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Autore: Juken    10/10/2017    5 recensioni
[Modern! AU - Monster! AU; a sort of]
Dal testo: “Dopo tanto tempo passato a credere di essere morto, il suo tocco lo faceva sentire vivo”.
Naruto, prigioniero ad Amegakure e vittima degli esperimenti dell'esercito, dovrà imparare ad affrontare la sua nuova natura.
Storia partecipante al Contest "It was always you" indetto da Himeko Kuroba sul forum di Efp.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki | Coppie: Hinata/Naruto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Autore: Juken [Efp], Jūken [Forum]

Fandom: Naruto

Titolo: Magma

Introduzione: [Modern! AU - Monster! AU; a sort of] Dal testo: “Dopo tanto tempo passato a credere di essere morto, il suo tocco lo faceva sentire vivo”. Naruto, prigioniero ad Amegakure e vittima degli esperimenti dell'esercito, dovrà imparare ad affrontare la sua nuova natura. Storia partecipante al Contest "It was always you" indetto da Himeko Kuroba sul forum di Efp.

Rating: Giallo 

Eventuali note dell’autore: Non saprei neanche io definire bene l’Alternative Universe in cui ho inserito questa storia. Credo che possa rientrare nell’ MODERN! AU\SUPERHERO! AU \MONSTER! AU (???). 
L’età dei protagonisti non è specificata, anyway io li ho immaginati nel periodo della Quarta Grande Guerra Ninja.

 

 Enjoy 

 


 

 

 

MAGMA

 

 

 

 

 



 

Era stato il delicato profumo di fiori ad interrompere il suo gironzolare e a farlo tornare indietro sui suoi passi. Fiori e quella che giudicò essere cannella. Quella scia così invitante lo aveva subito incuriosito e non solo perché per la maggior parte della sua vita era stato abituato all’odore dell’umidità della stanza in cui era stato confinato ad Amegakure, a quello del sangue e al tanfo insopportabile del vomito che invece proveniva dalla stanza opposta alla sua. 
Il suo naso lo aveva condotto al vecchio parco abbandonato non molto distante dal suo chiosco di ramen preferito, un minuscolo quadrato di terra dimenticato da tutti e ricoperto di erbacce, in cui c’erano – stranamente in piedi – un’altalena arrugginita e due pezzi di legno marcio che, in una vita passata, dovevano essere stati delle panchine. C’era già stato prima d’allora e sapeva benissimo che lì non avrebbe trovato dei fiori o della cannella, ma si fidava ciecamente del suo naso perciò lo ispezionò lo stesso in cerca della fonte di quel profumo, che individuò subito. 
C’era una ragazza che occupava la vecchia altalena, la quale probabilmente non aveva sentito il rumore dei suoi passi perché continuava ad avere gli occhi bassi, puntati su qualcosa che aveva fra le mani. Lui ne approfittò per capire se quelli che aveva in grembo fossero proprio i fiori dall’odore così buono. 
Non si rese conto di essersi avvicinato così tanto da ritrovarsi di fronte a lei, fino a quando non la vide sussultare e quasi perdere la presa sul fazzoletto lilla che aveva in mano. La ragazza aveva subito notato il suo sguardo indagatore e avvampando gli aveva chiesto con un tono incerto se lui avesse voglia di un biscotto; aveva poi allungato una mano rivelando il contenuto del fazzoletto. Lui afferrò un biscotto portandoselo al naso. Ecco da dove proveniva l’odore di cannella! Mentre lo addentava, facendo cadere una cascata di briciole sulla sua maglia, si chiese distrattamente dove fossero i fiori. Riportò gli occhi sulla ragazza, squadrandola come se lei glieli stesse nascondendo e li avrebbe fatti comparire da un momento all’altro lì, davanti a lui come per magia. Il suo sguardo indagatore ebbe, però, solo l’effetto di intensificare il rossore sulle gote di lei che spostò una ciocca dei suoi lunghi capelli scuri quasi a voler nascondere il viso. Quel gesto portò al suo naso un’ondata di profumo artificiale di shampoo alla lavanda. 
Arricciò leggermente il naso, non era quello l’odore che lo aveva catturato prima.

