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Autore: bittersweet Mel    09/10/2017    2 recensioni
The World è una grande città spezzata a metà, da una parte le ville e il lusso, dall'altra le palazzine malfamate e la povertà.
Roxas vive nella sua splendida casa, il giardino perfetto e una famiglia all'apparenza perfetta; Axel convive con due amici e fatica a pagare l'affitto, ma continua a coltivare il sogno di diventare un attore.
Il giorno in cui si incontreranno tutte le problematiche della grande città si fonderanno e inizieranno a farsi pian piano sempre più pressanti.
[ Axel/Roxas ]
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Demyx, Roxas, Ventus
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco, Altro contesto
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III
 



 
Axel si passò le dita tra i capelli per la quinta  volta di fila, cercando di sistemarsi la matassa rossa che portava in testa.
Non importava quanti minuti avesse passato davanti allo specchio quella mattina – con Demyx e Zexion che si lamentavano fuori dalla porta-, i suoi capelli non ne volevano sapere di assumere una forma decente.
Alla fine era uscito dal bagno con un diavolo per capello, letteralmente, e si era lamentato per una decina di minuti con Demyx, che prontamente era corso sopra la tavoletta del bagno.
Mentre l’altro sospirava e cercava di fare pipì, Axel era rimasto accanto a lui, seduto sopra il bidet, spiegandogli come mai quel giorno ci tenesse più del solito al proprio aspetto.

«  Lo so, lo sappiamo!», aveva esclamato il biondo, seguito da un’esclamazione disperata di Zexion, appoggiato allo stipite della porta.
«  Oggi devi uscire con l’uomo dei tuoi sogni. »
Eppure i suoi capelli erano rimasti crespi e informi, portandolo ad uscire di casa con l’espressione atterrita come se gli fosse morto il cane.
Era arrivato in anticipo di una buona mezzora davanti al bar che lui e Roxas avevano scelto due giorni prima – il Jolie, nell’east side  – e aveva passato ogni minuto a guardarsi riflesso nella sporca vetrina del bar.
Alla fine aveva optato per una coda bassa, cercando di legare ogni ciocca ribelle con meticolosità.
Nonostante i capelli, però, Axel si sentiva particolarmente fiducioso della giornata che doveva arrivare.
Aveva piagnucolato con i suoi coinquilini, cercando di fargli capire quanto fosse un’uscita importante e che, quindi, doveva tenersi qualche soldo da parte, e alla fine era riuscito ad intascarsi ben 10 dollari, con sua enorme soddisfazione.
Certo, si sarebbe limitato a mangiare un po’ di pane in bianco per qualche giorno, ma almeno avrebbe fatto la figura del galantuomo e avrebbe offerto a Roxas una colazione decente.
Solo nel ripensare al nome di quel ragazzo, e al fatto che di lì a poco l’avrebbe rivisto, sentiva un intero zoo nello stomaco, altroché farfalle!

«  Axel.  »
Non appena sentì la voce di Roxas, il ragazzo per poco non saltò sul posto, vedendosi strappato dai suoi pensieri.
Si voltò velocemente, incrociando il volto del biondo per la prima volta dopo il week end scorso.
Quello che vide lo convinse ancora di più che quel ragazzo era meraviglioso, perfino sotto il caldo afoso della città e il leggero sudore che gli imperlava la fronte.
Il ragazzo sorrise apertamente e sentì montare dentro di sé una piccola nota di soddisfazione, nel notare che anche il biondo si era presentato con qualche minuto di anticipo.
Axel gli si avvicinò prontamente, schiarendosi la voce.

«  Ce l’hai fatta a trovare questo posto, alla fine! »
Roxas accennò ad un sorriso leggermente imbarazzato, grattandosi il retro del collo e appoggiando lo skate-board a terra.
Effettivamente si era perso due o tre volte, lungo quelle vie mai percorse, ma alla fine era riuscito ad arrivare in orario, anzi, addirittura prima del previsto!

