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Autore: avalon9    11/10/2017    0 recensioni
Mi chiamo Michael Scofield. Ero un ingegnere civile. Sono stato un carcerato. Sono evaso da due penitenziari di massima sicurezza e ho coordinato l’evasione di mia moglie da un altro carcere. Sono stato un fuggitivo e un ricercato. Sono stato un manipolatore e un approfittatore.
Chi è Michael Scofield? In sei flussi di pensieri, sulla scia di cinque parole impresse su una lapide, l’immagine di un uomo che non si riesce ad etichettare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Michael Scofield, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Auotre: Avalon9

Titolo: Identity

Genere: Introspettivo; Malinconico; Slice of live

Personaggi: Sara Tancredi Scofield; Michael Jr. Scofield; Lincoln Barrows; Lincoln Jr. Barrows; Fernando Sucre; Alexander Mahone

Altri personaggi: Michael Scofield (sempre presente nei pensieri)

Raiting: Arancione

In proposito: Mi chiamo Michael Scofield. Ero un ingegnere civile. Sono stato un carcerato. Sono evaso da due penitenziari di massima sicurezza e ho coordinato l’evasione di mia moglie da un altro carcere. Sono stato un fuggitivo e un ricercato. Sono stato un manipolatore e un approfittatore.

Chi è Michael Scofield? In sei flussi di pensieri, sulla scia di cinque parole impresse su una lapide, l’immagine di un uomo che non si riesce ad etichettare.

Disclaimer: Prison Break e i suoi personaggi sono del loro creatore Paul Scheuring per Aldestaine-Parouse

Note: one shot; missing moments; raccolta.

Cose: Qualcuno lo ha definito un inno all’ingegno umano. Non so se sia vero, ma Prison Break, fra i telefilm di intrattenimento, è certamente un esempio di narrazione particolare. Serrata; adrenalinica; a tratti davvero cinematografica. E ricorda anche un videogame. Non uno dei soliti picchia duro dove, per andare avanti, devi fracassare le teste di qualche zombie-demone-guerrigliero che ti si para davanti. No. Un videogame più simile ad una partita di Cluedo per via telematica; o a Dieci piccoli indiani shekerati per bene con qualche altro romanzo thriller-noir-giallo-fateunpo’voi.

È anche una serie maschile, Prison Break. Cioè. Nel senso che è d’azione e di azione vive. Nel senso che c’è molto cameratismo e, guarda caso, molti personaggi maschili (diciamo pure quasi solo personaggi maschili). Ho letto da qualche parte che Prison Break è lo show di Miller. E in un certo senso sono d’accordo. Perché l’ossatura della storia ruota attorno a Miller. O meglio: ruota attorno al suo personaggio, a Michael Scofield.

Che senza Miller non avrebbe avuto probabilmente quel carisma e quello sguardo; o quelle mani che ossessionano (sì: sono diventata una feticista di quelle mani. Problemi?) o il modo che ha di sollevare appena un angolo delle labbra, quando sorride. Ma tant’è che Miller ha presta il viso a Scofield. E forse allora sarebbe più corretto dire che Prison Break è lo show di Michael Scofield. Perché è lui che tiene banco. Punto. Per tutte e cinque le stagioni (film compreso).

E quindi, dopo essermi divorata la serie (che sì, che ci volete fare? Arrivo sempre in ritardo, io. Ma forse è stato meglio così. Primo: non ho dovuto restare in sospeso ad ogni cliffhanger delle puntare; e secondo. Secondo: l’ho visto che sono adulta. Grande. Perché quando era uscita, all’epoca, proprio proprio di primo pelo non ero, ma forse. Forse certe cose non le avrei capite. Non le avrei. Non so. Analizzate); quindi, dicevo, dopo essermi divorata le prime quattro serie e film annesso, ed essermi incamminata lungo la quinta, mi sono chiesta (sai che originalità): chi è Michael Scofield?

