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Autore: Napee    12/10/2017    7 recensioni
***Questa one shot partecipa al contest di Halloween indetto sul gruppo Facebook Efp famiglia: recensioni, consigli e discussioni***
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Frugò alla cieca attorno a sé, cercando spasmodicamente un qualcosa che avesse potuto aiutarlo a vedere in quell’oscurità, mentre già l’ansia andava a stringergli i polmoni in una morsa crudele.
L’aria pareva non bastargli più e continuava ad annaspare rumorosamente come se stesse soffocando.
Si alzò improvvisamente mentre il panico più nero già si era impossessato del suo corpo.
Ruzzolò in quel groviglio informe di coperte sozze e barcollò seguendo il muro finché non riuscì a sentire l’infisso.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Smile


Prompt:  Un serial killer e le sue spiegazioni 
parole: 4819



La pioggia battente sferzava il terreno con violenza, dissetando il manto erboso fin quasi ad affogarlo.
Gli alberi erano ricurvi, piegati dalla maestosa forza del cielo che, di tanto in tanto, squarciava il buio con lampi di luce.
Le ruote dell’auto arrancavano nel fango che ormai inglobava la strada e l’acqua impediva una corretta e sicura visuale.
Hikaru gettò l’occhio fugacemente sull’orologio del navigatore posizionato sul cruscotto.
Erano già le sette di sera, ma dall’oscurità avvolgente che lo circondava pareva mezzanotte. Scese con lo sguardo e constatò il breve tragitto che lo separava dalla sua meta.
Circa cinquecento metri e sarebbe infine giunto nel carcere penitenziario di massima sicurezza che sorgeva in quelle campagne desolate dimenticate da Dio.

L’imponente muro di cemento armato, incoronato con del filo spinato arrugginito, si stagliava fiero dinnanzi ai suoi occhi, vestito soltanto con qualche scritta ingiuriosa. Volgari parole rosse come il sangue, di cui ormai non si riusciva più a capirne il significato tanto erano sbiadite.
Si appropinquò verso il cancello ferroso ed abbassò leggermente il finestrino per poter parlare con la guardia che stanziava all’ingresso in un’angusta costruzione in cemento di quattro mura decisamente troppo vicine fra loro perché una persona non si sentisse soffocare all’interno.
La figura impallidita di un uomo in uniforme che tremava come una foglia, fu la prima immagine che vide attraverso il vetro bagnato con le lacrime del cielo.
Le mani spasmodicamente strette attorno ad un fucile, la schiena premuta contro il muro più lontano da lui ed un cesto di frutta, matura ed invitante, che svettava sulle sue cosce tremanti.
Hikaru corrugò le sopracciglia confuso da quella scena inusuale, ma decise di non indagare oltre.
“Salve, sono Hikaru Matsumoto e sono-…”
“Che ci fa in un posto come questo a quest’ora? Non l’hanno avvisata di non venire quando il sole è calato?” lo interruppe la guardia bruscamente, fiondandosi verso di lui con fare concitato.
Strano, fu la prima parola che attraversò la mente di Hikaru.
Quell’uomo era davvero fin troppo strano, anche quella stupida regola di non raggiungere la prigione di sera era insensata, ma, in un primo momento, non vi aveva porto particolarmente attenzione.
“Sì… mi avevano avvisato di questo particolare, ma a causa della pioggia non sono riuscito a rispettare gli orari che mi erano stati imposti.” Si giustificò prontamente estraendo il portafogli ed esponendo la sua carta d’identità al poliziotto, con tanto di permesso per poter visitare la detenuta.
“Va bene. Si sbrighi ad entrare, parcheggi vicino ai furgoni della lavanderia e raggiunga velocemente l’interno dell’edificio, troverà un’altra guardia che la scorterà in un posto sicuro.” Rispose frettolosamente l’agente, smanettando con dei pulsanti alla sua destra.
Il cigolio inquietante del cancello dinnanzi a lui, lo avvisò che quel pezzo di ferro e ruggine si era infine aperto. Sarebbe stato un miracolo se non gli fosse ricaduto addosso alla macchina mentre attraversava la soglia.
“Posto sicuro?” ripeté confuso Hikaru.
“Ma di che sta parlando?”
“Non c’è tempo adesso, le verrà spiegato tutto poi. Adesso si sbrighi ed entri prima che richiuda il cancello!” sbraitò l’uomo stringendo più forte il fucile contro il petto.
Hikaru si soffermò ad osservare le mani dell’agente ed il loro continuo tremore,  ma la presa salda sull’arma persisteva, anzi si face sempre più intensa finché le stesse nocche non sbiancarono.
