanto poco valiamo nell’infinità dell’esistenza. Se esistiamo. >>
Murad si alzò.
<< Pensi troppo, meglio dormire. >>
Una sirena sovrastò lo scrosciare dell’acqua contro la chiglia, seguita da un abbagliante che investì il ponte e li accecò tutti.
Qualche frase in inglese stentato arrivò nella loro direzione, frasi a cui Murad urlò di rimando.
<< Polizia. Vai sottocoperta, ci penso io. >> gli disse quindi, facendo segno con la mano di sbrigarsi.
Il russo, rapido e silenzioso, si infilò nella cabina del timoniere, da cui una piccola scaletta di metallo conduceva nell’angusto vano sottocoperta dove l’intero equipaggio dormiva.
Attese trattenendo il respiro, fermo sulla scaletta, cercando di recepire qualsiasi rumore proveniente dal ponte di coperta.
Sentì lo scemare del borbottio del motore, che andava rallentando per permettere ai poliziotti di accostare alla barca col loro gommone, sentì qualche parola in arabo, poi l’ombra di Murad che veniva verso di lui.
Il capitano gli passò davanti e raggiunse la cabina di pilotaggio, uscendone subito dopo con alcuni fogli ed un piccolo astuccio di cuoio.
Tornò dagli agenti, che sfogliarono il plico aiutandosi con una torcia per leggerne rapidamente il contenuto.
Altre parole in arabo, più concitate, poi rumore di passi, venivano verso la cabina, pesanti.
Il russo scese le scale, facendo attenzione a non emettere alcun suono, e si infilò rapidamente su un’amaca appesa in mezzo alle altre, nascosta dal buio.
Qualcuno grugnì nel sonno quando la luce della torcia investì l’equipaggio addormentato, disturbando il sonno dei pochi marinai che non erano stati svegliati dalla sirena.
Alcuni alzarono la testa, fissando in silenzio i due poliziotti appena arrivati, mentre questi passavano tra di loro, diretti al vano della stiva.
Il capitano li guidava, dicendo poche parole, e sparì con loro dietro la pesante porta della stiva, accompagnato solo dal tintinnio di un mazzo di chiavi.
Dieci minuti dopo il trio uscì dalla stiva, annunciato dallo stesso tintinnio di prima, e sparì da dove era venuto, lasciando di nuovo l’equipaggio al buio.
Fortunatamente nessuno aveva notato il bianco steso sull’amaca con ancora tutti i vestiti addosso, ma egli non ebbe più il coraggio per tornare sul ponte, rischiando un’altra visita da parte della polizia.
 
La mattina dopo i dieci uomini dell’equipaggio si misero al lavoro come se nulla fosse successo, mentre Murad passò la mattinata in branda.
A pranzo mangiò di nuovo insieme all’unico ospite di quella traversata, offrendo nuovamente gallette e un po’ di frutta locale.
<< Hanno fatto storie? >> chiese il russo addentando una galletta.
<< No, hanno visto merce e sono andati via. Hanno detto di fare attenzione a ribelli. >>
<< Poliziotti molto furbi, mi sembra. >> commentò il russo, ridacchiando.
Murad lo guardò storto, ponendo termine alla sua risata.
La giornata passò tranquilla, sotto un sole che rendeva difficile restare all’aperto per più di mezz’ora.
Il russo, per la disperazione, si infilò persino, per proteggere la nuca, uno straccio umido sotto il berretto morbido che fino al giorno prima aveva tenuto nella piccola valigetta che teneva sottocoperta, suo unico bagaglio.
Durante una sosta sul ponte, poté anche osservare alcuni ibis bianchi e neri sostare all’ombra di uno sparuto gruppo di palme, così placidamente estranei all’inferno che li circondava.
Il giorno successivo furono fermati da altri due pattugliatori navali, ma in entrambe le visite Murad riuscì a concludere le ispezioni senza alcun problema.
Nel primo pomeriggio giunsero in zona di guerra, eppure non vi era alcuna differenza tra quanto vedevano ora e quanto avevano già visto fino a quel momento: il paesaggio variava di poco, lentamente, e non vi era quasi nessun segno di civiltà, solo la vegetazione che diveniva sempre più presente e lussureggiante.
Intorno al fiume, la flora era sempre più rigogliosa rispetto a quella dell’entroterra desolato e vuoto, ricoperto dalla steppa.
A sera, prima che il sole calasse dietro un basso rilievo su cui svettava un minuscolo villaggio abbandonato, udirono alcune lontane raffiche di mitra.
La notte passò tranquilla, ma all’alba furono svegliati dal sordo rumore di alcuni colpi di artiglieria, troppo distanti per poter capire da dove provenissero.
