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Autore: EffyLou    09/10/2017    1 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
Capitoli:
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14. Icarus 

 
 
In un momento di calma prima dei festeggiamenti, Johann era risalito sul ring dove erano rimasti Leyendecker, Zirzow e Frieda. Dopo aver saltato le corde, aveva raggiunto la ragazza. L’aveva presa per i fianchi, le mani ancora fasciate, e l’aveva tirata su facendola girare. Lei aveva posato la fronte sulla sua, tenendogli il viso con le mani.
«Sono così orgogliosa di te.» gli sussurrò. Lui aveva baciato avidamente quella ragazza che tanto lo amava, che tanto lo aveva supportato in ogni momento fino ad allora. Avrebbe voluto ripagarla in ogni modo possibile del suo amore e della sua solidarietà incrollabile.
Avevano festeggiato alla birreria per il resto della serata. Scorrevano fiumi di birra, cibo a volontà. Johann andava a sedersi al tavolo con i suoi sostenitori, girando come una trottola per tutta la sala della birreria Bock. Stava un po’, parlava con loro, e poi passava al tavolo successivo.
Alle tre del mattino, tutti tornarono a casa.
Johann e Frieda si lavarono, lei gli pettinò i capelli umidi e si arrotolò le ciocche ricce intorno alle dita. Una volta in camera, la ragazza fece l’imitazione di Witt e di Radamm, poi la caricatura di Rukeli saltando sul materasso, mentre il campione batteva le mani e non aveva più fiato per le risate.
«Avevi un futuro da comica e cabarettista!»
Poi l’aveva attirata a sé. L’aveva baciata lentamente, accarezzata su tutto il corpo e spogliata con calma. Avevano fatto l’amore con tenerezza intensa e abbandono totale. A godere di lei e lasciarsi cullare dalla gioia del trionfo, dimenticando tra le sue braccia tutto il veleno che aveva ingoiato.
Il giorno dopo, tutti si beccarono febbre ed influenza.
«Alla fine ti sei ammalata pure tu, li prendo a schiaffi quei due.» aveva borbottato Johann, vedendo Frieda tossire e soffiarsi il naso. Lei gli aveva rivolto un’occhiata divertita e l’aveva rabbonito con un bacio tra i capelli.
Una volta guarito, circa due giorni dopo, venne invitato in ogni dove. Programmi radiofonici, interviste per riviste, servizi fotografici, pubblicità, incontri galanti. Era un divo.
Lo specchio gli restituiva finalmente l’immagine del campione.
Si era sentito il re del mondo, gli sembrava d’aver toccato il cielo con un dito. Aveva raggiunto l’apice della sua carriera, del successo, della fama, della gioia. Non poteva saperlo che era il punto più alto di una discesa ripida.
Perché così era: più si sta in alto, più la caduta fa male. Un martire divorato dalla bestia nera.
Il ring sarebbe diventato la sua collina del Golgota[3].

 
* * *

 
Di recente era uscito con Kaspar. L’amico gli aveva chiesto di vedersi in un bar, dopo pranzo, per prendere un caffè.
Quando era entrato, sembrava agitato.
«Vuoi sposarmi e cercavi un posto tranquillo per dirmelo?» lo incalzò Johann, alzando un sopracciglio e il sorriso di sfida.
Era seduto al bancone, la camicia bianca a maniche corte e i pantaloni beige. Il berretto piatto appoggiato alle gambe, una sigaretta che pendeva dalle labbra carnose. La cameriera che lo guardava di continuo, le guance rosse.
Kaspar gli lanciò un’occhiataccia, si sedette vicino a lui e si accese una sigaretta.
Non era aria di scherzi. Johann sbuffò il fumo dal naso, cercando di assecondare l’umore dell’amico.
«D’accordo, ricominciamo. Come va?»
«Hans se n’è andato.»
«Dove?»
Kaspar alzò le spalle possenti. «Immagino Francia. Forse Inghilterra. – lasciò cadere un cilindro di cenere nel piattino di vetro. – Non gli è rimasto più niente qui, da quando gli hanno proibito di boxare.»
«E Margarete?»
«Lo ha lasciato. Aveva paura che potessero farle qualcosa, visto che lui è ebreo. E l’ha lasciato.»
Johann alzò le sopracciglia. «Come l’ha presa Hans? Hai avuto modo di parlarci?»
«La capiva. Non la biasimava. – scosse il capo. – Conosco Hans da quando eravamo piccoli, Johann. È mio fratello. Fa male vederlo solo, che va via da solo e triste, privato di tutto. Gli hanno portato via la boxe, l’amore. Sta cercando di restare un uomo libero.»
Gli tornarono in mente le parole di Leyendecker. Le parole di Seeling.
Sentì montare la bile.
 