«   Non ero mai stato da queste parti », ammise alla fine, passandosi una mano sopra la maglia beige, tirandosela verso il basso, leggermente a disagio nel trovarsi di fronte ad un ragazzo che ancora non conosceva.
Axel schioccò le labbra e si avvicinò di un solo passo, lo sguardo leggermente esterrefatto.

«  Non puoi dire di abitare a The World se non sei mai stato nei bassifondi, ragazzo. »
Roxas accennò ad una risata, tre secondi netti, e tornò a lisciarsi la maglietta chiara. Nonostante avesse deciso di indossare i vestiti più leggeri che avesse nell’armadio, così come l'altro ragazzo, sotto al sole estivo si moriva di caldo.
Axel sentiva lo stesso, un po’ per il sole, un po’ per l’agitazione; si sentiva ribollire il sangue nelle vene.
Alla fine il fulvo fece la prima mossa, indicando con un cenno del capo il piccolo e lugubre bar.

«  Allora, che ne dici di entrare? Ti mostro come ci comportiamo noi del ghetto », scherzò, iniziando ad incamminarsi verso l’insegna rossa, seguito dal biondo.
Dentro al locale la temperatura scendeva già di qualche grado grazie ai due ventilatori ronzavano costantemente da destra a sinistra.
Le vetrine oscurate dal vetro spesso e colorato- come un fondo di bottiglia-  rendevano la stanza più piccola di quel che era, ma Roxas si ritrovò incantato dalle luci basse e dall’odore di sigarette e di caffè amaro.
Il biondo si guardò intorno per qualche secondo, incuriosito da un uomo seduto al bancone, il capo chino e la maglia sgualcita, un bicchiere di scotch già di prima mattina.
Un tavolo accanto al biliardo era interamente occupato da cinque ragazzi, sulla ventina, che ridevano e si scambiavano battute rumorosamente, applaudendo di tanto in tanto e lasciandosi andare a risate sguaiate.
La cameriera, una donna dai corti capelli scuri a caschetto, se ne stava dietro al bancone a pulire un paio di bicchieri con lo strofinaccio.
Roxas perse così la cognizione del tempo e dello spazio, rimanendo imbambolato al centro del bar a fissare ogni movimento, ogni ronzio delle mosche, il frusciare dei ventilatori, i colpi di tosse di un vecchio seduto da solo al suo tavolino nell’angolo.
Axel, decisamente a proprio agio, salutò il barista con un cenno del capo e poi si voltò verso Roxas.
Sorrise nel vedere la sua espressione rapita e quasi si sentì in colpa a strapparlo con forza dai suoi pensieri.

«  Ti va bene quel tavolo? Solitamente mi metto lì. »
Roxas annuì, raggiungendo il tavolino quadrato a ridosso del muro, sedendosi sopra la sedia e lasciando ad Axel il divanetto dall’imbottitura rossa.
Abbandonò lo skate-board ai propri piedi e sedette compostamente, osservando come Axel appoggiasse i gomiti al tavolo e sorridesse leggermente, felice.
Arrivò la cameriera, che dedicò ad entrambi uno sguardo annoiato, e chiese cosa volessero.

« Allora, cosa vi porto?»
Roxas corrugò appena la fronte e si voltò verso la donna,  optando per un caffè americano e una brioche alla marmellata, Axel ordinò lo stesso, ma con una ciambella al cioccolato.
La donna si allontanò, ficcandosi una forcina tra i capelli, e sparì dietro al bancone.
La macchina del caffè rombò rumorosamente e Roxas tornò a guardare Axel, cercando di allontanare quell’agitazione che  l’aveva lasciato in uno stato di dormiveglia per metà della notte.