Chi è stato per chi l’ha conosciuto; chi è stato per chi conosciuto lo ha poco o per nulla. Chi è stato per Sara, per Lincoln, per L.J., per Sucre e per Mahone. E chi è stato per quel figlio che ha amato e non ha mai conosciuto.

L’idea c’era; lo stimolo si è concretizzato complice un fumetto di Batman che inizia proprio con la frase Gotham è…. Un gioco che ogni tanto viene fatto. E da lì sono partita. Da lì e da quella lista di identità incise su una pietra, nell’ultima scena della quarta serie. Quella che, se l’avessi vista a suo tempo, mi avrebbe lasciato un magone in gola peggio di quanto non sia successo. Perché era una fine ideale. Così dolceamara che sì, era l’ideale.

 

P.S.

L’ho scritta prima di iniziare la quinta serie, con nelle orecchie il trailer rilasciato da Fox sul primo episodio. E quindi la frase di Sara su Michael. E mi sono immaginata da lì il rapporto (non rapporto) fra Michael e suo figlio. Adesso che il primo episodio l’ho visto, so che il piccolo Michael ha una venerazione per quel padre mai conosciuto. E allora ho deciso di cambiare. Ma all’altra idea, a quella nata dalla mia fantasia, mi ci sono comunque affezionata. Ecco perché la troverete in calce. Come piccolo bonus.

 

 

 

 

 

 

 

 

Identity

 

 

 

C’è un gioco. Ogni tanto lo fanno sui giornali.

Un gioco stupido; ma chissà per quale motivo piace sempre tanto. Forse perché ti puoi sbizzarrire; forse solo perché puoi sparare le cazzate più grandi che ti passano per la testa. Forse perché puoi provare a fare lo splendido, anche quando quello che scrivi è la più grande delle ovvietà.

Ma è un gioco. E piace. Punto.

Ed è stupido. Perché solo degli stupidi si fissano su una frase “Xyz è…?”.

Perché il gioco sta tutto lì. Riassumere in una parola cosa sia quel xyz di turno. Persona, animale, cosa, luogo o altro che possa essere, che cada sotto le grinfie di uno stupido gioco.

Come se l’identità di qualcuno fosse una parola; come se qualcuno lo potessi rinchiudere, in una parola. E in realtà ci riesci. Ci riesci sempre a trovare un parola, un aggettivo, un verbo che la etichetti, una persona.

E poi scopri che di etichette gliene puoi affibbiare tante. Ma davvero tante. A volte belle; altre brutte. Altre volte sono etichette che nemmeno tu capisci, e ti trovi a chiederti da dove sia uscita una certa idea di una certa persona.

A volte scopri che quelle etichette, quelle che non sempre capisci, le hanno affibbiate proprio coloro che meglio conoscono la persona, animale, cosa, luogo o altro che sia che hai sbattuto sulle pagine di un giornale. Giusto per farti quattro risate delle cazzate che qualcuno dirà.

Ma quando succede. Quando succede che davvero qualcuno quel gioco lo faccia seriamente; quando succede che la domanda cada sotto gli occhi di chi quel gioco lo prende sul serio, lo prende sul personale, allora. Allora ti ritrovi a sbattere contro qualcosa di strano; di complesso. Forse anche di assurdo.

E vorresti avere fra le mani la persona animale cosa luogo o altro che sia per chiedergli direttamente quale sia la risposta giusta. E per scoprire che forse una risposta giusta non c’è.

Perché sì. È un gioco stupido. Perché solo gli stupidi chiedono “Xyz è…?”. Ma a volte anche gli stupidi sono dei geni.

E se la fai alle persone giuste, nel momento giusto, una domanda stupida diventa la chiave per una persona animale cosa luogo o altro che non hai mai voluto guardare.

E ti ritrovi a pensare che sì, come gioco è una stronzata. Ma per fortuna che qualcuno l’ha fatta, quella stronzata. O non ci avresti mai pensato davvero su, a quella persona animale cosa luogo o altro che sia.

 

 

 

# Marito

Chi è mio marito?

Davvero lo volete sapere? Proprio adesso? Perché adesso, vorrei chiedere.