Senza indugiare oltre, ingranò la prima e si addentrò nel parcheggio del carcere come gli era stato animatamente ordinato.
Parcheggiò l’auto fra il furgone della lavanderia e quello della mensa, poi recuperò la valigetta con il computer e se la strinse al petto sotto la giacca per evitare che si bagnasse.
Scese dall’auto di gran furia, correndo fra le gocce d’acqua che gli offuscavano la vista e gli scendevano sulla pelle e sui vestiti.
Imboccò l’ingresso del palazzo,  riparandosi momentaneamente sotto una piccola tettoia improvvisata.
Suonò al citofono che svettava alla sua sinistra e subito un agente accorse ad aprirgli per farlo entrare.
“Presto, si sbrighi, non c’è tempo per girare troppo stasera!” esordì l’uomo concitato, mentre la fatica della corsa gli spezzava il fiato e gli imperlava la fronte.
Hikaru lo seguì subito in silenzio, studiando quella situazione strana e guardandosi intorno curioso, cercando quel pericolo imminente dal quale volevano proteggerlo, ma di cui ignorava completamente l’esistenza.
Girò la testa verso l’ingresso, cercando di scrutare i due furgoni ormai in lontananza e la sua auto fra di essi, attraverso il buio e l’acqua battente.
D’improvviso, un lampo illuminò la notte a giorno, permettendogli di vedere una donna con i capelli neri imperlati di pioggia davanti alla sua auto.
Lo guardava con un sorriso innaturalmente largo ed inquietante, mentre ciocche color pece le ricadevano sul viso celandone i lineamenti.
Si fermò all’istante, Hikaru, facendo qualche passo indietro per avvicinarsi all’ingresso.
La donna stanziava ancora sotto l’acqua, ormai zuppa fradicia, indossava una veste chiara, forse una camicia da notte, chiazzata con macchie rosse.
Le braccia erano costrette attorno al corpo da una camicia di forza, mentre le gambe erano nude e libere come i piedi fangosi.
“Aspetti!” Richiamò l’agente.
“C’e una donna fuori!”
Di rimando, il poliziotto lo strattonò per un braccio invitandolo malamente a seguirlo.
“Non la guardi!” Tuonò allarmato, squadrandolo con gli occhi fuori dalle orbite.
“Ma ha del sangue addosso, potrebbe essere ferita!”
Un altro lampo squarciò il cielo e la figura della donna era inspiegabile sparita nel nulla.
“Non la guardi mai! Per nessun motivo! E non le si avvicini!”
Hikaru non era mai stato bravo a leggere le persone o il loro stato d’animo, ma il terrore puro che era dipinto sul volto dell’agente fu incredibilmente evidente.
Tacque, Hikaru.
Il silenzio regnava padrone fra quel dedalo di corridoi bui e stretti che distinguevano la prigione.
La puzza di chiuso era penetrante e l’acre odore di muffa gli bruciava le narici fin quasi ad occludergli la gola.
Non filtrava luce in quelle tenebre e solo la memoria dell’agente lo guidava attraverso quell’oscurità impenetrabile.
Il fragore dei tuoni gli arrivava ovattato alle orecchie, filtrando attraverso gli spessi muri e scuotendoli come se vi fosse un terremoto in corso.
“Entri qui!” Berciò la guardia, aprendo un portone cigolante e spintonandolo dentro di malagrazia.
“Mi vuole dire che cazzo sta succedendo?” Imprecò furiosamente, rovinando sulle ginocchia a causa dello strattone.
La porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo sordo ed il silenzio inghiottì quella sua domanda.
Nessuna risposta giunse alle sue orecchie, solo il respiro ansante della guardia dietro di sé che cercava di riprendere fiato.
“La… detenuta…” ansimò l’uomo mentre il rumore di un fruscio riempiva il silenzio.
D’improvviso, una fioca luce nacque fra le mani dell’agente, per poi accendere una debole candela contro quel buio infinito.
La fiamma tremolò visibilmente a causa del fiato corto dell’agente, ma non si spense.
Il rumore di un fiammifero che veniva spezzato attirò l’attenzione di Hikaru.
Si voltò e dietro di lui, altre tre candele vennero accese da altrettanti agenti.
“Non è… umana…” finì di parlare l’uomo, accasciandosi a terra esausto.
Hikaru corrugò le sopracciglia scettico.
Lo stava prendendo in giro?
“Cosa?” Chiese scettico senza riuscire a trattenere l’irritazione.
“Mi state prendendo in giro?”
