Colle di
Hudwill - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 30 Aprile
«Ecco, Lidia, questo è il
confine»
sussurrò Donna Giulia, posando una mano sulla spalla della
figlia e
scrollandola piano.
«Mh» grugnì la
ragazza, lanciando uno
sguardo apatico fuori dal finestrino del carro automatico sul quale
stavano
viaggiando. Non c’era praticamente nulla, lì: solo
un ammasso di casupole che
si perdevano nell’atmosfera grigia e umida di quella che, in
teoria, avrebbe
dovuto essere una giornata primaverile. Il solo pensiero di abbandonare
il
tepore del carro le faceva venire il mal di stomaco.
«Sei sicura di non volerti fermare a
prendere qualcosa?» insistette la donna più
anziana, con una nota di
preoccupazione nella voce. «Non voglio niente»
bofonchiò compostamente Lidia,
senza nemmeno girarsi verso la madre. Donna Giulia esitò
qualche istante, poi
si lasciò ricadere sul proprio sedile con un sospiro
preoccupato.
Lidia ci aveva provato, a seguire il
consiglio di Lucilla. Ci aveva provato, a vivere con uno spirito
più positivo
quella nuova fase della sua vita, ma proprio non ci riusciva. Man mano
che il
carro proseguiva verso nord, si sentiva sopraffare sempre
più da un’angoscia
difficile da contrastare. Erano in viaggio da un giorno intero e il
paesaggio
fuori dai finestrini non aveva più nulla di simile alle
verdi, dolci colline e
ai campi di grano che aveva lasciato lontano, in quella che avrebbe per
sempre
chiamato casa. Forse era anche
colpa
del tempo: da un paio di ore aveva infatti iniziato a piovere. Non una
pioggia
forte, tipo temporale, ma una pioggerellina insistente e sottilissima,
accompagnata
da una nebbia persistente che rendeva il paesaggio uniforme e ben poco
attraente.
A
Roma non c’era mai questo nebbione, pensò Lidia, afflitta. Non era vero,
naturalmente, ma quel clima tutt’altro che primaverile, in
netto contrasto con
il sole splendente che aveva lasciato nella grande metropoli, le pareva
di
pessimo auspicio.
Appoggiando la fronte al finestrino
freddo, la ragazza lasciò scorrere uno sguardo assente sul
paesaggio che
sfilava davanti ai suoi occhi, senza badare alla nuvoletta di condensa
che il
suo fiato aveva disegnato sul vetro. Campi bagnati, prati costellati di
pozzanghere, strade di terra nera, alberi scuri, contadini avvolti nei
loro
pesanti pastrani, orti ancora desolatamente spogli e…
«Madre!» esclamò
Lidia, rianimandosi
tutta d’un tratto. «Guarda! Quel carro è
trainato da dei cavalli!» La fanciulla
sapeva che non ovunque si usavano i carri automatici che erano tanto
diffusi a
Roma, ma quella era la prima volta che vedeva con i propri occhi un
mezzo di
trasporto che non sfruttava l’energia del sole, ma quella
degli animali. Donna
Giulia si sporse per guardare le bestie indicatele dalla figlia.
«Già»
confermò. «Non se ne vedono tanti giù
dalle nostre parti…»
«In compenso qui non ho visto carri
automatici» notò con preoccupazione la ragazza.
«Dici che non li usano?» Sua
madre si strinse nelle spalle, incerta. «Non lo so, piccola,
forse qui non c’è
abbastanza sole per alimentarli e quindi questa gente è
costretta a ricorrere
ai cavalli…»
«Ma no, stupide!»
sbottò il senatore Prisco,
sollevando il naso dai comunicati che stava studiando. «I
carri automatici sono
poco adatti per muoversi sulle strade di montagna: sono troppo strette.
Un
carro automatico sarebbe solo una spesa inutile, da queste parti. Il
sole non
c’entra niente.»
Il rimprovero del padre soffocò lo
sprazzo di curiosità di Lidia, che tornò a
rinchiudersi nel suo mutismo e a
scrutare torva il paesaggio.
Erding - Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 1 Maggio
L’alba che stava sorgendo su Erding
era umida di rugiada e di pioggia cessata da poco. Lidia
poggiò esitante un
piede fuori dal carro e fu grata di avere indossato degli abiti
più pesanti di
quelli che portava di solito. Faceva freddo, molto più
freddo di quanto si sarebbe
aspettata e, anche se l’aria era tersa e piena del cinguettio
dei primi
uccelli, la fanciulla non poté fare a meno di osservare
preoccupata le montagne
che si ergevano tutt’intorno alla stretta valle. Sapeva che
non erano le più
alte della regione, ma a lei, abituata alle dolci colline romane,
parvero dei
giganti neri che la scrutavano con occhi malevoli.