E mio marito è anche questo. È una domanda che risponde a un’altra domanda. O almeno all’inizio è stato così. Credevo scherzasse; credevo ci provasse e basta. Credevo. Non lo so. Che mi prendesse in giro. Perché non mi rispondeva mai sul serio; perché non mi diceva mai qualcosa che non fosse una bugia o il silenzio.

Ho imparato da lui a rispondere ad una domanda con un’altra domanda. Ho imparato anche da lui a non fidarmi.

Perché al mondo di cose belle ce ne sono poche, e quelle poche devi essere pronto a combattere per tenertele strette.

Ecco chi è mio marito. Un uomo che non si arrendeva. Mai. Davanti a niente. Anche quando sapeva di avere perso; anche se sapeva che rischiava la vita in cambio di una speranza.

Era un uomo egoista, mio marito. Un grande egoista. Perché aveva il cuore più grande del mondo, e te lo lasciava fra le mani con l’ingenuità di un bambino.

Ed era intelligente; tanto intelligente. E per questo a volte si comportava da stupido. A volte sembrava che la sua intelligenza lo isolasse da tutti, e allora faceva qualcosa di stupido.

Anche se non se ne accorgeva.

Come cercare di farmi ridere quando la situazione era brutta. Tanto brutta. Come raccontarmi che tutto sarebbe andato bene, che saremmo stati bene, anche se mi stava morendo fra le braccia.

Era anche malato, mio marito.

Ed era così egoista e così intelligente che era disposto a morire prima di farsi salvare. Perché aveva in mente solo una cosa: noi.

Io; suo figlio; suo fratello. E la libertà.

Mio marito era ossessionato dalla libertà. Forse perché era convinto di non meritarsela; forse perché l’aveva rincorsa, l’avevamo rincorsa così a lungo che ormai ci sembrava solo un miraggio.

Se l’ho amato, chiedete? L’ho sposato.

E poi ho accettato di lasciarlo andare; ma non l’ho dimenticato.

E sì, l’ho amato. Quando l’ho incontrato per la prima volta, mi è piaciuto. Quando l’ho conosciuto, mi ha affascinato. Quando l’ho spostato l’ho amato.

Forse. Se ci fossimo conosciuti diversamente; se avessimo avuto esperienze diverse. Non lo so. Forse non lo avrei amato; forse non lo avrei spostato. Ma mi piaceva. Mi piaceva come fosse. Perché era diverso. Stonava. In mezzo a tutti gli altri, lui stonava. E mi ha attirata anche per questo. L’ho amato anche per questo.

Era un uomo buono, mio marito.

Un uomo che non si vergognava a piangere contro il mio ventre; un uomo che mi abbracciava senza dire niente e mi faceva vedere tutto il suo dolore e la sua incertezza. Tutta la sua debolezza.

E sarebbe stato un buon padre; voleva essere un buon padre. Ma non ha potuto provarci. Provarci davvero. Tenendo suo figlio fra le braccia.

È morto. Facendo quello che un uomo, un marito, un padre fa. Proteggendo me e suo figlio. È morto da egoista; perché era troppo buono e aveva sofferto troppo.

Ecco chi è mio marito: un uomo. Solo un uomo.

Il migliore che potessi incontrare.

 

 

 

 


Due cose ancora. Ma proprio due.

Ho scelto di partire da Sara perché. Perché semplicemente è suo, il primo ruolo sulla tomba di Michael. È lei la moglie cui il destino ha tolto subito il marito.

E sì: non c’è nessun errore nei tempi. Ho voluto passare più e più volte fra passato e presente. Perché anche se Michael è morto, per Sara resta comunque l’uomo che ha amato. E a modo suo continua ad amare. Quindi Michael è. Non solo è stato. Il suo comportamento è stato. Quello che è è. Anche se è morto. Forse proprio perché è morto. Un po’ come se si fosse posto fuori dal tempo.

E niente. Mi eclisso.

A mercoledì prossimo!

  
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