«Io sono Hinata» mormorò lei con la sua voce delicata.

«Io sono…».

Il Numero Nove.

La Volpe.

«Io sono Naruto» affermò deciso indicandosi il petto con il pollice.

Aveva ripetuto quella frase così tante volte ai suoi carcerieri da perdere il fiato, la urlava ogni volta che si riferivano a lui come un numero o come “la Volpe”. Naruto non ricordava nulla degli anni che avevano preceduto la sua prigionia – talvolta dubitava perfino che fosse esistito un tempo prima di quell’inferno, il suo unico ricordo era il suo nome e si era aggrappato ad esso con tutte le sue forze come ultimo appiglio alla realtà. Ma loro non lo ascoltavano mai, così come non rispondevano mai alle sue domande. 
Perché era lì? Perché lui? Cosa gli stavano facendo?

Cercò di mettere immediatamente su un sorriso che sperava essere rassicurante, aveva sicuramente spaventato la povera Hinata con i suoi atteggiamenti da strambo. Sapeva però che non sarebbe servito a molto, le cicatrici sulla sua faccia indebolivano decisamente il suo tentativo e lui era fin troppo consapevole di come le persone reagivano alla sua faccia deturpata. 
Era a Konoha da più di un anno ormai, aveva alcuni amici che si sforzavano sempre di fare finta di niente o di non guardarlo troppo a lungo, altri lo fissavano sempre con una pietà immotivata – nessuno conosceva davvero la sua storia; ma la maggior parte delle persone inconsciamente si teneva alla larga da lui, quasi come se le sue cicatrici fossero un muto campanello d’allarme che indicava pericolo e invitava tutti a tenersi a debita distanza.
Da quella ragazza non si aspettava niente di diverso, anzi si chiese come mai non fosse ancora scappata urlando o, più realisticamente, come mai non avesse ancora inventato una qualsiasi scusa per girare i tacchi e andarsene. 
Ma Hinata aveva ricambiato il suo sorriso e quando lui incrociò i suoi occhi sotto la sua frangia folta non poté fare a meno di restare stupito. 
Erano limpidi, chiari, bellissimi e dentro non vi trovò né pietà né diffidenza. Non lo scrutavano nemmeno con disprezzo come facevano le sue guardie e non erano terrorizzati come quelli di chi si era occupato dei suoi pasti. 
Non aveva mai visto degli occhi come suoi che, sereni e tranquilli, sembravano perforargli direttamente l’anima. 
Senza capire pienamente il motivo, il suo sorriso si allargò.

 

.

.

.

 