Non
essere melodrammatica! La
voce di Lucilla risuonò chiara nelle sue
orecchie e la ragazza ebbe l’assurdo impulso di guardarsi
attorno per
sincerarsi che l’amica non fosse effettivamente lì
con lei. La notte insonne
passata sul sedile del carro le aveva irrigidito tutti i muscoli e la
giovane
si stiracchiò, discretamente, nel tentativo di sciogliere i
nodi dolorosi alla
schiena e al collo. Immediatamente, un refolo d’aria fredda
le si infilò sotto
la mantella che le cingeva le spalle e lei se la strinse addosso,
tremando
violentemente. In cerca di protezione dalla brezza gelida – e
forse,
inconsciamente, dal destino che stava per compiersi – Lidia
si avvicinò al fianco
della madre, guardandola da sotto in su e cercando di spiare una
qualche
reazione sul suo volto. Donna Giulia se ne stava rigidamente in piedi
di fianco
al carro, aspettando che suo marito facesse ritorno in compagnia del
Legato
Quinto Anicio Libo, davanti alla cui domus
si trovavano al momento.
«Madre?» Lidia andò
in cerca di una
parola di conforto, ma negli occhi scuri della madre – quegli
occhi che
assomigliavano tanto ai suoi – non lesse altro che un affetto
triste. La
ragazza sapeva che la donna non poteva fare nulla per cambiare la sua
sorte,
tuttavia avrebbe apprezzato un piccolo incoraggiamento.
Era una donna quieta, Giulia, e Lidia
le assomigliava molto. La fanciulla si chiese se anche sua madre
provasse di
tanto in tanto quel senso di ribellione e quella rabbia che le facevano
venir
voglia di urlare fino a farsi bruciare i polmoni; e se, soprattutto,
fosse
altrettanto brava a soffocare quegli impulsi e a relegarli
nell’angolo più
remoto del suo essere, sepolti sotto strati di cortesia e timidezza.
Glielo
avrebbe chiesto, forse, consapevole che quella era una delle ultime
occasioni
che aveva per parlare a quattr’occhi con Donna Giulia.
L’arrivo di suo padre e
del Legato, tuttavia, la costrinse a desistere.
Quinto Anicio Libo non era un uomo
particolarmente giovane, con ogni probabilità andava ormai
per i cinquanta, ma
era alto e asciutto e aveva un viso dall’espressione gentile,
con due occhi
buoni che rincuorarono un poco Lidia. Nel vederlo, la fanciulla
pensò di aver forse
trovato un volto amico anche in quel villaggio buio e umido.
«Donna Giulia, Lidia», disse il
Legato,
allargando le braccia per accogliere le due donne, «benvenute
a Erding. Siete
arrivate giusto in tempo: negli ultimi giorni ha piovuto molto, ma ora
il tempo
dovrebbe volgere al meglio… o così mi
dicono.» Donna Giulia gli rivolse un
sorriso cordiale e Lidia la imitò, cercando di evitare che
il suo nervosismo si
manifestasse nel sorriso che rivolse all’uomo. I suoi
tentativi non ebbero
successo, perché Quinto si rivolse a lei, divertito:
«Sei nervosa?»
La fanciulla annuì. «Un
po’» sussurrò,
con gli occhi bassi.
«Solo un po’, eh?» Il
sorriso sul
volto del Legato si allargò, ma non era un sorriso di
scherno e Lidia riuscì a
ricambiarlo un’altra volta. «È
normale», cercò di rassicurarla l’uomo,
«ma
vedrai che la paura passerà una volta che ti sarai
ambientata un pochino e avrai
visto che non c’è nulla da temere, qui.»
La ragazza lo guardò con due occhi
enormi. «No?»
«No» confermò
Quinto. «E comunque c’è
un manipolo di legionari di stanza alle porte della città,
per cui la pace è
garantita.» Lidia avrebbe voluto chiedere perché
ci fosse bisogno di così tanti
soldati, se la situazione era davvero così tranquilla, ma
non disse nulla: del
resto, la sua unica, remotissima possibilità di fuga era
legata proprio a quei
militari, quindi non l’avrebbero certo sentita lamentarsi
della loro presenza. «Bene»
disse il Legato, battendo le mani e indicando ai servitori di scaricare
i
bagagli. «Volete riposarvi un po’ o preferite
visitare il paese?»