«  E’ un bel posto, mi piace. Mi ispira un sacco. »
« Vero? I posti più belli sono quelli più nascosti. Prendi questa vecchia bettola! Non c’è un solo tavolo uguale all’altro, puzza come se ci venissero a dormire dei barboni, ma ti giuro che hanno i dolci più buoni che abbia mai mangiato, e non si lamentano mai se rimani qui per ore intere senza comprare nulla. »
 « Vieni qui spesso, allora? », domandò Roxas, sporgendosi leggermente in avanti, appoggiando a propria volta il gomito sinistro sopra al tavolino di legno scuro.
Axel annuì, guardandosi intorno con un certo affetto.

« Vengo qui praticamente ogni giorno da quando mi sono trasferito. E’ una specie di seconda casa. »
Le ordinazioni arrivarono prontamente, prima che Roxas potesse anche solo aprire bocca, ed entrambi si ritrovarono davanti due grosse tazze di caffè e un piattino con sopra il dolce.
Il biondo non perse tempo e staccò l’estremità della brioche, assaggiandola.

«  Oh, avevi davvero ragione, è proprio buona! »
«  Che ti avevo detto? », Axel ne sembrava fiero come se l’avesse cucinata lui.
Con un sorriso soddisfatto il fulvo addentò la ciambella, sentendo il sapore dolce del cioccolato contro al palato. Ogni giorno, di mattina, si svegliava con quel dolce profumo sotto casa e, puntualmente, gli veniva da strapparsi i capelli nell’osservare il portafoglio vuoto.
Spesso e volentieri, però, quando finiva di lavorare, raggiungeva di corsa il Jolie e il barista gli faceva scegliere una brioche tra quelle che non aveva venduto.
Era un brav’uomo, Xaldin,  anche se l’espressione scorbutica che aveva sul volto spesso allontanava le persone.

«  Pensa che tutti i giorni muoio di fame ogni volta che passo qui di fronte. »
Roxas versò la terza bustina di zucchero e sollevò il capo, osservando l’altro ragazzo con un leggero interesse. Non voleva farsi troppo gli affari dell’altro, ma non riuscì a trattenere la domanda: «  abiti qui vicino? »
L’altro schioccò le labbra ed esclamò un “ bingo!”, prima di riprendere a parlare.
«  Proprio qui di fronte. Al terzo piano di quell’orribile condominio. Quello pieno di graffiti. »
Roxas se lo ricordava.
L’aveva osservato per qualche secondo prima di notare il bar proprio lì di fronte. Si era perso ad osservare le scritte bombate dai colori sgargianti, cercando di capire che cosa potessero significare.

«  Sembra bello poter vivere lontano da casa. »
L’altro ragazzo annuì, prendendo un lungo sorso del suo caffè americano, prima di leccarsi le labbra e riprendere a parlare.
«  E’ davvero bellissimo, ma i soldi sono sempre un problema. Sai, a casa non dovevo pagare nulla, qui invece devo sborsare ogni mese un sacco di soldi per ogni cosa », poi addentò la ciambella, masticando per qualche secondo, «  fortunatamente non sono da solo, sto con altri due ragazzi. Uno l’hai conosciuto, ricordi? Quel ragazzo ubriaco, hai presente? »
Roxas annuì, mentre nella sua mente andò a delinearsi un’immagine un po’ sfocata di un ragazzo biondo, dinoccolato, dalla faccia rossa.
«  Non credo riuscirò a dimenticarmi tanto facilmente di lui, dopo averlo visto vomitare in un lavandino. »
Axel rise, scuotendo leggermente il capo come una mamma apprensiva, divertita e al tempo stesso sconcertata dal comportamento di suo figlio.
Bevve ancora, imitato da Roxas, e per qualche altro secondo tornò il silenzio.
Stranamente il biondo non si sentiva affatto oppresso dalle labbra chiuse dell’altro o da quei silenzi che di tanto in tanto intercorrevano tra di loro; sembrava tutto naturale, come due amici normali, e per una volta ammise che forse Tatty aveva ragione.
Non riuscì a nascondere il leggero sorriso dalle labbra, tanto che Axel si riscoprì a ricambiarlo automaticamente, senza nemmeno saperne il motivo.