Quella notte non riuscì a dormire. Era agitato.
Hans. Seeling. Leyendecker che gli diceva di andarsene. Le nuove disposizioni per il pugilato, il Faustkampf. Il titolo.
Non sarebbe durato molto. Gliel’avrebbero tolto. Lo sapeva.
Cosa ne sarebbe stato di lui, dopo? Era rimasto solo per quello. Lui era solo quello.
Sapeva fare solo questo.
Frieda, vicino a lui, dormiva sulla schiena e il volto girato dall’altro lato. I piedi che si sfioravano.
La guardò. Come avrebbe potuto renderla felice se non rendeva felice nemmeno sé stesso? In quella Germania che si divideva e sbriciolava, come avrebbero fatto loro due a sopravvivere? Erano due diversi.
Voleva accarezzarla, ma per la prima volta ebbe paura di toccarla.
Il tempo. Avrebbe estirpato anche il ricordo del suo viso.

 
 * * *

 
17 giugno 1933

Era in palestra quel giorno. Paul Schubert era andato a trovarlo a Berlino.
Johann lo aveva portato al Der Blume per fargli conoscere qualcuna delle graziose cameriere, colleghe di Frieda. Erano tutte belle, deliziose, con gli occhi truccati e i sorrisi gentili. Non aveva trovato nessuna che gli piacesse, aveva arricciato il naso. Il campione l’aveva guardato come si guarda un folle.
Il giorno dopo erano andati in palestra e si allenavano come sparring partner. Leyendecker e Zirzow che bevevano i loro caffè seduti su una panca. Ivan che si allenava al sacco, Kaspar al sacco veloce.
Frieda e Gilda sedute ad una delle panche vicino la segreteria, parlavano.
A Frieda piaceva Gilda, era una ragazza per bene. Con i suoi capelli biondissimi, corti fin sotto le orecchie, le labbra carnose, il mento piccolo, gli occhioni marroni che sembravano spaventati da tutto. Era ingenua, innocente, una ragazza devota, l’anima delicata.
Le stava raccontando come si era conosciuta con Kaspar. Lui era il suo vicino di casa.
La notte che aveva sfuriato, il motivo per il quale la porta sul retro della palestra restava aperta di notte, lei si era indispettita. Gli aveva bussato alla porta, gli aveva detto di smetterla perché voleva dormire. Lui le aveva urlato contro così forte d’averla spaventata. Era rientrata in casa si era messa a piangere. Poco dopo, lui aveva smesso di fare baccano ed era andato a chiederle scusa.
«Ma pensa, che carino.» aveva commentato Frieda senza particolare trasporto.
Gilda, innamorata persa, aveva sospirato con aria sognante.
L’addetto alla segreteria si chiamava Gunter. Era appena rientrato nella palestra.
Era uscito per raccogliere delle lettere. La maggior parte erano per Zirzow, qualcuna per Leyendecker. I due si avvicinarono alla segreteria per dare un’occhiata, ognuno alle sue. Una, però, era indirizzata a Johann Trollmann. Dalla Federazione Pugilistica Tedesca.
Il vecchio allenatore sentì un peso nello stomaco. Chiamò il suo campione.

Rukeli si avvicinò. Alto, maestoso. Il sudore a rendere lucida la pelle d’ambra. Rivoli di sudore che percorrevano gli addominali, la schiena, e finivano nell’elastico dei pantaloncini blu perfettamente tesi sui fianchi.
Strappò la busta della lettera, estrasse il foglio. Tirò forte su col naso, espirando dalle labbra. Quasi a riprendere fiato.