La prima cosa che aveva imparato di Hinata era con quanta facilità riusciva a parlare con lei. 
La corvina non parlava molto di sé, ma gli aveva raccontato di sua sorella minore con così tanto amore nella sua voce da procuragli una fitta all’altezza dello stomaco e gli aveva confidato i continui litigi con suo cugino, uno dei quali era stato la causa della sua piccola fuga improvvisa nel parco abbandonato. 
In cambio non aveva chiesto nulla di lui. Sembrava quasi leggergli nel pensiero e non una sola volta aveva tentato di cavargli qualche informazione, nemmeno per mera curiosità. 
I loro restavano perlopiù discorsi leggeri e senza un senso preciso, ma lei lo ascoltava sempre attenta e sorrideva di fronte a tutte le assurdità che uscivano dalla sua bocca. E lui, senza rendersene realmente conto, la inondava con la sua parlantina ­– “Lo sai cosa sarebbe davvero bello? Una luna quadrata!” – con una domanda stupida dietro l’altra ­– “Perché la ciambella alla vaniglia che hai preparato si chiama ciambella e non… salvagente alla vaniglia, per esempio?” – come qualcuno che scopre finalmente di poter parlare a ruota libera per la prima volta. 
Ad Amegakure Naruto aveva una stanza piccola, grigia e umida, non aveva finestre fatta eccezione per l’apertura nella porta, ricoperta di sbarre di ferro grosse come bracci. Da lì riusciva a vedere il lungo corridoio scarsamente illuminato e le altre stanze. Ne aveva contate altre otto oltre la sua e solo una era vuota. Una delle guardie gli aveva fatto intendere che il prigioniero Numero Otto fosse morto prima del suo arrivo, ma aveva sentito menzionare da qualcun altro la fuga del Polipo, che a quanto pare aveva distrutto tutto il piano inferiore. 
Naruto aveva riposto tutte le sue speranze nella possibilità di poter scappare ma il trascorrere del tempo aveva messo a dura prova il suo ottimismo, e lui aveva semplicemente finito col pensare di aver capito male. 
La stanza che era stata del Polipo e che si trovava esattamente opposta alla sua, dopo alcuni giorni fu occupata dal prigioniero Numero Sei o da come si riferivano a lui le guardie, la Lumaca
Non aveva mai capito la logica dietro la numerazione dei prigionieri né perché avessero quella specie di soprannomi tutti legati al regno animale, forse – aveva pensato – perché ai loro occhi non erano altro che bestie, cavie che avevano smesso di essere persone una volta messo piede lì dentro.
La Lumaca, da quello che riusciva a vedere, era un uomo alto e magro, con i capelli che gli coprivano la maggior parte del volto. Qualcosa doveva essere andato storto sin da subito con lui perché sentiva chiaramente i suoi conati di vomito almeno tre volte al giorno quando era nella sua stanza.
Quella di fianco alla sua, invece, era stata occupata per pochissimo tempo dalla Numero Sette o lo Scarabeo; una ragazza dalla carnagione bronzea, occhi sporgenti, con pochissimi capelli corti e decisamente troppo magra – aveva costatato un giorno in cui era stata prelevata. 
Qualsiasi supplizio le stessero infliggendo non durò a lungo. 
Fu la prima a morire e il suo posto fu subito occupato dal prigioniero Numero Uno o il Tasso. Era un ragazzo dai capelli rossi, fronte larga e con delle occhiaie così scure da sembrare due grossi lividi. Dopo molti tentativi era riuscito a parlare con lui ed era venuto a conoscenza del Numero Tre, la Tartaruga – un bambino con una cicatrice lunga dall’occhio fino al mento – e del prigioniero Numero Quattro, la Scimmia – di cui non aveva sentito un lamento neanche una volta. 
Il secondo ad andarsene fu il Numero Cinque, il Cavallo. Aveva sentito discutere le guardie della sua corporatura incredibilmente grossa che per sua sfortuna però non aveva retto. 
Fu seguito subito dopo dalla prigioniera Numero Due, la Gatta. Era alta e bionda ,e prima di essere catturata, doveva essere stata sicuramente una donna bellissima ma quel calvario l’aveva consumata e resa più simile ad uno spettro che ad un essere umano. 
Naruto aveva combattuto, aveva cercato di ribellarsi in ogni modo ma era solo servito a procuragli ulteriore dolore. Non avevano funzionato né i graffi, né i calci, né i pugni, né le grida e dopo ogni notizia di una nuova “scomparsa” si sentiva sempre più debole, perso e vuoto come imprigionato in un corpo che sarebbe morto a breve. 
La notte restava sveglio chiedendosi continuamente se c’era qualcuno lì fuori che era preoccupato per lui, se quel qualcuno lo stava cercando, se sentiva la sua mancanza. 
Tutto quello che desiderava era una famiglia e una casa, voleva indietro la vita che gli era stata rubata e il futuro che non avrebbe mai avuto. 
Di tanto in tanto, quando non c’era nessuno con cui parlare, ripeteva tra sé e sé il suo nome come un mantra; aveva spiegato al suo vicino, il prigioniero Numero Uno, che quello era l’unico ricordo che aveva, l’unica cosa certa che sapeva e non avrebbe permesso a nessuno di portargli via il suo ultimo pezzo di umanità. 
Durante una delle notti in cui le guardie sembravano più distratte del solito, il Tasso gli aveva detto che non ricordava il suo nome come lui, ma che ricordava il volto di suo fratello e di sua sorella. Con un sussurro fioco gli aveva rivelato che rimaneva sveglio ogni notte per loro, che aveva paura di dimenticarli ogni volta che chiudeva gli occhi.