«  Dimmi un po’ di te, ora, Roxas! Vivi ancora a casa tua, immagino. »
L’altro sollevò il capo dalla tazza di caffè oramai vuota e giocherellò leggermente con metà della brioche, lasciandosi andare ad un leggero “ uhm” prima di poter rispondere.
«  Vivo con mia mamma e mio fratello, siamo in main street, nel Villaggio del Sole, dove ci sono le villette a schiera, quelle con i mattoni rossicci. »
Axel fischiò leggermente.
Aveva imparato a conoscere The World alla perfezione, nonostante ci abitasse da meno di due anni, e quelle belle villette le conosceva bene.
Ci era passato di fronte di tanto in tanto, in sella alla sua bicicletta, e ogni volta non aveva potuto fare a meno di immaginarsi chi ci abitasse e che bella vita potesse avere.
Dopotutto quel “ Villaggio del Sole” non era posto per gente come lui, squattrinata e con un doppio lavoro; era un posto da ricchi, con i giardini curati dall’annaffiatoio elettrico e i roseti curati vicino alle porte.
Eppure Roxas non gli dava affatto la sensazione del classico stronzetto dal cucchiaio d’argento – come spesso Demyx si ritrovava ad apostrofare i compagni di Università più benestanti-, tutt’altro.
Sembrava genuino e fresco, come una spiga di grano, un paragone povero, ma al tempo stesso perfetto per uno come lui.
Alla fine tornò a parlare, notando come i propri pensieri l’avessero distratto dalla conversazione.

«  Certo che lo conosco, sono davvero delle belle case.  »
Roxas scrollò le spalle, indifferente. Casa sua non gli faceva né caldo né freddo, non lo entusiasmava così come non lo disgustava.
Lo trovava un posto asettico, un luogo irrilevante dove potersi riposare, cambiare i vestiti e mangiare, ma non aveva nulla a che fare con la sensazione di calore che gli donava la casa di sua nonna.
La sua vita, alla fine, si svolgeva con una monotonia disarmate di azioni sempre uguali, di luoghi bianchi e neri. Era una vita fatta delle stesse case, delle stesse persone, degli stessi sentimenti.
Non conosceva il mondo, non sapeva percorrere nemmeno la metà della città senza sentirsi come un pesce fuor d’acqua.
Axel! Axel invece era proprio il contrario.
Roxas lo vedeva come uno spirito libero, capace di parlare di argomenti disparati, in grado di alzarsi dalla sedia e andarsene via, verso luoghi sconosciuti, come un pirata dal sorriso sornione e le cicatrici di vecchie battaglie addosso, come un pirata!
Istantaneamente il biondo si alzò dalla sedia, afferrando la brioche in mano e guardando Axel con una decisione che sentiva ribollirgli in corpo.

«  Fammi vedere l’east side. »
«  Come? », domandò Axel, un sopracciglio arcuato e l’espressione leggermente stupita. Il fulvo era ancora seduto comodamente sulla poltroncina, la ciambella stretta nella mano destra e il caffè  a metà poggiato davanti. Il giovane sbatté le palpebre un paio di volte e poi schioccò le labbra, sollevandosi a propria volta, scrollando le spalle
«  Vuoi davvero visitare questo buco? »
Roxas annuì, le labbra serrate e la convinzione di un soldato pronto a partire per il fronte.
Fin da piccolo sua madre si era raccomandata con i figli di non andare mai nella parte est della città, di tenersi lontano da quei sobborghi poveri e pieni di gentaccia.
Roxas riusciva a sentire la voce di Naminé, solitamente delicata, alterarsi ad ogni perché di Ventus o di Roxas.