 
“Con la presente, si informa che il titolo di campione nazionale dei pesi medio-massimi disputato alla birreria Bock il giorno 9 giugno 1933 alle ore 21:00 tra i pugili professionisti Adolf Witt di Kiel e Johann Trollmann di Hannover, e consegnato a quest’ultimo, è stato revocato.
La revoca è dovuta alla condotta anti-sportiva tenuta dal pugile Trollmann durante l’incontro e dall’insufficienza di prestazioni da parte di entrambi. Pertanto, il titolo resterà vacante fino a data da destinarsi.”

Lo sapeva. Se lo aspettava.
Solo che non pensava così presto. Erano passati solo otto giorni.
Passava gli occhi torbidi sui contorni delle lettere scritte a macchina.
Revocato.
Non sapeva bene come reagire. Emozioni forti, che chiedevano reazioni contrastanti.
Non staccava gli occhi dalla lettera. Le sopracciglia aggrottate, come se fosse concentrato, le labbra strette. Leyendecker vide i muscoli tesi sotto la pelle, la mascella serrata.
Gli occhi del lupo. Li conosceva bene, ormai. Qualcosa non andava.
«Cosa dice?» domandò Zirzow, accendendosi la pipa.
«Leggi tu stesso.»
Era così orribile che non voleva nemmeno crederci. Conosceva la follia nazista, ma non credeva che sarebbero arrivati a tal punto. Il Reich, con quella revoca, stava dimostrando solo un assaggio di tutto il suo potere. Lo zingaro cercò gli occhi dei tre presenti, ma solo quelli di Frieda erano lì per lui, lucidi per le lacrime. Non voleva crederci nemmeno lei.
Gli occhi di Zirzow e di Leyendecker si aprirono poco a poco, man mano che le parole si susseguivano nella lettura.
Non dissero niente.
«Cosa vuoi fare ora?» gli chiese il manager, alla fine.
Johann accennò a un sorriso amaro. «Cosa mi rimane da fare?»
«Io.. Io cercherò qualcosa, mi darò da fare, smuoverò un po’ le acque. Potresti avere un’altra occasione in futuro.»
Non riuscì ad apprezzare la buona volontà e l’ottimismo di Zirzow. Gli saltarono i nervi.
Tutta la calma che aveva tenuto fino a quel momento, precaria, esplose.
Lo sguardo nero mutò d’improvviso. Non c’era più niente di umano in quegli occhi profondi.
Brillavano selvaggi e pericolosi, un predatore a caccia. Il naso arricciato, come quello dei lupi quando ringhiano. Il mento incassato.
Zirzow indietreggiò, una mano avanti come a volersi proteggere.
«Hanno mandato via Hans, hanno mandato via Seeling. – ringhiò. – Non me la darà nessuno una cazzo di altra occasione, perché se non l’hai notato sono uno sporco zingaro. Non c’è posto per gli zingari nella boxe, nel Faustkampf.» sputò quel nome come se fosse veleno.
Appallottolò la lettera della Federazione, la lanciò dall’altro lato della palestra in un moto furibondo.
«Me l’hanno fatto capire in mille modi. Uno zingaro non può boxare. Vogliono vedermi rinunciare al mio stile, perché gli dà fastidio. “Troppo veloce, Trollmann, troppo danzante, prendili due pugni qualche volta”. Vogliono vedere uno zingaro combattere come un ariano, che equivale a stare piantato in mezzo al ring come un idiota e farmi prendere a pugni. E mi chiamano ballerino! – mollò un pugno al muro, qualcuno trasalì. – Era il mio sogno, maledizione. Il mio riscatto. Come zingaro, come “ballerino”. Lo guardo scivolare via, ed è orribile perché non posso farci niente per fermarlo, non è neanche colpa mia.»

Non ho scelto io di essere zingaro. Mi sono ritrovato addosso quest’etichetta che non ha fatto altro che farmi terra bruciata intorno.