“No… assolutamente.” Rispose l’agente vicino alla porta.
“Quella donna… è un… mostro.”
Hikaru corrugò le sopracciglia e strinse le labbra in una smorfia dura e severa.
Quegli agenti si stavano prendendo gioco di lui, tutta quella serata era una mera messa in scena ispirata ad uno dei suoi romanzi. Indubbiamente era così.
“E vi aspettate che vi creda?” Chiese sprezzante, sfoggiando un sorrisetto canzonatorio.
“Fatemi indovinare, non c’entra niente il fatto che io sia uno scrittore di thriller, vero?”
“No! Non stiamo scherzando!” Berciò l’agente concitato.
“Non è una messa in scena, è tutto vero! L’ha vista anche lei là fuori!”
“Potrei averla vista o magari il mio cervello mi ha giocato un brutto scherzo a causa di tutta questa tensione.”
L’agente lo guardò confuso, senza capire perché lo scrittore si rifiutasse di credere a ciò che aveva realmente visto.
“Senta, Signor Waine, mi dispiace se è voluto venire fino in Texas per il suo nuovo libro e si è ritrovato nel bel mezzo di questa situazione, ma sappia che non voglio che lei ci rimetta la vita.” Fece una pausa, portandosi la mano stancamente a coprirsi gli occhi, quasi come se volesse impedirsi di ricordare.
“Troppi…” bisbigliò fra sé e sé. “Troppi uomini se ne sono andati per colpa sua. Ho già seppellito troppi amici…”
Hikaru lo scrutò scettico, abbozzando un sorriso derisorio ed irriverente.
“È anche un pessimo attore.” Decretò infine passandosi una mano fra i capelli scuri zuppi d’acqua.
“Non mi interessa se non mi crede, io l’ho già messa in guardia!” Sbottò infine l’agente, stringendo i pugni con rabbia.
Hikaru osservò attentamente quella reazione istintiva, quanto esagerata, cercando di trattenere un risolino di scherno.
“Va bene, va bene… facciamo che vi credo.” Sospirò stancamente assecondando quella pantomima.
“Secondo la vostra idea, la detenuta che devo incontrare sarebbe un mostro cattivo che vuole farci tutti fuori.”
“è così!” rispose concitata una guardia alle sue spalle.
“Certo, certo…” lo liquidò bruscamente Hikaru, con un gesto  annoiato della mano.
“Quando posso incontrarla  senza rischiare la vita?”
“Domani mattina la scorteremo nella stanza degli interrogatori e potrà parlarci per almeno due ore.” Decretò infine l’agente massaggiandosi pigramente le tempie con aria stanca.
“È il primo che vuole incontrarla... Perché?” Esordì un’altra guardia dietro di lui.
Hikaru si voltò a guardarlo per rispondergli. Sembrava un ragazzino di sedici anni, sbarbato, con qualche brufolo di acne a macchiargli le guance.
“Sono uno scrittore che deve fare ricerche.” Rispose sbrigativo.
“Ma perché proprio questa detenuta?”
“Perché è l’unica donna ad essere detenuta in un carcere di massima sicurezza tutta sola. Se non sbaglio, a lei sono stati attribuiti più di trenta omicidi, tutti compiuti con il medesimo modus operandi.”
“Sì, è vero.” Annuì il giovane aggrottando le sopracciglia, mentre un’espressione di dolore, o forse rimorso, si andava a formare sul suo viso.
“Le vittime erano tutti uomini della stessa città. Li seguiva, tagliava loro la bocca da orecchio ad orecchio e poi, dopo ore di agonia, li sgozzava senza pietà.”
Hikaru ascoltò attentamente il racconto del poliziotto e ben presto, nella sua mente, si andò a delineare una domanda specifica che esigeva una risposta.
Dannata curiosità.
“Ha fatto lo stesso anche con le altre detenute?” Indagò, prendendo frettolosamente il portatile dalla borsa per annotarsi qualche appunto.
“Con alcune di loro… in realtà le ha solo sfregiate, aspettando pazientemente che si suicidassero da sole.”
“E le altre? Come mai lei è rimasta l’unica in tutto il carcere?”
“Sono tutte fuggite via perché non volevano morire!” Sbottò infine l’agente accanto alla porta, sbattendo il pugno a terra furibondo.
“Adesso basta parlarne. Scoprirà quello che le interessa domani, poi salirà di nuovo sulla sua macchina e se ne tornerà da dove è venuto!”
Hikaru lo scrutò con aria astiosa ed indignata per quel comportamento irriguardoso.