«  Non potete andare lì, se lo farete vi rapiranno e lo sapete cosa faranno, poi? Quegli sporchi vi drogheranno e poi vi ruberanno gli organi, e sapete cosa? Quando piangerete io non sarò lì, perché oramai sarà troppo tardi. »
Nonostante la visione pessimistica della donna, ora Roxas sentiva la voglia di esplorare la città ribollirgli in corpo.
Non era mai stato pieno di spirito d'avventura, ma quella mattina, con Axel di fronte, aveva voglia di camminare e guardarsi in giro, di scoprire quanto c'era di vero nelle parole di sua madre.

«  Fammi vedere dove vivi di solito, dove vai, cosa fai. La prossima volta farò lo stesso. »
Il sorriso sopra le labbra di Axel si aprì ancora di più.
La prossima volta.
Sbatté le mani l’una contro l’altra, pulendosele leggermente – la ciambella era sparita con due morsi, un lieve residuo di cioccolato sull’angolo destro delle sue labbra – prima di porgerla a Roxas, come se volesse stringere un patto.
Il biondo l’afferrò e la scosse una singola volta.
Affare fatto.
Entrambi rilasciarono le mani e sorrisero leggermente, senza nemmeno sapere perché sentissero il cuore così gonfio da sembrare sul punto di esplodere.


 
***
 


Le luci di casa erano spente.
Quando Roxas rincasò, camminando lentamente con lo skate sotto braccio, si fermò davanti al cancelletto di ferro battuto, osservando minuziosamente la faccia tetra di casa sua.
Gli irrigatori giacevano, silenziosi e immobili, ai lati del giardino e nemmeno un filo di vento smuoveva le foglie delle querce secche.
Il cielo all’imbrunire lanciava gli ultimi accenni di luce sopra le abitazioni, allungando le ombre fino a distorcerle.
Roxas deglutì, appoggiando la mano sopra al piccolo cancello d’ingresso, e lo spinse con un cigolio.
Se lo richiuse alle spalle e camminò sopra al lastricato di mattoni, raggiungendo la porta di casa.
Ancora una volta si sporse da una parte all’altra, cercando di scorgere anche una sola luce in tutte le alte finestre della villetta.
Niente, era come se a casa sua stessero già tutti dormendo.
Erano solamente le otto di sera, eppure sembrava non esserci anima viva.
Automaticamente il biondo si voltò verso la strada, sperando quasi di scorgere il profilo di Axel in lontananza, ma l’altro ragazzo era già sparito tra la luce morente del sole.
Sospirò appena, allora, e tirò fuori le chiavi di casa.
Una volta entrato lo attese lo stesso silenzio che regnava all’esterno, solo un leggero rumore in lontananza, talmente lieve da essere quasi inudibile.
Roxas abbandonò a terra la borsa e lo skate- board, e seguì lentamente quel singolo suono.
Percorse il corridoio e, svoltando a destra, raggiunse la sala totalmente al buio, tranne che per la piccola lampada al neon sopra al tavolino.
Seduto scompostamente sopra al divano c’era Ventus, una tazza di cereali davanti al volto e il cucchiaio che affondava svogliatamente di tanto in tanto.
Il fratello, all’arrivo di Roxas, sollevò la testa e lo salutò allegramente con un cenno del capo.

«  Wow », disse solamente Ventus, annuendo con una certa ammirazione. « Non posso crederci. »
Roxas ruotò gli occhi al cielo – immaginandosi perfettamente per cosa fosse rivolta quell’esclamazione- e gli si avvicinò.
Si sedette sopra al bracciale della poltrona bianca e si guardò attorno.

«  La mamma non c’è? », preferì domandare, piuttosto che dover dire dove fosse stato fino a quel momento.
In un certo senso riusciva quasi a capire lo stupore di suo fratello nel vederlo ritornare a casa a quell’ora, quando solitamente Roxas nemmeno usciva da camera sua se non era per andare a scuola oppure da Tatty.
Ventus, alla domanda del fratello, scrollò le spalle e si portò alla bocca una cucchiaiata di cereali e latte, masticando rumorosamente.