<< Hai paura? >> chiese Murad avvicinandosi al russo mentre questi fissava il corso del fiume appoggiato al parapetto bianco della chiatta.
<< Per cosa? >> domando innocentemente il bianco.
<< Per spari. Per guerra. >> disse Murad.
<< Oh. Non tanto in realtà, so cosa mi aspetta. >> rispose l’altro.
<< Non hai ancora detto perché sei qui, compagno. >>
Il russo fissò il capitano, inarcando un sopracciglio.
<< Viaggio di piacere, ovviamente. >> sbottò sorridendo sornione.
<< Giornalista? >>
<< Diciamo di sì. Mi hanno mandato qui per raccogliere informazioni sullo stato della guerra. >>
<< C’è poco da sapere, compagno. Guerra va male per tutti, tanta gente muore, tanta gente scappa. >> disse Murad appoggiandosi anche lui al parapetto.
<< Questo è vero, però il mio Paese ci tiene a sapere quante fazioni sono in lotta tra loro, chi le arma, e così via. Dettagli che poco interessano al povero contadino preso tra due fuochi. La politica è una brutta bestia. >>
<< E che interessi ha Russia in questa guerra? >> chiese Murad.
<< Ah, semplicemente sostiene il governo legittimo. Per ovvi motivi. >>
<< Soldi. >> mormorò Murad.
<< Soldi. >> ripeté il russo sorridendo.
Per un po’ rimasero entrambi in silenzio, fissando il fiume.
<< Abdul… da quanto fai questo lavoro? >> chiese dopo un po’ il sovietico.
<< Ho passato vent’anni su questo fiume, compagno, da molto prima di guerra civile. >>
<< Sei più grande di me di quanto, cinque anni? >>
<< Non so dirti, compagno. >>
<< Quando sei nato la Germania era ancora in guerra? >>
<< Si. >> rispose Murad visibilmente confuso.
<< Cavolo, sei vecchio. >> disse il russo ridacchiando.
<< Tu invece? >>
<< Oh, io sono nato a Stalingrado, prima che divenisse Volgograd. Non un granché come posto, considerando che era ancora un mezzo cumulo di rovine quando sono nato. >>
Era palese che Murad non lo seguisse più, visibilmente confuso come era.
<< Lasciamo perdere. >> disse il russo quando vide il volto del capitano che lo fissava stranito.
<< Non hai ancora detto come ti chiami. >> disse ad un certo punto Murad, continuando a fissare torvo il russo.
<< Hai una sigaretta? >> fu la risposta del sovietico, in un maldestro tentativo di sviare il discorso.
<< Non abbiamo soldi per sigarette. >> fu la risposta secca del nero.
<< Lasciamo perdere. Vado a riposarmi due minuti, se serve qualcosa, sai dove trovarmi. >> disse il bianco, avviandosi verso la cabina di pilotaggio.
Murad lo fissò attraversare il ponte e sparire sottocoperta, poi bofonchiò qualche parola in arabo e tornò al suo lavoro.
 
Le giornate si facevano sempre più scandite dai colpi di mitragliatrice e dai controlli della polizia, finché non giunsero nella zona di Bor, in un tratto del fiume circondato da laghi e zone paludose, non molto distanti dalla loro meta.
I segni della guerra era ben visibili ora: sterpaglie bruciate, pozze di acqua marrone, alberi tranciati dai proiettili, ogni tanto anche qualche carcassa d’auto abbandonata chissà quanti anni prima e ormai ricoperta interamente di ruggine ed erba secca.
Attraccarono nel piccolo porto del piccolo villaggio, e scaricarono parte delle casse che trasportavano, aiutati dai popolani che erano ancora in grado di sollevarsi da terra con le proprie gambe.
Mancavano ancora due giorni di viaggio, ma il sovietico fu tentato di terminare in quel posto il suo girovagare lungo il fiume.
Murad lo convinse a tornare a bordo, dicendogli che se voleva vedere più da vicino i guerriglieri doveva giungere a Juba.
Ripartirono verso sera, dopo aver fatto rifornimento per pura fortuna.
Il penultimo giorno passò senza nessuna sorpresa, in silenzio, nel torpore del caldo africano.
In prossimità della riva fangosa, il russo poté scorgere le piccole narici e le scaglie dorsali di diversi coccodrilli, intenti a sonnecchiare pigramente nelle acque basse del fiume.
Anche se in quello stato di dormiveglia, quei bestioni di sei metri incutevano comunque un certo terrore.
L’equipaggio era infatti inquieto, ma non era solo colpa degli alligatori: verso Nord si erano sollevate immense colonne di denso fumo nero, che si alzavano in cielo con lentezza e faticavano a disperdersi.