 

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Dopo aver divorato tutti i biscotti alla cannella la prima volta che si erano incontrati, il pomeriggio seguente Hinata gliene aveva preparati una scatola piena. D’ istinto lui l’aveva abbracciata con così tanto impeto da sollevarla da terra e le orecchie di Naruto si erano riempite della risata di lei. 
Sempre più spesso lei gli portava un dolce nuovo da fargli assaggiare e anche se non erano esattamente il suo piatto preferito, lui spazzolava sempre via tutto, ripetendole in continuazione di considerare la carriera di pasticcera. 
In cambio lui le regalava ogni volta un fiore diverso, cercando di indovinare il profumo di quelli che aveva sentito la prima volta che l’aveva vista. Ancora non li aveva trovati, ma Naruto non si perdeva d’animo. In parte, quella era diventata la sua missione segreta, ma era anche una scusa per vederla sempre più spesso. 
Hinata era il suo angelo personale e ogni volta che la sfiorava per caso guariva un po’ di più. 
Quando era con lei, piano piano, quegli anni da incubo e l’infinita sofferenza che li aveva accompagnati iniziavano a passare in secondo piano.


Le giornate di Naruto ad Amegakure seguivano una routine tanto semplice quanto distruttiva. 
A prelevarlo dalla sua stanza erano sempre in due, non erano sempre gli stessi ma indossavano tutti lo stesso camice con la nuvola rossa sul taschino, che lui aveva scambiato erroneamente la prima volta per una macchia di sangue – ma era allo stesso modo inquietante. Insieme raggiungevano l’ascensore alla fine del corridoio che collegava il suo piano agli altri fino ad arrivare a quelle che lui chiamava “le stanze bianche”. 
In verità non sapeva quale fosse il colore reale di quelle stanze, ma le luci al loro interno erano così forti e accecanti che non era mai riuscito a vedere nient’altro. Per prima cosa veniva immobilizzato, di solito su superfici lisce e dure, con delle cinghie di cuoio regolabili, dopodiché gli veniva iniettato un liquido rossastro dalla densità sempre diversa. 
Da lì in poi ricordava solo il bruciore e il dolore sordo. Considerava una gentilezza da parte del suo cervello non riuscire a registrare tutti i dettagli di quello che succedeva lì dentro. 
Alla fine veniva trascinato di peso nella sua cella ancora agonizzante; a volte sentiva la testa esplodere tanto da desiderare di poter essere in grado di staccarsela dal resto del corpo, altre volte sentiva tutte le ossa e i muscoli fargli male come se gli si fossero stati prima strappati uno ad uno e poi riattaccati. 
Non capiva lo scopo finale di quel tormento se non per il semplice divertimento dei suoi aguzzini. Col passare del tempo però, aveva iniziato a percepire gli effetti di quei trattamenti. 
Prima, i suoi sensi si erano affinati: sentiva l’odore delle guardie quando imboccavano il suo corridoio, riusciva a vedere anche quando la mancanza di luce non lo avrebbe permesso a qualsiasi essere umano, aveva imparato a distinguere la cadenza dei passi di ogni singola persona presente sul suo piano, gli era chiara al tatto ogni imperfezione dei muri che lo circondavano e distingueva chiaramente il sapore dei medicinali inseriti nei suoi pasti. 