«  E’ su che lavora su qualche nuovo quadro, non ho ben capito, ma ha detto di non fare rumore, così sono qui. »
Così sono qui.
In totale silenzio, con le luci spente, senza nemmeno uno straccio di rumore a tenergli compagnia. Roxas si sistemò un po’ meglio sopra al bracciolo e si tirò al petto il ginocchio sinistro, stringendoselo tra le braccia.
Schioccò le labbra, gettando uno sguardo alla tazza di cereali e poi a Ventus.

«  Non c’è altro da mangiare? », chiese poco dopo, ascoltando il proprio stomaco contrarsi all’idea che l’ora di cena fosse già passata da un po’ e che ancora non avesse messo nulla sotto i denti.
Lui e Axel non avevano cenato insieme, preferendo continuare a camminare e a parlare, piuttosto che rimanere fermi in un posto soltanto.
Ora le lunghe ore di camminate sotto al sole si stavano facendo sentire. Roxas sentiva il corpo bollente, il naso spellato, e lo stomaco completamente vuoto.
Dallo sguardo un po’ afflitto di Ventus, però, immaginò che non ci fosse nulla da mangiare.

«  Mamma è nel suo studio da sta mattina, non è ancora uscita, quindi non c’è nulla di pronto. »
Lo stomaco di Roxas si lamentò, ora più rumorosamente, e il biondo dovette mettersi una mano sopra la pancia per impedirgli di emettere un suono ancora più forte.
Serrò le labbra e sospirò, alzandosi dalla poltrona e passandosi una mano sopra la fronte leggermente sudata.

«  Vado a vedere », disse solamente, prendendo a camminare verso le scale a chiocciola e ignorando l’esclamazione di Ventus che lo invitava a rimanere lì con lui.
A fare cosa, poi?
Mentre risaliva le scale, gradino per gradino, si domandava cosa ci trovasse di bello Ventus nel passare il tempo sempre al cellulare.
Lì, a mangiare una misera ciotola di cereali dietetici, con la televisione spenta, senza un solo libro davanti, nulla che non fosse il cellulare appoggiato tra le gambe.
Il biondo raggiunse la porta dello studio di Naminé poco dopo, osservando con un certo astio il cartello: “ bussare prima di entrare” come se fosse un ufficio vero e proprio, e non la semplice porta di una camera.
Roxas non bussò affatto, allora, tirò semplicemente la maniglia ed entrò nella stanza più caotica della casa.
Le finestre sbarrate da fogli di giornale – tutti rigorosamente con degli articoli riguardante le mostre di sua madre- e una cupa luce che illuminava a malapena la scrivania dov’era china la donna.
Ogni mobile era stipato di ogni sorta d’oggetto, che fosse utile o meno. Un’intera mensola era dedicata a delle sveglie dalle forme più disparate, così come quella lì affianco sosteneva una quantità di pietre di forme e dimensioni diverse.
Fogli e  cartacce in giro, pennelli a terra e sopra al davanzale.
Le macchie di pittura riempivano il pavimento, sporcando fogli immacolati e rendendo più vivi disegni lasciati a metà.
Roxas calpestò qualche vecchio lavoro e si fece strada fino alla scrivania, dove Naminé rimaneva china, senza nemmeno alzare la testa.

«  Mamma? », la chiamò, incrociando le braccia al petto. «  Mamma?», ritentò poco dopo, quando non ricevette alcuna risposta.
«  Devi bussare tesoro, te l’ho detto », rispose alla fine Naminé, sollevando la testa dal foglio e lamentandosi appena per un leggero dolorino al collo.
La donna si passò le dita dietro la testa e ruotò il capo da una parte all’altra, prima di puntare lo sguardo sopra al figlio.