<< Ecco, vedi perché mi hanno mandato qui? >> disse il sovietico a Murad non appena questi lasciò il timone ad un suo sottoposto e si avvicinò al parapetto per fissare i pigri animali.
<< Cosa sono? >> chiese il capitano, fissando preoccupato le nubi nere accalcate nel cielo terso.
<< Milioni di rubli in fiamme, ecco cosa. Deve aver preso fuoco un pozzo petrolifero. >>
<< Non è raro, ribelli e soldati combattono molto per pozzi, ma fumo così… mai visto. >>
<< Non è una questione etnica che alimenta la guerra, Abdul, è la sete di potere, e quei pozzi sono la fonte. Prendi i pozzi e avrai il diritto di parlare con le grandi nazioni del mondo, e sono loro che fanno fluire i soldi. >> continuò il sovietico, irritato da quanto vedeva.
<< Grandi nazioni sono disposte a tutto questo, per petrolio? >>
<< Oh, sono disposte a fare di molto peggio per molte altre cose, non sorprenderti. >> concluse il sovietico.
Si girò, tornando a fissare la fauna locale.
<< Non ho ancora visto un leone, ora che ci penso. >> disse dopo un po’.
<< Molti animali sono fuggiti, intere mandrie in fuga lontano da guerra. Avvoltoi hanno banchettato per settimane. >>
<< Non solo gli uomini fuggono da questo inferno. >> concluse il russo amaramente.
Non molto dopo giunse la sera, la più fredda di tutto il viaggio.
L’ultima notte il russo la passò di nuovo sul ponte, a fissare le stelle, seduto per terra.
Murad attendeva seduto a prua, fissando lo specchio dell’acqua illuminato dalle stelle.
Fu verso le due di notte che il sovietico si alzò e gli si avvicinò silenzioso.
<< Come mai sveglio? >> gli chiese sussurrando, sperando sobbalzasse.
<< Goditi ultima notte in nave, compagno. >> fu la risposta secca di Murad, che nemmeno si voltò a fissarlo.
La luce della luna riflessa sull’acqua illuminò qualcosa appeso alla cinta del capitano, attirando l’attenzione del sovietico.
<< Pensi ancora a quello che ci siamo detti la prima notte? >> chiese l’uomo, fissando con cupidigia il mazzo di chiavi posto davanti a lui.
<< Non so cosa pensare. Credo in Allah però, e questo mi basta. >> rispose Murad fissando l’ombra della fangosa città in cui sarebbero arrivati la mattina seguente, lontana su un ansa del fiume.
Il sovietico tese silenzioso la mano, avvicinandosi alle chiavi.
<< Non farlo, compagno. >> Murad si voltò, fissando negli occhi, con aria di sfida, l’uomo colto in fallo. << Sappiamo entrambi che non c’è bisogno. >>
Il russo rimase in silenzio, mentre il suo volto passava dall’impaurito all’arrabbiato.
<< Non mi hai ancora detto il tuo nome, compagno. >>
Il sovietico si ricompose e rilassò le spalle.
<< Prometto che, quando saremo là, domani, te lo dirò. >>
Rimasero in silenzio, cullati solo dal flebile rumore della barca che lentamente avanzava fendendo l’acqua davanti a sé.
<< Cosa trasporti in quelle casse, giù nella stiva? >> chiese dopo un po’ il russo.
<< Razioni alimentari e medicine. >> rispose Murad svogliato.
<< Solo? Perché allora la stiva è chiusa? >>
<< È inutile nasconderlo, compagno. >> rispose il nero mantenendo lo sguardo fisso sull’acqua.
<< Lo prendo come un sì, anche se avresti potuto dire che non ti fidi del tuo equipaggio. >> disse mesto il bianco.
 << Non fermarmi, compagno, sono nel giusto. E ho fiducia in mio equipaggio. >>
<< Allora spiegami perché lo fai. Non è solo una questione di soldi, vero? >>
Murad aprì la bocca, cercando le parole giuste, poi la richiuse.
<< Io non sono egiziano, compagno. Non mi sento egiziano. >> disse dopo un po’.
Il sovietico rimase in silenzio ad ascoltarlo.
<< Io sono Nubiano. E sento che, se questa ribellione avrà successo, allora anche noi Nubiani avremo una speranza, e un giorno saremo una nazione indipendente, da Sudan e da Egitto. >>
Il sovietico fissò l’orizzonte.
<< È una speranza vana, temo. >> disse.
<< Pur sempre una speranza. >> replicò Murad malinconicamente.
Il sovietico si alzò e si diresse verso sottocoperta.
<< Il tuo nome! >> gli urlò Murad mentre se ne andava.
L’urlo morì nel silenzio, senza risposta.