Prima gridava al pericolo, prendendolo deliberatamente in giro, e poi si rifiutava di spiegargli il perché di tanto allarmismo.
“Agente, starò qui finché non avrò tutte le informazioni che mi servono per la stesura del mio nuovo libro anche se non sono il benvenuto.” Rispose serio e risoluto, senza staccare gli occhi da quelli dell’uomo.
“Fa come ti pare…” borbottò in risposta l’agente contrariato da cotanta testardaggine.
“Non ho mai conosciuto un uomo che agognasse così tanto la morte.”
“Che mi dite di voi? Se credete che sia un mostro sanguinario, perché restate qui rischiando la vita per pochi spiccioli?”
Il silenzio inghiottì la sua domanda, lasciandola in sospeso senza risposta alcuna.
Le fiamme delle candele oscillavano leggermente ogni volta che un tuono squarciava il cielo, permettendogli di vedere di sbieco i volti degli uomini attorno a lui.
“Mio figlio era una delle vittime.” Esordì un poliziotto alle sue spalle ed Hikaru si voltò per guardarlo in faccia.
Era un uomo avanti con gli anni, una ragnatela di rughe gli decorava il viso. Ma ciò che attirò maggiormente la sia attenzione erano gli occhi, vuoti e stanchi, incorniciati da pesanti occhiaie scure.
Rimase in silenzio.
“Fu la sua ventinovesima vittima, aveva vent’anni.” Sospirò stancamente.
Non sembrava ammorbato dal dolore della perdita, pareva più come se stesse raccontando la storia di un tempo ormai lontano.
“Stava rincasando tardi quella notte, era stato trattenuto a lavoro e non era potuto uscire prima. Aveva iniziato da poco a lavorare in uno studio legale, era il mio orgoglio.” Un sorriso innamorato gli increspò le labbra giusto un attimo prima che venissero nuovamente tirate in una linea dura e severa.
Gli occhi dell’agente si incendiarono di colpo, animati da una furia latente e mai estinta.
“Quella puttana me l’ha portato via.” Sibilò fra i denti stringendo i pugni rabbioso.
“Non ho potuto fare niente, ma Dio me ne voglia se non impedirò ancora a quell’essere di uccidere!” Tuonò infine, mentre il rumore della pioggia battente riempiva quel silenzio pesante ed opprimente.
“Un’altra vittima, era mio fratello maggiore.” Parlò il giovane poliziotto nell’angolo, quello con l’acne sulle guance.
Hikaru annuì, annotando attento ma discreto ogni parola che gli agenti avevano confidato.
“Tutti qui abbiamo perso qualcuno di importante.” Esordì un altro agente, quello rimasto più in disparte, ammala pena illuminato dalla flebile luce della fiamma.
“Sentimenti di rabbia o vendetta ci legano a quel mostro, ma tutti abbiamo uno scopo comune: impedirle di fare ancora del male.”
“E lei? Chi ha perso?” Chiese Hikaru, incapace di tenere a freno la lingua.
Dannata curiosità.
L’uomo rise debolmente, pareva divertito dalla sua domanda.
“Me stesso.” Rispose enigmatico afferrando la candela più vicina a lui.
“Che vuol dire?” Chiese Hikaru, poi la luce illuminò interamente il volto dell’agente e fu costretto a tacere per non dare di stomaco.
Uno squarcio deturpava la parte sinistra del viso dell’uomo, allungandogli l’angolo della bocca fino alla tempia.
La carne era rattoppata alla bene e meglio intorno alla ferita dalla quale si potevano scorgere i tessuti muscolari in movimento e i denti.
Qualche cicatrice bianca svettava attorno alla tempia, dove i tessuti si erano rimarginati completamente.
“Sarei stato la sua trentunesima vittima.”

Hikaru svegliò di soprassalto, con la fronte imperlata di sudore ed il battito talmente accelerato che pareva quasi che il cuore volesse fuggirgli via dal petto.
Si guardò attorno intimorito e confuso, scoprendosi su un logoro materasso spoglio appoggiato a terra.
Il portatile giaceva spento, forse scarico, al suo fianco.
Le quattro mura in cemento che lo circondavano parevano volerlo stritolare fra di esse tant’erano vicine.
Solo una porta blindata svettava dinnanzi a lui, non v’erano altri infissi in quel luogo angusto.
Si alzò velocemente, avvinghiandosi a quell’unica uscita con fare disperato.
Sbatté il pugno sul freddo metallo, gridando a gran voce affinché qualcuno riuscisse a sentirlo e farlo uscire da lì.
“Apritemi, cazzo!” Imprecò in preda al panico, mentre scagliava un ultimo e disperato calcio.