«  Cosa c’è? Sto lavorando, tesoro. »
«  Non c’è nulla di pronto da mangiare », affermò solamente Roxas, con la voce che cercava di suonare come un’accusa. E lo era per davvero, come ogni volta.
Capitava spesso che, tornando da casa di Tatty, Roxas trovasse tutte le luci spente e nulla da mangiare.
Solitamente succedeva quando la madre aveva qualche grosso lavoro tra le mani, ma nell’ultimo periodo accadeva almeno una volta a settimana.
Naminé sospirò appena e si passò una mano tra i capelli biondi, tirandosi indietro il ciuffo corto.

«  Dovreste imparare a cucinare da soli, oramai siete grandi. Non avete di certo bisogno che qualcuno badi a voi, altrimenti non avrei licenziato la domestica. »
A dir la verità, e Roxas la conosceva bene, la domestica si era licenziata da sola, così come le precedenti.
Gli orari erano allucinanti, la paga scarsa, e trattare con Naminé era quasi impossibile, quando la sua mente vagava per le sue idee e non voleva sentire ragioni a contrastarla.
Roxas strinse maggiormente le braccia al petto, voltando il capo verso la finestra chiusa, poi ancora sopra la tinozza d’acqua sporca lì, ai piedi del tavolo.
C’era odore di vernice e pittura ad olio, di china e acqua rafferma; la puzza era tanto forte da fargli venire il voltastomaco.

«  Non sappiamo cucinare perché nessuno ce l’ha mai insegnato.»
La donna lo ammonì con lo sguardo, sollevando l’indice contro di lui. «  Non cercare di darmi la colpa come al solito, Roxas. »
Il ragazzo scrollò le spalle, mormorando un: “ figurati” che fece sollevare la donna dalla sedia.
Sbatté entrambe le mani sopra la scrivania, facendo rotolare a terra una delle tante matite consunte.

«  Io sono qui che lavoro per voi, giorno e notte, non dirmi che non penso alla mia famiglia. »
Anche  in questo caso Roxas sapeva che sua madre lavorava principalmente perché amava la pittura, non di certo per mantenere i suoi figli, che da quel che si era sempre sentito dire  assomigliavano tremendamente all’ex marito.
Non che Roxas o Ventus avessero mai conosciuto loro padre. Forse ne aveva un ricordo sbiadito, ma non sapeva se quell’immagine distante fosse vera oppure se l’avesse solo creata col tempo, per poter  avere anche solo un’idea di come potesse essere un padre.

«  D’accordo, hai ragione tu », esalò alla fine, abbassando il capo, usando il solito tono accondiscendente che riusciva a calmare la madre. Dopo tre lunghi secondi di silenzio, infatti, Naminé tornò a sedersi.
La testa le si chinò nuovamente verso il foglio e la mano destra cercò a tentoni una matita del calibro giusto.

«  Scusami tesoro, la mamma è molto stanca », cominciò, strofinandosi le dita sopra le tempie, «  ora lasciami lavorare, va giù con Ventus a mangiare qualcosa. Fatti un panino, fallo anche a lui, non lo so. »
Roxas annuì ancora una volta, tutt’altro che d’accordo con le parole della madre, e abbandonò quella stanza puzzolente con enorme piacere.
Si richiuse la porta alle spalle e si appoggiò al muro lì affianco.
Con un lungo sospiro richiuse gli occhi, cercando di calmare il battito accelerato del cuore, sperando di poter placare la rabbia che sentiva ribollire in corpo.
Pian piano i muscoli si distesero e il biondo sollevò le palpebre, osservando il corridoio buio di fronte a lui.
Si chiese come sarebbe stata la serata se solo avesse accettato di rimanere a mangiare a casa di Axel.
Un leggero sorriso gli fece sollevare le labbra. Sicuramente meglio di così, ovviamente.
La mano destra strisciò sopra i capelli leggermente spettinati e se li tirò all’indietro, poi con un movimento veloce percorse il corridoio fino a scendere nuovamente le scale.
Gettò uno sguardo a Ventus sopra al divano, il cellulare in mano e la ciotola vuota appoggiata affianco, e afferrò lo skate-board.