Kaspar gli si era fatto vicino, gli aveva dato una pacca sulla schiena. Gilda gli aveva accarezzato un braccio per supportarlo. Leyendecker gli strinse una spalla, un padre che si accinge a raccogliere i cocci rotti del proprio figlio. Come Dedalo, che pazientemente aveva sopportato l’ambizione di Icaro, e infine ne aveva raccolto il corpo bruciato dal sole.
Johann aveva giocato col fuoco. Si era bruciato. La sua ambizione, il suo sogno, troppo alto.
Fattibile. Ma non nella Germania di Hitler.
Fattibile. Ma non se eri uno zingaro.
Rukeli non aveva guardato Frieda. Guardava a terra. Ma lei li vedeva, i suoi occhi.
Lei lo sentiva. La potenza di quelle emozioni la travolse come un’onda anomala. Sentiva la bile nello stomaco, la saliva farsi acida. Le mancò il respiro. Non riusciva a sorreggerle, erano un fardello pesante che lei si era involontariamente caricata sulle spalle. Lei e la sua maledetta empatia.
Respiri profondi per far tornare a circolare l’ossigeno.
La palestra avvolta nel silenzio. Poi Johann se n’era andato passando dal retro, senza aspettarla.
Leyendecker lo vide andare via. La ragazza con gli occhi di cielo era impietrita, lo sguardo fisso al pavimento.

La boxe è magia, pensava l’allenatore. La magia di rischiare il tutto per tutto per un sogno che vedi solo tu, pur sapendo che ti verrà strappato via e ti lascerà sanguinante, senza più niente. I campioni si formano da dentro, da questi sogni e da questi progetti. Senza di essi, non si è più campioni. Cosa ne sarà di te ora, ragazzo mio?
 
 

Il mondo gli era caduto addosso.
Era tornato a casa solo per cena. Frieda dormiva sul divano, si era addormentata mentre leggeva un libro. Dall’aspetto della cucina, intatto, Johann dedusse che la ragazza non aveva nemmeno mangiato. Non c’erano piatti nel lavandino, né pentole sul fuoco, né la tovaglia ad apparecchiare.
Solo lei distesa sul divano, piccola e addormentata, con un libro sul petto. Le guance lucide, rigate di lacrime.
I dolori del giovane Werther. Johann Wolfgang von Goethe.
Il preferito dello Johann pugile.
Si era seduto su una delle sedie intorno al tavolo, il mento poggiato sul pugno serrato. Le nocche ferite dai pugni al muro, ai tronchi degli alberi. Ferite che non voleva veder rimarginate. Così, ogni volta che si guardava quelle maledette mani capaci solo di dare pugni, si ricordava che non doveva più volare in alto. Aveva fatto la fine di Icaro. Così imparava la lezione: uno zingaro non poteva essere ambizioso, non poteva volare. Forse era la volta buona che qualcuno gli aveva messo apposto quella testa dura.
Solo pochi giorni prima era invitato in ogni dove: galà, servizi fotografici, pubblicità, programmi radiofonici. Era il campione. Era il re di Germania. Il re del ring ariano.
Ora gli restavano solo mani ferite e occhi vuoti, senza ambizione. Rassegnati alla consapevolezza di appartenere ad un’etnia senza vincenti, consacrata ad una vita da vinti.
Non avere ambizioni e il cuore colmo di passiva rassegnazione. Era quello morire.
«Dovremmo fare qualcosa per quella mano.» mugugnò la voce di Frieda. Si stropicciò gli occhi, asciugandosi le guance umide. Il viso fra le mani.
«Sto bene.»
«Potremmo aprire un dibattito in merito.» replicò, atona.
«Ti preparo qualcosa da mangiare?»
«No.»
Quand’era tornata a casa aveva infilato la testa nel gabinetto e aveva rigettato tutta la negatività. Non se la sentiva di mettere qualcosa nello stomaco. La bile minacciava di risalire. Si era messa a leggere sperando che questo la distraesse. E si era attivato un altro meccanismo di difesa: il sonno.
Ogni volta che “assorbiva” la negatività da qualcuno, stava malissimo: pianti disperati, poi vomito e infine cercava di difendere sé stessa con il sonno. Lui lo sapeva che lei reagiva male alla negatività, conosceva la sua empatia quasi medianica.
Johann aveva fatto un cenno d’assenso col capo. Si era alzato e si era andato a fare una doccia.
Lei era rimasta lì, seduta. I piedi sul pavimento fresco, il libro chiuso sulle gambe, la faccia tra le mani.
Poco prima che Johann uscisse dalla doccia, lei si era infilata sotto le coperte e si era addormentata di nuovo, sdraiata su un fianco. La schiena rivolta alla zona del letto destinata al suo campione.
Rukeli era entrato nella stanza in penombra, illuminata solo dalla lampada sul comodino. L’asciugamano avvolto intorno alla vita, un altro sulla testa. Infilò i pantaloncini vecchi che usava come pigiama e una canottiera bianca. Si strofinò la testa per asciugare quei ricci, non ci prestò molta attenzione.
Dietro e ai lati i capelli erano tagliati leggermente più corti. Sopra restarono umidi, ma non gli importava. Si infilò sotto le lenzuola, sdraiato di schiena. Frieda che gli dava le spalle. Il respiro leggero.
Non riusciva a pensare a niente.