D’improvviso, un rumore di chiavi dall’altro lato attirò la sua attenzione. Poi la serratura scattò e la luce del giorno illuminò i suoi occhi stanchi.
Uscì dalla stanza, spintonando malamente la giovane guardia dinnanzi a lui e si accasciò in ginocchio, respirando a pieni polmoni come se fosse la prima volta dopo anni.
“Tutto bene?” Chiese il giovane con voce tremante, mentre lo aiutava a rimettersi in piedi.
“S-sì… ma non chiudetemi più là dentro…” annaspò senza fiato poggiando la schiena contro il freddo muro in cemento grigio.
“Soffro di claustrofobia.” Spiegò laconico cercando di non cadere a causa del tremolio delle sue gambe.
“Scusi, non era nostra intenzione farla sentire male.” Esordì il giovane con aria mesta.
“Volevamo tenerla al sicuro finché non si fosse ripreso.”
“Ripreso? Che mi è successo?” Chiese confuso Hikaru, ricordando solo qualche fugace dettaglio del suo arrivo al carcere.
“È svenuto dopo aver visto il volto di Josh.” Spiegò il ragazzino allontanandosi da lui per riprendere un cesto di frutta invitante che giaceva poco lontano da loro.
Hikaru non ricordava nessun volto in particolare che lo avesse terrorizzato o disgustato abbastanza da fargli perdere i sensi, tuttavia lasciò perdere quell’interrogativo per concentrarsi sul cesto di frutta.
“Frutta?” Chiese curioso.
“La detenuta ne è ghiotta.” Spiegò il giovane agente indurendo la mascella.
Hikaru scrutò attentamente quel comportamento strano, ma non pose domande.
“Comunque, quando posso parlare con la detenuta?
Ed avrò bisogno di carta e penna mentre il mio computer sarà in carica.”
“Non c’è corrente in tutto il carcere, solo il cancello funziona ancora.” Rispose il giovane scortandolo in quel dedalo di corridoi.
“È andata via durante il temporale?”
“Non c’è mai stata da quando lei è arrivata.”

L’agente lo condusse attraverso quei corridoi infiniti, tutti uguali, senza nessun particolare che li contraddistinguesse affinché Hikaru potesse orientarsi un minimo.
Giunsero infine nella stanza degli interrogatori.
Il giovane agente gli porse il cesto di frutta ed estrasse il mazzo di chiavi tintinnante dalla tasca.
Lentamente infilzò la serratura. Una mandata. Due mandate.
“C’e una cosa che deve sapere…” esordì mordendosi il labbro inferiore a disagio, come se stesse cercando le parole giuste per metterlo in guardia.
“Ecco…” sospirò, passandosi una mano sul viso improvvisamente stanco.
“Non la faccia mai avvicinare troppo, se inizia a parlare giapponese non esiti ad uscire all’istante e le lanci la frutta, così non la inseguirà.”
Hikaru sgranò gli occhi sconcertato. Poi incredulo. Infine un ghigno derisorio gli increspò le labbra finché una fragorosa risata non gli gonfiò il petto.
“Guardi che sono serio.” Lo riprese il giovane senza celare la sua irritazione.
“Certo, certo… avete una fantasia incredibile qua dentro! Vi invidio, vorrei possederla io per scrivere romanzi meravigliosi!”
Il giovane agente sospirò stanco passandosi una mano fra i capelli.
“Può anche non crederci, non mi interessa, ma la prego di non ignorare i miei avvertimenti. Sarò qua fuori per ogni evenienza.”
“Sì, certo!” Esirdì Hikaru scarruffando i capelli della guardia.
Un'altra mandata e finalmente la porta si aprì.
L’agente prese dalla tasca il suo taccuino ed una penna, e la porse allo scrittore.
Senza attendere oltre, Hikaru gli sottrasse il tutto dalle mani e si addentrò nella stanza degli interrogatori portando con sé il cesto di frutta.
La luce, tenue e soffusa, proveniva da un agglomerato di cera squagliata dove in cima svettava una candela, il tutto posto sopra al tavolo in legno scuro e logoro.
Una grande finestra dal vetro oscurato troneggiava su una delle pareti. Probabilmente, lì dietro vi erano gli altri agenti che monitoravano la situazione.
Chissà perché tutto quell’allarmismo per una donna sola…
Gli occhi si soffermarono su quella figura ingobbita seduta alla sedia davanti al tavolo.
Una donna minuta e silenziosa si stagliava dinnanzi a lui. I lunghi ed unti capelli color pece le ricadevano sul viso, sulle spalle ricurve e sulla schiena stretta nella camicia da notte logora.