«  Vado dalla nonna », disse alla fine, prendendo improvvisamente quella decisione.
Sì, Tatty sapeva come migliorare la serata, lei sapeva sempre come accoglierlo a braccia aperte e prestargli attenzione.
Ventus sopra al divano scrollò le spalle e gli gettò un’occhiata veloce.

«  Salutamela. »
Roxas annuì e uscì di casa.
Il cielo si era fatto più scuro e i lampioni lungo la via illuminavano le strade deserte.
Il quartiere, sempre silenzioso, era ammantato dal buio della sera e quando Roxas uscì dal cancello perse qualche istante a fissare ogni casa identica, le recinzioni di fine metallo che dividevano ogni giardino dall’altro e, infine, se ne andò.
Scivolò velocemente per la strada del Villaggio del Sole e imboccò la prima usciva a destra, spingendo con la gamba destra più forte che poteva.
Arrivò a casa della nonna in meno di quindici minuti, con le gambe che dolevano e il fiato corto.
Il biondo si passò velocemente la mano sopra le guance bollenti e suonò al citofono.
Le tende verdi del secondo piano erano leggermente illuminate dalla luce dell’abat jour  e Roxas non riuscì a trattenere il sorriso all’idea che di lì a poco avrebbe rivisto Tatty.
Non vedeva l’ora di sedersi di fronte alla nonna, con una tazza di tè e dei biscotti, e raccontargli quella giornata così fantastica da sembrare quasi un sogno.
A casa non aveva nessuno con cui parlare.
Ventus l’avrebbe ascoltato a malapena, con la mente occupata dai suoi pensieri, dai suoi amici e dalle sue felici giornate in giro.
Sua madre avrebbe fatto altrettanto, e per quanto Roxas le volesse bene – inspiegabilmente, certe volte, sentiva il desiderio di andare da lei e abbracciarla forte, nonostante passasse più tempo a litigare con lei che altro- non riusciva a sopportare i suoi silenzi e le sue risposte secche.
“Mh”, “ sì”, “certo”, era sempre così.
Roxas suonò ancora una volta, spingendo l’indice sopra al bottone con foga, finché non sentì un click.

« Sì, chi è? », arrivò la voce dal citofono e Roxas si identificò con un semplice: «  sono io. »
Il cancello si aprì con un suono metallico e il giovane camminò verso l’appartamento il più veloce possibile.
Ignorò la stanchezza – che ora sembrava scemare gradino dopo gradino- e finalmente raggiunse la casa della nonna.
Non appena la donna aprì la vecchia porta di compensato Roxas sorrise, entrando senza dare il tempo a Tatty di aprir bocca.

«  Non è che avresti dei biscotti? Devo raccontarti un sacco di cose!»
Tatty sorrise e si chiuse la porta alle spalle, osservando il volto del nipote; sentì un dolce calore scaldargli il petto nel vedere il sorriso sincero di Roxas, quella felicità infantile che non gli vedeva sul viso da anni.
«  Ma certo tesoro, ora dimmi tutto. »








***

Well, well, con un piccolo ritardo ma ci sono, sono viva e vegeta, uscita da un po' di influenza e poca voglia di accendere il pc.
In ogni caso FINALMENTE Axel e Roxas si sono incontrati - piccoli di mamma, loro!- e da questo capitolo in poi rimarranno sempre in contatto.
Ho voluto inserire metà capitolo con la famiglia di Roxas giusto per introdurre Naminé che, lo giuro, sembra una donna stronza e decisamente menefreghista, ma non rientra nei " cattivi" classici dei libri.
A voi i commenti, quindi.
Mel.
   
 
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