Quella notte il suo sonno fu tormentato. Infestato da incubi.
Johann che combatteva le ombre, loro che vincevano. Lui che si contorceva sul ring insanguinato.
Poi un campo spoglio, circondato da filo spinato. Neve che si andava a sciogliere, l’aria frizzante di primavera che puzzava di carne bruciata e morte. Le ossa sporgenti che graffiavano la pelle, scapole fuori dalla schiena come ali d’angelo mozzate. Cadaveri accatastati, putrefatti o quasi.
Neuengamme. Wittenberg.
Quel sogno puzzava come una premonizione. Puzzava di futuro.
«Johann!»
Mani che lo afferravano e lo trascinavano nel ventre della terra.
«Johann! Svegliati!»
Frieda che lo scuoteva per le spalle.
Johann prese fiato, scattando a sedere. Il sudore che lo ricopriva come una patina lucida.
Gli occhi della donna che amava. Il cielo infinito.
«Era solo un incubo.» sospirò, piano. Ma non ci credeva fino in fondo.
Quel sogno… era una premonizione, non era solo un incubo. Se lo sentiva nelle ossa.
Lei annuì, lentamente. Le dita stringevano le lenzuola bianche. Lui si accorse che c’era la luce del comodino accesa. Guardò la sua Frieda. Gli sembrò un cerbiatto perso nel bosco del lupo. Spaesata e spaventata.
Era solo un incubo. Solo uno stupido incubo.
«Sto bene, sul serio. Era solo un incubo.» mormorò, più dolce. Accennò un sorriso stanco, si sdraiò di nuovo, cercando di rilassare i muscoli.
«Johann.»
«Dimmi.»
“Sto bene”.
«Non mentirmi.»
Lui restò in silenzio. Frieda gli si avvicinò, titubante. Per la prima volta, non sapeva come avesse reagito il campione ad un contatto con lei.
Si teneva su con il gomito. Gli posò una mano sulla guancia, lo vide chiudere gli occhi come se gli facesse male. Lacrime calde gli rigarono il viso. Lei le baciò via.
«Ti amo, Johann. – gli confessò per la prima volta, il cuore in mano, la fronte posata sulla sua. – Ti amo da morire. Voglio che tu lo sappia, e voglio che tu sappia che non ho intenzione di abbandonarti perché sei un sinti o chissà cosa. Non ti amerò di meno per le tue origini o per la tua carriera. Resterò al tuo fianco fino a che vorrai.»
Non le rispose, non le disse niente. Aveva aggrottato le sopracciglia, le labbra strette. Come se soffrisse. E le lacrime continuavano a scendere copiose, senza che lui emise un solo singhiozzo.
Frieda si sdraiò, lo attirò a sé. Johann affondò il viso nel suo petto. Lei che gli accarezzava i ricci neri, lui che la stringeva come se tutto il mondo stesse per scomparire tranne la ragazza. La sua ancora di salvezza. Il suo unico punto fermo in quell’uragano che gli stava portando via ogni certezza.
Si addormentò. Non sognò nient’altro. Dormì sereno e profondamente per il resto della notte tra le sue braccia.
 
* * *


Box-Sport, edizione del 19 giugno 1933 – Trollmann contro Witt, 9 giugno ’33.
Gli amici di Trollmann, che ritenevano le corse sul ring e i punti del loro uomo, degne di un campione, hanno mostrato un’enorme resistenza e hanno torturato le loro corde vocali in maniera mostruosa.
Zirzow, il manager di Trollmann, sfrecciava come un piccolo razzo intorno al ring, parlava con labbra tremanti, era una volta qui e una lì, poi improvvisamente appariva riportando dallo spogliatoio Trollmann che piangeva.
La commissione sportiva ha rovesciato la decisione dei giudici e dell’arbitro, e proclamato Trollmann nuovo campione tedesco dei mediomassimi! Purtroppo non ci si può far nulla!