Le gambe erano nude, così come i piedi sozzi che poggiavano debolmente sul pavimento freddo.
A vederla così, una figura così triste, gli faceva pena e mai avrebbe pensato che fosse in verità una spietata assassina.
“Salve.” Esordì Hikaru prendendo posto dinnanzi a lei.
“Il mio nome è Hikaru Waine, sono uno scrittore e sono qui per intervistarla per il mio prossimo libro.”
La donna alzò lo sguardo su di lui, scrutandolo attentamente in silenzio.
I suoi occhi avevano un taglio allungato, orientali, grandi e molto espressivi.
La pelle della fronte era liscia e non presentava imperfezioni di sorta, né alcuna ruga. Solo la parte inferiore del viso rimaneva celata da una mascherina di carta bianca, simile a quella dei chirurghi.
“Signorina Tanaka, capisce quello che le sto dicendo?” Chiese sospettoso sporgendosi un pochino in avanti col busto.
La donna annuì debolmente in risposta, ritraendosi quasi come spaventata.
“È raffreddata?” Chiese l’uomo, indicandosi la bocca accennando alla mascherina di carta, ma la donna negò con la testa.
Strano. Fu il primo pensiero di Hikaru.
“Gradisce della frutta?” Chiese ancora, quasi come se volesse comprarla con quel cibo invitante. Dopotutto, a detta delle guardie, ne era ghiotta.
In risposta, la donna annuì ancora e quando Hikaru le porse il cesto, lei vi su avventò contro acciuffando quanti più frutti possibili con le mani scheletriche.
Pareva quasi che non mangiasse da mesi…
Con dita leste, sbucciò un arancio velocemente e si portò gli spicchi grondanti succo alla bocca, facendoli passare sotto la mascherina senza mai toglierla.
Quello strano comportamento insospettì Hikaru, ma decise di non darvi troppo peso.
“Dunque, in totale, le sono stati attribuiti trenta omicidi cruenti. Perché li ha commessi?” Iniziò l’intervista, annotandosi velocemente la domanda sul taccuino.
“… Do…vevo…” bisbigliò la donna in risposta, mentre deglutiva l’ennesimo spicchio d’arancio.
“Perché?” Chiese ancora, insistente, ma ricevette in risposta solo un’alzata confusa di spalle, quasi come se la ragazza non sapesse come spiegarsi.
“Va bene…” bisbigliò fra sé e sé annotando quel piccolo particolare insieme ai vari atteggiamenti strani che continuava a mantenere. Primo fra tutti: la maschera sulla bocca nonostante non fosse raffreddata.
“Mi parli delle vittime. Perché solo uomini?”
Anche stavolta, la ragazza alzò le spalle.
Hikaru annotò.
“C’era qualcosa che li accomunava?”
“Hanno mentito.” La prima risposta chiara che riceveva.
“Che significa?” Insistette Hikaru, poggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi maggiormente verso di lei.
“Erano dei bugiardi.”
“Sì, ho capito. Ma la gente mente in continuazione, perché proprio loro? Perché squartargli la faccia?”
In risposta, solo l’ennesima alzata di spalle.
Seguitarono attimi di un silenzio interminabile, scandito soltanto dal rumore di Hikaru che annotava incessantemente quello strano comportamento cercandovi una spiegazione.
“Karei da to omou*?” Chiese la donna improvvisamente.
Hikaru alzò lo sguardo verso di lei per risponderle. Non parlava giapponese, solo qualche parola biascicata che sua madre gli aveva insegnato.
Non appena i suoi occhi si posarono sulla giovane, si accorse che, in modo inquietantemente silenzioso, era salita sul tavolo ed ora gli era a pochissimi centimetri dal naso.
Avrebbe dovuto avere paura, avrebbe dovuto gridare, invece si ritrovò incapace di fare qualsiasi cosa che non fosse guardarla ipnotizzato da quelle iridi inspiegabilmente fattesi lattee.
Fu con il frastuono secco e metallico della porta che veniva scardinata che, Hikaru, si riprese da quella specie di trans in cui era caduto.
La donna venne spinta via, lontana da lui, da qualche agente di cui neppure ricordava il nome, mentre qualcun altro lo aveva appena preso di peso e buttato fuori dalla stanza.
Gli arti non lo ressero, non rispondevano più alla sua volontà, ed il contatto violento quanto inatteso con il gelido pavimento, gli fece perdere i sensi.

Rinvenne accasciato su quel materasso logoro.