Dovevano essere i risultati che speravano perché, quando l’uomo viscido dai lunghi capelli unti veniva come ogni mese a prelevargli il sangue, aveva iniziato a fissarlo con interesse. 
Dopo alcuni mesi aveva constatato le sue nuove capacità di ripresa. 
Le ultime cicatrici profonde erano state quelle sulla sua faccia e quelle che si diramavano come serpenti attorno al suo ombelico, dopodiché tutte le sue ferite avevano iniziato a guarire più velocemente e meglio. 
Aveva sentito una nuova energia fluire dentro di sé, ma più il suo corpo reagiva positivamente ai trattamenti a lui riservati, più frequenti erano le visite alle stanze bianche. 
Il terzo cambiamento riguardò la sua forza. Sentiva di avere la potenza per poter alzare intere montagne o di abbattere edifici. Aveva provato con i muri della sua stanza ma non c’era riuscito subito. Le sue guardie erano aumentate e mano a mano anche gli uomini in camice bianco. La settimana prima della sua fuga c’erano volute sei persone per prelevarlo dalla sua stanza. 
Infine era arrivata la rabbia
La percepì gradualmente scorrere in ogni singola fibra del suo essere come linfa vitale. 
Era arrabbiato perché non sapeva come uscire da lì, era arrabbiato per tutto il dolore che gli era stato inflitto ed era arrabbiato perché sentiva che quello era l’unico sentimento che gli era rimasto. Sentiva crescere la furia ogni momento e sfuggire sempre di più al suo controllo. 
Il giorno in cui non vide il Tasso, l’unica parvenza di amico in quel luogo infernale, fare ritorno nella sua stanza qualcosa scattò dentro di lui e non riuscì più a trattenersi. 
Successe tutto molto velocemente e in maniera così confusionaria che ancora tutt’ora non era riuscito a ricostruire la cronologia degli eventi. 
Quel che sapeva era che c’era stata un’esplosione e che l’aveva causata lui – aveva sentito il boato e le grida, sapeva che la sua rabbia si era esaurita in un istante come polvere da sparo e che un uomo dai lunghi capelli bianchi lo aveva afferrato. 
Non ricordava come si fosse ritrovato fuori dall’edificio che lo aveva tenuto prigioniero per tanti anni, ma ricordava che era grazie a quell’uomo. 
Il suo nome era Jiraiya e continuava a scusarsi per qualcosa che Naruto non capiva. Parlava troppo velocemente e lui ricordava solo degli sprazzi del suo discorso. Aveva menzionato un certo Progetto Decacoda, gli esperimenti condotti dall’esercito per creare un’arma umana definitiva, gli aveva parlato dei suoi genitori morti nel tentativo di salvarlo e di lui stesso che non era riuscito a proteggerlo. 
Gli aveva urlato di scappare, di nascondersi e di non guardarsi mai più indietro. 
E Naruto aveva eseguito il comando, lasciandosi dietro Jiraiya che correva nella direzione opposta alla sua. 
Si era inoltrato nei fitti boschi che circondavano il confine del Paese del Fuoco ed era riuscito a far perdere le tracce di sé. Aveva trovato nella sovrappopolata Konoha un’ottima città in cui nascondersi e cercare di venire a patti con quello che era diventato: un mostro.