Se si giudicava Trollmann qualificato da un punto di vista puramente sportivo per un incontro di campionato, si doveva sapere che con Trollmann sono sempre possibili sorprese sia dal lato positivo sia dal lato negativo. Lo zingaro è un pugile istintivo, che segue il suo stato d’animo, e che con il suo saltellare sul ring alle volte devia fortemente da una linea sportiva. Spesso si può anche passar sopra alle mancanze di serietà nella sua boxe. Ma se in gioco c’è un incontro per il titolo, allora si corre il pericolo che il valore intrinseco di un titolo venga sminuito dallo stile particolare di questo pugile istintivo. 
La Federazione pare aver compreso il rischio corso a lasciare il titolo a Trollmann.

Il verdetto dell’incontro Heinrich Trollmann-Adolf Witt del 9 giugno nella Bockbierbrauerei per il titolo di campione tedesco dei pesi mediomassimi viene sospeso e il combattimento viene dichiarato no-contest a causa delle prestazioni insufficienti dei due pugili. Il titolo è di conseguenza libero. La commissione annuncerà la data del prossimo incontro.
 

Johann l’aveva strappato a metà e aveva lanciato le pagine trinciate in mezzo alla strada.
Si era andato ad allenare al sacco veloce, sfogando la tensione.
Si era chiesto cosa ci facesse ancora lì, in quella palestra, se ormai non valeva più la pena di combattere. Non aveva più niente da inseguire.
Era un ragazzo zingaro che tirava pugni ad un sacco veloce senza nessun tipo di ambizione.
Leyendecker gli era andato vicino, non si erano detti niente. Si erano guardati negli occhi per interminabili momenti, la mano dell’allenatore stretta sulla spalla del suo campione.
Gli aveva fatto da padre in quegli anni, lo aveva costruito mattone dopo mattone. Aveva fatto uscire il talento, facendolo esplodere come dinamite. Aveva fatto della promessa vacua, un campione. E ora vedeva il suo operato sgretolarsi. Il lavoro di quasi cinque anni cadere in pezzi sotto i colpi di un avversario incrollabile. Il campione che aveva costruito incassava i colpi bassi di un nemico intangibile e troppo potente.
Era stato difficile per Johann tanto quanto per Leyendecker. Quello sguardo e quella mano stretta sulla spalla ne erano la prova. Solidarietà ed empatia.
Come era venuto, se n’era andato. Volatilizzato verso alcuni nuovi arrivi.