Il buio avvolgeva la stanza impedendogli di vedere persino ad un palmo dal suo naso. Si ricordò immediatamente che la stanza era priva di qualsivoglia infisso, solo una porta doveva svettare sulla parete alla sua destra. Se solo fosse riuscito a vederla…
Frugò alla cieca attorno a sé, cercando spasmodicamente un qualcosa che avesse potuto aiutarlo a vedere in quell’oscurità, mentre già l’ansia andava a stringergli i polmoni in una morsa crudele.
L’aria pareva non bastargli più e continuava ad annaspare rumorosamente come se stesse soffocando.
Si alzò improvvisamente mentre il panico più nero già si era impossessato del suo corpo.
Ruzzolò in quel groviglio informe di coperte sozze e barcollò seguendo il muro finché non riuscì a sentire l’infisso.
Calci, pugni e grida scossero il metallo gelido della porta per minuti interi, ma nessuno pareva accorrere in suo aiuto.
“Cazzo, cazzo, cazzo!” Berciò infine, iniziando a prendere a spallate la porta disperatamente.
“Apritemi! Aprite la porta!” Gridava ogni volta che la colpiva con la spalla e le scosse di dolore si irradiavano in tutto il suo corpo fino al cervello.
Colpi forti e furiosi dettati dal puro panico e la paura, da quella sensazione di venir soffocati che gli chiudeva lo stomaco e da quel pianto disperato che gli scuoteva la schiena e le spalle.
Un altro colpo. Più forte e disperato.
Insieme ai cardini, anche le ossa del suo braccio scricchiolarono inquietantemente.
Un altro colpo. Uno ancora. Ancora un altro ed infine la porta venne scardinata, ricadendo rumorosamente a terra con un tonfo sordo.
Hikaru ricadde su di essa, voltandosi a prono ed inspirando a pieni polmoni, mentre le lacrime gli offuscavano la vista.
L’aria fresca gli morse l’epidermide accaldata delle guance, penetrandogli nelle narici con impeto e gonfiandogli il petto.
Passi incerti alla sua destra attirarono la sua attenzione, ma i suoi occhi nulla poterono contro l’oblio che lo inghiottiva.
“Chi… c’è là?” Annaspò esausto cercando di mettere a fuoco una figura a malapena percettibile ai suoi occhi.
“Karei da to omou?” Chiese la figura con un sussurro e Hikaru rabbrividì all’istante.
“S-Signorina Tanaka…” gracchiò spaventato cercando di rimettersi in piedi velocemente.
“Emiko Tanaka…” lo corresse lei avvicinandosi barcollando.
“Erano tutti bugiardi… mi hanno mentito e meritavano di morire…”
Hikaru ingoiò aria a vuoto, preoccupato e terrorizzato per la piega che stava prendendo quella situazione.
Era una donna esile, Emiko, non avrebbe dovuto avere problemi nel difendersi da una sua possibile aggressione. Praticamente era uno scheletro che camminava, un suo spintone l’avrebbe fatta rovinare a terra in un baleno.
Eppure perché si sentiva come una preda in trappola?
Dopotutto, anche le vittime non avrebbero dovuto avere problemi nel difendersi da lei…
“Emiko, la prego… non si avvicini ulteriormente o sarò costretto a chiamare le guardie!” L’ammonì lui, alzando la voce come se avesse voluto intimorirla.
“Karei da to omou?” Chiese lei ancora, stavolta la voce gli arrivò dalla sua sinistra ed Hikaru indietreggiò nel corridoio fino a ritrovarsi con le spalle al muro. In trappola.
“Emiko… non so che vuol dire… non parlo giapponese!” Rispose lui angosciato, mentre la paura ed il panico trasparivano dalla sua voce chiaramente.
“Trovi che sia bella?” Chiese lei, poggiando una mano leggera ed affusolata sulla sua spalla.
Hikaru se la scrollò di dosso velocemente e si allontanò da lei ancora di qualche metro.
“Certo!” Mentì.
Una risata sommessa giunse alle sue orecchie, mentre un gelido brivido gli corse lungo la schiena.
“Sei come gli altri, bugiardo.”
“No, non è vero!” Si difese lui, ma una spinta poderosa lo fece cadere a terra con facilità disarmante.
Come poteva possedere tutta quella forza un corpicino così esile?!
“E dimmi allora…” iniziò la donna, mentre il rumore di un fiammifero che veniva acceso riempiva il silenzioso corridoio.
D’un tratto, la flebile fiammella accese una candela ammezzata che la ragazza teneva fra le mani, illuminando fiocamente il suo viso coperto dalla mascherina.