«Visitiamo il paese!» rispose
subito
Lidia, che voleva conoscere il prima possibile il luogo in cui avrebbe
passato
il resto della vita, ponendo così fine alla logorante attesa
che durava ormai
da più di una settimana.
Annuendo, Quinto li condusse fuori
dalla sua proprietà e attraverso le strade sconnesse di
Erding. Definirla città,
scoprì Lidia, era assolutamente
troppo lusinghiero. Si trattava piuttosto di un grosso villaggio, con
case in
legno e pietra, tutte uguali, tutte scure, con le travi annerite
dall’esposizione al sole e il muschio che si arrampicava su
dal terreno a causa
dell’umidità eccessiva. Nel giro di una decina di
minuti, il sole fece capolino
da dietro le creste e l’atmosfera si sarebbe anche potuta
definire
relativamente piacevole, se non fosse stato per il disagio che la
fanciulla
provava per la calma surreale che regnava in quel luogo. Le strade
erano
completamente deserte e, fino a quel momento, non avevano incontrato
anima
viva. «Ma non ci abita nessuno, qui?» chiese, ad un
certo punto.
Quinto ridacchiò. «Certo che
ci abita
qualcuno… in questo momento però se ne stanno
tutti in casa, a spiarti da
dietro le finestre e a spettegolare su di te.»
Lidia sbiancò. «E
perché dovrebbero
fare una cosa del genere?»
Il Legato la guardò con un sorriso.
«Non
sai molto della vita di paese, vero?» La ragazza storse
appena il naso davanti alla
canzonatura non troppo velata dell’uomo, ma fu felice di
notare che il sapersi
spiato non fece piacere nemmeno a suo padre, che improvvisamente prese
a
lanciare occhiate feroci tutt’attorno a sé.
Il gruppetto giunse in una piccola
piazza circolare, dove, finalmente, ebbero modo di incrociare i primi
abitanti
del luogo. Si trattava soprattutto di donne e Lidia guardò
stupita le loro
semplici vesti di lana e i loro lunghi capelli, che portavano sciolti,
in
un’acconciatura che la giovane non aveva mai visto sfoggiare
a nessuna donna di
buona famiglia. Sebbene provasse una certa curiosità nei
confronti di quelle
persone, che già al primo sguardo le parvero terribilmente
diverse da quelle
con cui era solita avere a che fare, Lidia distolse lo sguardo in preda
all’imbarazzo quando sentì su di sé i
loro occhi: tra la piccola folla radunata
nella piazza, c’era chi pareva condividere la sua stessa
curiosità, ma alcuni
di loro – soprattutto una manciata di uomini –
sembravano guardarla quasi con
ostilità. Nel tentativo di sfuggire a
quelle attenzioni,
la ragazza si finse interessata alla statua che dominava il centro
della
piazza. «Chi è quello?» chiese,
indicando la raffigurazione di un giovane da
capelli ricci e con uno strano elmo in testa, immortalato
nell’atto di levare
al cielo una spada.
«Quello è Arminio, il
più grande degli
Dèi germanici» le spiegò Quinto,
seguendo la direzione del suo sguardo. «Stai
attenta a non parlarne male: sono piuttosto suscettibili, quando si
tratta di
religione.» Lidia annuì, prendendo nota di quanto
le aveva detto il Legato, e
poi si affrettò a seguire i suoi genitori, che si stavano
già allontanando
dalla statua del giovane guerriero.
Il resto della mattinata passò
più
rapidamente di quanto si sarebbe aspettata. Erding era piccolo, ma
Quinto
riuscì comunque a scovare diversi luoghi
d’interesse da mostrarle: la piazza in
cui, un giorno alla settimana, si teneva il mercato, il macellaio con
la carne
migliore, la bottega alla quale rivolgersi per ottenere dei tessuti di
qualità.
La fanciulla faceva segno di sì con il capo e sorrideva in
silenzio, cercando
di nascondere il proprio disagio e l’imbarazzante
realtà che lei non la sapeva
nemmeno cucinare, la carne.