 

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La seconda cosa che aveva imparato di Hinata era stata la sua tenacia. 
Il giorno in cui si era fatto coraggio e le aveva raccontato il suo passato l’aveva vista arrabbiarsi per la prima volta in vita sua. 
Gli aveva urlato tra le lacrime che in tutta quella faccenda non era lui il mostro, che non doveva sentirsi come tale e che ai suoi occhi non lo sarebbe stato mai. Gli aveva infine sussurrato che lui era in grado di controllare la sua rabbia con una tale fermezza che anche lui ci aveva creduto. 
Aveva così messo in pratica ogni tecnica di meditazione conosciuta, aveva eseguito alla lettera ogni esercizio per contenere la sua forza, mentre lei incitava i suoi progressi e lui si beava della sua compagnia. 
Come avrebbe mai potuto dire ad Hinata che lei era davvero il suo angelo e che insieme a lei ritornava a sentirsi più umano di quanto fosse mai stato? 
Da quando l’aveva conosciuta era divenuto fin troppo facile dimenticarsi in cosa era stato trasformato, quando invece poteva concentrarsi sulla morbidezza dei suoi capelli o sul modo buffo in cui ogni tanto abbassava gli occhi quando sorrideva. 
Ma dimenticarsene era stato uno sbaglio che non avrebbe mai dovuto concedersi.
Il giorno in cui li aveva percepiti arrivare, Naruto aveva finalmente regalato ad Hinata i fiori che aveva per tanto tempo cercato. 
Con il cervello offuscato dall’agitazione aveva lasciato il mazzetto di viole e margherite tra le sue mani e l’aveva implorata di andarsene. Ma con suo sommo terrore non aveva potuto nulla contro la sua cocciutaggine. Non aveva ancora fatto in tempo a convincerla che erano stati subito raggiunti da loro
Il leader, che sembrava essere un uomo dai folti capelli neri, aveva intimato i suoi sottoposti di catturarlo vivo e di preparare i sedativi. 
In quel momento il panico aveva preso il sopravvento. Irrazionalmente non aveva avuto paura di ritornare alla sua vecchia cella o di quello che ne sarebbe stato di lui una volta catturato; aveva paura di non riuscire a mettere in salvo Hinata e la sua intera esistenza sarebbe stata dannata se anche un solo capello le sarebbe stato torto. 
La rabbia prese il posto del panico e il controllo che aveva mantenuto così saldamente sfumò in un attimo. 
Le sue pupille nere iniziarono a dilatarsi, gli occhi si iniettarono di sangue, crollò sui propri avambracci sotto il peso della sua schiena che si distorceva, la bocca si deformò intorno ai suoi denti digrignati, la pelle già arrossata si spaccò in più punti, il suo sangue pompava al doppio della velocità e le sue mani erano già ricoperte da grosse bolle rosse. 
Sapeva cosa avrebbero visto tutti, sapeva quello che avrebbe visto lei.

Un animale.

Un demone.

Un mostro.

In qualche istante avrebbe perso completamente il controllo, lui sarebbe diventato preda facile dei sedativi e nessuno di loro, allo stesso tempo, sarebbe stato al sicuro dalla sua furia cieca, inclusa Hinata. Pregò con tutto sé stesso che lei avesse compreso quello che stava per succedere, che stesse scappando. 
Ma alzando gli occhi vide il suo corpo minuto erigersi davanti a lui con braccia e gambe spalancate, come uno scudo umano.

Lei era Hinata.

Era il suo angelo in un mondo di mostri.

Era il suo momento di pace in un mondo di caos.

Era l’umanità che credeva di non avere.

Era Hinata. Solo Hinata. Sempre Hinata.

La bestia dentro di lui emise un suono gutturale terrificante. Con l’ultimo briciolo di lucidità la racchiuse tra le sue braccia e riuscì a spostarla un attimo prima che uno dei sedativi li colpisse. 
Naruto sapeva di essere disgustoso, ma Hinata stava ricambiando il suo abbraccio allo stesso modo in cui aveva ricambiato il suo sorriso quando l’aveva conosciuta. 
Il suo tocco sulla sua guancia era fresco e rilassante.

Puoi controllarlo. Puoi combatterli.

Dopo tanto tempo passato a credere di essere morto, il suo tocco lo faceva sentire vivo e il magma che ribolliva dentro di lui pronto ad esplodere, si placò con la stessa dolcezza con cui si diradano le nuvole dopo una tempesta.
Strinse la sua mano sulla sua faccia bollente.
Lui non era il numero Nove e non era la Volpe. Lui era Naruto.

Poteva controllarlo. Poteva combatterli.

 

.

.

.

 

Naruto non aveva più paura del mostro, del magma rovente dentro di sé. 
I ricordi tormentati di agonia e solitudine iniziavano mano a mano a sbiadire, sostituiti dai ricordi allegri di pomeriggi in un parco desolato che con la sola presenza di Hinata profumava di viole e margherite.

 



 

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Note aggiuntive:

Perché viole e margherite
Mentre scrivevo, ho avuto in testa per tutto il tempo l’immagine di un vulcano per descrivere Naruto e bazzicando sul web sono incappata in una bellissima immagine di viole e margherite alle pendici dell’Etna. Fiori bellissimi che sembrano delicati, ma sono in grado di crescere anche negli ambienti meno ospitali e li ho trovati perfetti per Hinata. 
(Avrei potuto usare la più famosa ginestra, ma ero già innamorata di quell’immagine).


Spero vi sia piaciuta

   
 
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