 
Il giorno dopo entrarono a Juba, in una giornata grigia e triste.
L’equipaggio scaricò ogni singola cassa fosse a bordo: cibo, medicinali, beni di prima necessità e alcuni barili di carburante.
Quando scese la sera, la nave era ancora al porto, ma il sovietico era sparito.
Murad fissò la barca, triste.
Sapeva che l’ora era giunta.
Il villaggio non aveva illuminazione, solo la luce della luna a rischiarare le strade.
Da un vicolo buio, messo in ombra dalle basse capanne ai suoi lati, uscirono alcuni cenciosi bambini soldato, mezzi nudi, terribilmente magri, armati di fucili troppo grandi per loro.
Un uomo di mezza età uscì quindi dall’ombra.
Indossava un’uniforme militare, lercia e strappata in più punti, e un vecchio basco rosso, troppo largo per la sua testa.
<< Salve, la merce? >> disse a Murad, in arabo.
Murad si voltò verso la nave e fece un fischio.
I dieci uomini del suo equipaggio apparvero sul ponte, trasportando alcune casse tenute fino a quel momento nascoste.
<< È poca roba, ma è tutto quello che sono riuscito a trovare. >> disse il capitano, sempre in arabo, mentre le casse venivano depositate davanti a lui.
Quattro soldati uscirono dall’ombra e si unirono all’equipaggio per scaricare le casse.
Un quinto soldato portò un piede di porco al superiore, che aprì subito una cassa.
Dentro, in mezzo alla paglia, c’erano Ak-47.
<< Hai avuto problemi? >>
<< No, nessuno ha notato il doppio fondo nella stiva. >>
<< Bene. >> disse l’ufficiale fissando le armi con cupidigia << Dategli i soldi. >>
Il soldato che aveva portato il piede di porco consegnò una valigetta malridotta a Murad, che la aprì per verificarne il contenuto.
<< Bene, allora. Tra due mesi ci incontreremo di nuovo, spero. >> disse, richiudendo la valigetta.
<< Sì, sì, con un carico del genere… riporta la valigetta. >> rispose l’ufficiale, senza neanche prestargli troppa attenzione.
I soldati abbandonarono lo spiazzo e vi tornarono con un camion scoperto, su cui caricarono tutte le casse, quindi fecero salire i bambini sopra le casse e infine salirono loro.
L’ufficiale si sedette accanto al guidatore e si sporse dal finestrino.
<< Alla prossima. >> disse sorridendo e accennando un saluto.
Il camion partì borbottando, lasciando Murad da solo con l’oscurità.
Il suo equipaggio era già tornato sulla barca, lasciandolo lì, in silenzio, a fissare la strada da cui il camion era sparito.
Lo scatto metallico del cane di una pistola arrivò dalle sue spalle.
<< Così finisce il nostro viaggio. >> mormorò Murad, senza nemmeno voltarsi.
<< Purtroppo sì. >> rispose il sovietico.
<< Ora seguirai i ribelli? >>
<< Fino a quando non troverò chi li addestra. >>
<< Perché lo fai? >>
<< Secondo te? Lavoro per il KGB. Perché non mi hai fermato? Bastava gettarmi nel fiume, lasciarmi divorare dalle belve. >> rispose il russo, rimarcando il suo accento sull’ultima parola.
<< Uccido te e mandano qualcun altro, e polizia inizia a far domande. Volevo crederti un giornalista, ho sbagliato. >>
<< Capita. Non sempre si vince. >>
<< Il tuo nome, quindi? >>
Il bianco girò intorno al capitano, una Makarov PB 6P9 silenziata serrata in pugno.
<< Yuliy Solomonovich Kozlov. >> disse il sovietico, sorridendo amaramente.
Murad non disse niente, ma rimase in silenzio a fissarlo dritto negli occhi.
<< Dasvidania, tovarish. >> disse la spia con una nota di malinconia nella voce.
Poi sparò un colpo dritto in fronte all’uomo che lo aveva portato fin lì.
Murad cadde all’indietro, senza emettere un suono, sollevando una nube di polvere al suo impatto col suolo.
Yuliy rimase per qualche secondo a fissare il cadavere, poi raggiunse un angolo buio dietro un muro, ne estrasse la sua ventiquattrore, la aprì, svitò il silenziatore dalla pistola, estrasse il caricatore, ripose tutto negli appositi vani, chiuse la valigetta, prese il grosso zaino contenente tutto il necessario per proseguire il viaggio e si mise a camminare sulla buia strada che aveva inghiottito i ribelli, sparendo come un fantasma nella notte, lasciando il villaggio ancora addormentato, ignaro del sangue appena versato.
E nessuno seppe più nulla di lui.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Raptor Pardus