Man mano che le ore passavano e il
sole si alzava nel cielo, accorciando le ombre, Lidia sentiva crescere
in sé
l’inquietudine. Sapeva che avrebbe dovuto conoscere il suo
futuro sposo, quel
giorno, ma il fatto di non essere a conoscenza dell’orario in
cui ciò sarebbe
avvenuto la riempiva d’angoscia. Quando giunse
l’ora di pranzo, la giovane
aveva lo stomaco talmente chiuso che dovette farsi violenza per
mangiare, per
educazione, i manicaretti che Quinto fece servire loro. Quando, poco
dopo, due
ancelle vennero a chiamarla, stringendo tra le mani un pettine e delle
vesti
pulite, Lidia si sentì sul punto di svenire. Qualcosa, nel
profondo del suo
petto, le imponeva di ribellarsi, di rifiutare quello che le pareva un
sopruso,
ma le sue gambe si mossero in automatico, permettendo così
alle due giovani di
scortarla in un’altra stanza.
Le ragazze la lavarono e la vestirono;
quando però le pettinarono i capelli e le proposero di
lasciarli sciolti, alla
moda delle donne germaniche, la fanciulla si oppose. No, li avrebbe
raccolti,
così com’era sempre stata abituata a fare. Senza
le trecce arrotolate sul capo
si sentiva quasi nuda, vulnerabile: in quel momento, non era disposta a
rinunciare anche a quel misero conforto. Dopo quella piccola presa di
posizione, però, Lidia fu colta da una sorta di senso di
ineluttabilità e rinunciò
a opporsi agli eventi. Seguì allora i suoi genitori e il
Legato camminando per
le strade di Erding quasi in trance, senza riuscire a concentrarsi su
qualcosa
che non fosse il battito del suo cuore e il suo respiro affannato.
Dalla
direzione che avevano preso era convinta che la stessero portando nella
piazza
con la statua; Quinto, tuttavia, deviò improvvisamente e si
infilò in una via
laterale, leggermente in salita, prima di fermarsi davanti a una casa
che non
aveva nulla di diverso da tutte le altre.
Il Legato bussò deciso alla porta di
legno e immediatamente una vecchia donna venne ad aprirla. Aveva i
capelli scarmigliati
e bianchissimi e i suoi occhi azzurri, appannati
dall’età, trapassarono Lidia
da parte a parte. Non sembra
particolarmente felice di vedermi, comprese la ragazza, con
un brivido.
«Buongiorno, Donna Edda» la
salutò
Quinto. «Questa è la futura sposa, possiamo
entrare?»
La donna annuì secca e si fece da
parte brontolando a bassa voce. Lidia tese le orecchie per decifrare il
senso
delle sue parole, ma la vecchia parlava un dialetto germanico che alla
ragazza
non parve altro che un ringhio sordo.
«Sul retro» disse
improvvisamente la padrona
di casa, passando al latino: la sua voce era fragile, ma
sorprendentemente
tagliente. Attraversando la stanza senza nemmeno vedere quello che le
stava
attorno, quasi come se qualcuno le avesse stretto il volto in una
coppia di
paraocchi, Lidia si ritrovò in una sorta di giardino
protetto da un alto muro
di sasso. Lì, si accorse con un tremito, era riunita quella
che con ogni
probabilità era la famiglia del suo futuro sposo. La sua nuova famiglia.
Erano ancora peggio di quello che si
era aspettata. Gli uomini le parvero tutti eccezionalmente alti e
insolitamente
robusti – sebbene, le fece notare la sua mente, era
probabilmente colpa degli
abiti pesanti che indossavano – e, cosa che la
impressionò, portavano tutti una
barba più o meno abbondante e capelli lunghi fino alle
spalle.
Quando i quattro romani fecero il loro
ingresso nello spazio recintato, tutti si voltarono a guardarli, ma
Lidia si
rese conto che c’era qualcuno che la fissava con
più insistenza degli altri: si
trattava di un uomo dall’età indefinibile, dai
capelli grigi e gli occhi
chiari. Anche se era seduto a parecchi metri di distanza da lei, la
fanciulla
riuscì a vedere la deformità della sua gamba
destra, forse la traccia di un
antico incidente che lo costringeva seduto sull’alta sedia di
legno.
Non
sarà mica lui mio marito, vero? In preda a un panico improvviso, la
ragazza retrocedette di un passo e si scontrò contro il
petto di Quinto, che
esalò bruscamente. Da qualche parte alla sua destra giunse
una risata sommessa
e voltandosi in quella direzione Lidia incontrò gli occhi
glaciali di una
giovane donna dai capelli così chiari da sembrare bianchi.