“Adesso mi trovi bella?”
Con un gesto innaturalmente veloce, si tolse la mascherina di carta rivelando il tremendo squarcio che le apriva la bocca fin quasi alle orecchie.
Hikaru gridò terrorizzato, trattenendo a stento un conato di vomito.
“C-che cosa sei?!” Berciò lui in risposta, indietreggiando da lei strisciando.
D’improvviso, un larghissimo sorriso si dipinse sulle labbra della donna.
“Il mio amato marito mi ridusse così, dopo una nottata passata a bere fra le cosce di chissà quale donna.”
Hikaru provò ad alzarsi e fuggire via, ma in un attimo Emiko gli era saltata addosso, impedendogli di compiere qualsivoglia movimento.
Le ginocchia della donna erano pressate contro le sue braccia e lei se ne stava comodamente seduta sul suo petto.
“Aiuto! Aiutatemi!” Urlò l’uomo ed Emiko rise di quella sua reazione.
“Lo dicevo anche io quando lui alzava le mani su di me, ma non accorreva mai nessuno a salvarmi.”
Hikaru rabbrividì sentendo una lama fredda pressata verso la sua guancia.
“Anche nel tuo caso non arriverà nessuno.”
“Tu sei pazza!” In risposta, la donna rise ancora.
“Chi mai ti troverà bella adesso? Con quella faccia sfigurata?!” Disse lei incupendo la voce per farla somigliare ad una maschile.
“Chi mai ti vorrà così?!”
“Emiko, ti prego… non farlo!” Pianse pregandola, Hikaru, mentre il panico già si era impossessato di lui.
Provava a muoversi per disarcionarla, gridava e scalciava, ma una strana forza pareva tenerlo ancorato al suolo, mentre la donna gli carezzava le guance con quella lama gelida.
“Era vero, nessuno mi vuole così. Pensano che sia bella, ma appena mi tolgo la maschera scappano terrorizzati.” Spiegò Emiko, forzando il coltello all’interno della bocca di Hikaru. A niente servirono i pianti e le grida dell’uomo.
“Quindi, in realtà, non pensavano davvero che fossi bella…” continuò la sua spiegazione, mentre la lama si faceva strada fra le guance dello scrittore.
Fiotti caldi di sangue schizzarono dalla ferita, imbrattando le braccia della donna e colando sul pavimento freddo.
“Stavano mentendo, come hai fatto anche tu.”
Un ultimo sforzo e lo sfregio sul volto dell’uomo giunse fino alla tempia.
Un sorriso soddisfatto adornò le labbra larghe di Emiko, mentre con cura si dedicava all’altra guancia.
“Siete bravi a mentire voi uomini…” aggiunse infine lei, mentre anche l’altro lato della faccia di Hikaru veniva deturpato.
Spostò il coltellaccio sulla gola, nei pressi della giugulare e premette leggermente.
Hikaru piangeva e gridava continuamente, in preda al dolore, al panico ed alla paura.
“Mentite sempre con il sorriso sulle labbra.”
Furono le ultime parole che lo scrittore udì, poi il silenzio eterno gli assordò le orecchie mentre il sangue dalla sua giugulare fluiva via libero imbrattando il pavimento gelido.





Buongiorno 
Questa one shot è il primissimo tentativo di storia horror… e onestamente non so se esserne felice o meno ^^”
Non saprei nemmeno dire se è venuta bene o meno… so soltanto che è finita dopo giorni di riletture senza sosta in cui ho cambiato tutto ventordici volte circa xD
Ma passiamo alle delucidazioni!
Emiko sarebbe una creatura del folclore giapponese chiamata kuchisake-onna. Questo mostro, andava in giro a tagliuzzare la faccia alle persone dopo che avevano visto il suo viso sfigurato dal marito. Insomma, non propriamente una simpaticona…
Si poteva “fuggire” dal mostro solo rispondendole in maniera vaga alla sua domanda o lanciandole della frutta.
Ad ogni modo, ho acciuffato le informazioni da internet, quindi arrabbiatevi con Wiki se non sono corrette xD
Traduciamo un po’:
Karei da to omou?= Trovi che sia bella?

Hikaru: che splende
In realtà mi piaceva da morire il nome… però anche il fatto che la storia è ambientata praticamente sempre di notte… non so, mi piaceva creare questo contrasto dove, alla fine, anche l’unica luce viene ingoiata nel buio. Ammazza come sono poetica oggi xD
Emiko: bambina bellissima
Ovviamente, il nome ci stava tutto per lei! U.U

  
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