Poi era entrato quell’omino panciuto. La faccia grassa, rotonda, il parrucchino nero perfettamente gelatinato alla moda dei nazionalsocialisti. I guanti bianchi sulle mani paffute, gli occhietti piccoli e neri come biglie.
Si era rivolto al buon vecchio Gunter, alla segreteria, e aveva chiesto di Zirzow e Leyendecker.
Il manager si era materializzato lì vicino, come sbucato dalle assi del pavimento. La pipa tra le labbra, le mani sui fianchi. Aveva urlato all’amico allenatore di raggiungerlo.
Johann si era fermato, interessato. Aveva guardato la situazione da lontano.
Poi loro gli erano passati davanti.
L’omino panciuto guardò lo zingaro. Si bloccò di colpo.
«Lei deve essere Gipsy Trollmann!»
Johann alzò un sopracciglio, squadrandolo dall’alto in basso. Era l’unico pugile zingaro della Germania. Chi altro poteva essere?
«Giusto di lei dobbiamo parlare. – continuò. – Credo sia giusto che lei venga con noi.»
Afferrò un asciugamano e se lo passò sul petto, sulla nuca, sulle spalle. Li seguì nell’ufficio malandato di Leyendecker.
L’omino panciuto si accomodò sulla sedia lì di fronte alla scrivania. Zirzow a braccia incrociate vicino a lui, l’allenatore dietro il tavolo con i fogli sparsi e calendari segnati da tratti di matita.
Alle pareti, le foto del pugile che era stato. E qualche foto con Zirzow da giovani.
L’omino panciuto era uno delle camice brune. Avvocato e notaio di Berlino, si chiamava Hans-Joachim Heyl. Nello specifico, era il nuovo presidente della commissione ed era lo Sturmbannführer delle SA, le squadre d’assalto che fissavano muti gli incontri di Rukeli, e delle Waffen-SS. Le SS combattenti.
Era questo ciò che adombrava lo sguardo di Zirzow.
«Possiamo fare qualcosa per lei, signor Heyl?»
«Ci saranno diverse sanzioni per voi che avete sostenuto la vittoria del pugile, ma verranno ufficializzate a luglio. – andò dritto al punto. ─ Si è discusso molto del ragazzo, in questi giorni. La revoca del titolo resterà tale, su questo ci siamo trovati tutti d’accordo. Ma pensavamo che fosse il caso di farlo combattere di nuovo.»
Leyendecker e Trollmann si scambiarono un’occhiata fugace.
Zirzow sbuffò il fumo della pipa, lo sguardo sottile, indagatore, come quello di un rapace.
«Cosa propone la Federazione?»
«Un incontro per risollevare il morale dell’ex campione, spronarlo a continuare. Mi spiego? L’incontro non varrà per il titolo.»
«Quando? Contro chi?»
«Quando c’è da deciderlo, Herr Zirzow. Dipende se il ragazzo accetta o meno. – un sorriso affabile che nascondeva le zanne. – Contro Gustav Eder.»
Eder era un peso welter, campione nazionale di quella categoria. Era un osso duro, e questo Trollmann lo sapeva. Facendo un rapido calcolo, tra un peso welter come Eder e un mediomassimo come Trollmann, dovevano correre circa otto chilogrammi. Non solo, l’avversario non vantava particolare altezza. Probabilmente, la differenza era di una decina di centimetri. Per questo Eder era un pugile che boxava secondo lo stile dell’aggressore, nella guardia, entrava da sotto. Era pericoloso, ma poteva gestirlo.
«Per amor dell’onestà, dovrò far presente al ragazzo che sono state stabilite alcune regole che dovrà seguire durante il corso del match.»
Johann arricciò il naso, poteva già immaginare a quali regole si riferisse. Non gli piaceva come quel tale parlava di lui. Non lo chiamava neanche per nome, come se fosse peccato e gli si bruciasse la lingua solo pronunciandolo.
«Non dovrà accennare alle sue… “danze”. Non dovrà in alcun modo muovere le gambe, né abbandonare il centro del ring. Per ultimo, dovrà tenere la guardia bassa.»
«Credo d’aver capito. – annuì. – Devo combattere da vero tedesco, giusto? E nel farlo devo perdere. A questo punto non preferireste un sacco da boxe?» si lasciò sfuggire il diretto interessato, con acidità.
Zirzow lo fulminò con un’occhiata truce. Heyl scoppiò in una risata controllata, il retrogusto astioso.
«Mi creda, Trollmann, il pubblico la adora. Non lo deluda un’altra volta. – si schiarì la voce. – L’avviso che se solo accennerà ad infrangere una di queste regole, saremo costretti a ritirarle la licenza di pugile professionista. E se queste motivazioni non dovessero bastarle… lo faccia per la sua famiglia.»


[3] Collina del Golgota.
Il luogo fuori Gerusalemme su cui, secondo la Bibbia, fu crocifisso Gesù Cristo.


_______________________________

Eccoci qui! Quattordicesimo capitolo.
Per chi è Cristiano, vorrei avvisarvi che farò alcuni riferimenti biblici, come la collina del Golgota, nel corso della storia. Non voglio risultare blasfema, e mi scuso, ma i sinti di Germania (in particolare quelli di Hannover) videro in Rukeli una sorta di angelo, di vittima sacrificale sul'altare del Nazismo. Per loro il suo gesto di ribellione (che vedremo presto) e la sua figura in sé, hanno assunto un che di religioso. Poi i sinti, così come altre etnie rom, sono molto religiosi.
Tengo a ricordare che Box-Sport storpiava tutti i nomi, e quindi Johann divenne "Heinrich", così come altri pugili come Schmeling si ritrovarono il nome storpiato.

Fatemi sapere cosa ne pensate, che mi fa piacere ♥
Alla prossima! ♥
   
 
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