La giovane la
guardava con un ghigno tutt’altro che amichevole e,
fissandola dritta in viso,
disse qualcosa ai due uomini che le stavano accanto. I due annuirono e
la
fissarono a loro volta, uno con un’espressione di scherno sul
volto, l’altro
con palese disprezzo. Lidia rabbrividì e arrossì,
distogliendo lo sguardo e pregando
che nemmeno uno di loro fosse la
persona che era obbligata a sposare. Voltandosi dall’altra
parte incrociò lo
sguardo curioso di un uomo bruno, che subito alzò gli occhi
su Quinto con
un’espressione interrogativa. Alle sue spalle il Legato
scosse le spalle, come
per dire che non importava, e poi fece un passo avanti, rivolgendosi
direttamente all’uomo sulla sedia. «Gefrid, siamo
qui per presentare a te e
alla tua famiglia questa fanciulla, Lidia Aurelia Prisca, promessa
sposa di tuo
figlio Ulf.»
L’uomo annuì e, malgrado
tutto, Lidia
tirò un sospiro di sollievo. Meglio
suocero che marito, pensò. Il Legato si
voltò poi verso la fanciulla e le prese
le mani nelle sue. «Lidia, ti presento tuo marito, Ulf. Forse
potrai pensare
che…» l’uomo si interruppe e si
guardò attorno, confuso.
«Ehm…»
In quel momento la porta alle loro
spalle si aprì e un ragazzo fece il suo ingresso,
precipitandosi nel giardino e
piegandosi a metà come per riprendersi da una corsa.
«Scusate» boccheggiò.
«Oh, eccoti qui!»
esclamò Quinto, con
un sorriso. «Mi stavo appunto chiedendo dove fossi finito.
Bene, come stavo
dicendo…»
Quinto riprese le mani di Lidia e
ricominciò a parlare, ma la ragazza non lo ascoltava
più. Quello era Ulf?
Era giovane, all’incirca della sua età, e bello,
con due grandi occhi verdi come l’acqua e un ciuffo di
capelli scuri e scompigliati.
Quando si accorse della sua attenzione le fece un sorriso che gli fece
comparire due adorabili fossette sulle guance. Forse
non sarà così dura come pensavo, si
disse la giovane, mentre
un sollievo caldo e liquido le colava nello stomaco.
«Lidia, se vuoi andare a stringere la
mano al tuo fidanzato…» le disse gentilmente il
Legato. Nell’udire
quell’invito, la fanciulla si riscosse. «Oh,
sì certo» disse, muovendo un passo
verso il ragazzo dai capelli scuri. La mano di Quinto la
fermò. «Cosa…?»
l’uomo
si interruppe, illuminandosi in volto. «Ah, no, scusa per il
malinteso!»
Lidia lo guardò, cercando di afferrare
la situazione. «Eh?»
«Quello è Hermann, il fratello
minore
di Ulf» le disse l’uomo, prendendola delicatamente
per le spalle e facendola
girare. «Tuo marito è lui.»
Seguendo
la direzione indicata dal cenno di Quinto e arrossendo mortificata,
Lidia
incrociò lo sguardo del suo vero marito
e si sentì morire.
Or
dunque, facciamoci due conti. Prologo: 174 visualizzazioni; 1 commento.
Primo
capitolo: 89 visualizzazioni; 0 commenti. Secondo capitolo: 91
visualizzazioni;
1 commento. Terzo capitolo: 47 visualizzazioni; 0 commenti.
Io
non sono una che venderebbe un rene per una recensione: del resto,
questa
storia è quasi del tutto scritta ed è pianificata
nel dettaglio fino all’epilogo,
motivo per cui non mi serve avere il supporto di chi legge per sentirmi
motivata a scrivere. Però qualche domanda me la faccio lo
stesso. Se un buon
numero di gente legge quello che scrivo e non trova comunque un
accidente di
niente da dire, questo è sicuramente indicativo di un certo
disinteresse. E se
una cosa non interessa, se annoia, vuol sicuramente dire che
c’è qualcosa che
non va… purtroppo, però, io non sono in grado di
identificarlo con chiarezza,
quel qualcosa. Per migliorare e sistemare i dettagli (e non solo
quelli) mi
serve necessariamente un feedback di qualche tipo: qualcuno sarebbe
così carino
da darmelo?