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Autore: _armida    14/10/2017    1 recensioni
Dal capitolo XV:
“Si aspettano che io ti uccida?”, domandò lui con un filo di voce.
(...)
. “Mi… mi terrai la mano mentre… sì, insomma, dall’altra parte non sarò sola ma…”. Non riuscì ad andare avanti e si limitò a cercare aiuto nel viso che aveva di fronte.
“Lo farò per tutto il tempo che vorrai”, si affrettò a dire il Conte, mentre una lacrima sfuggita al suo controllo gli rigava una guancia.
Elettra la spazzò via con una carezza, tornando poi a sorridergli, seppur il suo tono di voce, quando parlò, fu estremamente serio. “Non per tutto il tempo che vorrò, solo il minimo indispensabile, poi correrai da Leonardo a salvargli la vita. Non voglio vedere nessuno di voi per i prossimi trenta o quarant'anni, almeno”, aggiunse in un tentativo di ironia. Si alzò sulle punte, per poter avere il suo viso all’altezza del proprio e lo baciò per l’ultima volta. “Addio, Girolamo”, disse ad un soffio dalle sue labbra.
Si guardarono negli occhi.
Una tacita domanda.
Un cenno di conferma.
Strinsero entrambi le mani intorno al pugnale e la lama si fece strada nella carne.
(seguito di "L'Altra Gemella)
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo IV: Amanti

Una sottile lama di luce filtrava nella cabina, portando Girolamo ad aprire faticosamente gli occhi. Si guardò in giro, chiedendosi che ora fosse. A Roma o Firenze, dove il tempo era scandito dai rintocchi dei numerosi campanili presenti, era sempre facile saperlo. Ma lì, per mare, gli unici rumori presenti erano il continuo infrangersi delle onde contro lo scafo e le urla della ciurma. 
Sospirò e si voltò sul fianco destro. 
Fece una piccola smorfia quando i capelli di Elettra gli solleticarono il naso, ma un istante più tardi stava già assaporando il loro profumo. 
Le mani corsero a stringere la sua vita, avvicinandola di più al proprio corpo. Scostò di poco la camicia da notte dalla spalla nuda, lasciando poi un bacio su di essa.
In quel momento bussarono alla porta. 
Si staccò da lei controvoglia.
“Avanti”, disse, alzandosi dal letto e prendendo da una sedia lì vicino la propria camicia. 
Zita entrò poco dopo, mentre stava allacciando i primi bottoni. Reggeva tra le mani un vassoio con la colazione per entrambi.
“Buongiorno”, salutò, eseguendo poi un piccolo inchino.
“Ciao, Zita”, rispose Girolamo.
La osservò mentre con apprensione volgeva lo sguardo verso Elettra, immobile, rannicchiata in posizione fetale nella propria parte di letto. 
“Ora la sveglio”, disse il Conte. Anche se, non appena formulato quelle parole, si rese conto che molto probabilmente lei non stava dormendo. 
“Torno più tardi”, mormorò la schiava a bassa voce, per non disturbare la giovane. Poggiò il vassoio su di una cassapanca ai piedi del letto.
L’uomo annuì appena, perso nei propri pensieri. 
Zita fece nuovamente un inchino per poi avviarsi alla porta.
Girolamo tornò a stendersi di fianco ad Elettra. Le scostò delicatamente i capelli dal viso, indugiando più del dovuto sulla pelle soffice della guancia con la punta delle dita. “È ora di alzarsi, mia diletta”, le sussurrò all’orecchio.   
Lei aprì gli occhi e sbattè più volte le palpebre, rimanendo però immobile nella propria posizione. 
“Zita ha portato la colazione: tisana calda e biscotti, proprio come piace a te”, proseguì lui, piegando le labbra in un dolce sorriso. Portò una mano sul suo capo, con l’intento di accarezzarle i biondi capelli ma, non appena lei avvertì quel contatto, si fece immediatamente rigida, rannicchiandosi ancora più stretta in sé stessa. Girolamo si allontanò subito, ritenendo più saggio alzarsi per prendere il vassoio della colazione.
Lo mise al centro del letto.
“La tisana si raffredda”, disse, sperando di sortire qualche effetto su di lei.
Elettra non si mosse.
Prese un lungo respiro e si rimise nuovamente in piedi; fece qualche passo portandosi dalla parte del letto della giovane e si accovacciò di fronte al suo viso.
“Va tutto bene, Elettra”, sussurrò lentamente. “Va tutto bene”, ripetè, come se il tono di voce usato in precedenza non lo convincesse appieno. Nemmeno questa volta lo aveva fatto, però. Chiuse gli occhi e sospirò di nuovo.
Mise le mani poggiate sul letto vicino a lei, con i palmi rivolti verso l’alto ed attese.
Con molta titubanza, dopo diversi tentennamenti, la giovane poggiò le proprie sulle sue. A quel punto per  Girolamo fu facile metterla in posizione seduta.
Prese la sua tisana calda tra le dita e gliela avvicinò. Cercò il suo sguardo, ma esso pareva catturato solamente dalla scrivania ricolma di scartoffie dalla parte opposta della cabina. Fece per alzarsi, ma il Conte la trattenne seduta. “Prima devi provare a mangiare qualcosina, mia diletta” 
Soffiò sulla tisana calda, per cercare così di raffreddarla un pochettino prima di passargliela.
La giovane spostò gli occhi sulla tazza tra le sue mani ed avvicinò ad essa le proprie. 
A quel gesto inaspettato Girolamo non potè fare a meno di sorridere e gliela passò più che volentieri. La vide prenderla tra le proprie dita e concentrarsi sul colore rossastro del liquido all’interno. Elettra l’osservò per alcuni secondi, immobile, poi nelle sue iridi grigiastre passò un lampo di paura e lasciò la presa. 
La tisana bollente cadde sulla candida camicia da notte che indossava, mentre la tazza si infranse contro il pavimento in legno, andando in frantumi. 
La risposta di Girolamo fu fulminea: prese una camicia abbandonata sulla cassapanca ai piedi del letto e la usò per tamponare l’abito. Appena finita quell’operazione lasciò cadere a terra l’improvvisata spugna, portando entrambe le mani al suo viso. Cercò per l’ennesima volta in quella mattinata il suo sguardo, ma esso pareva catturato solamente da quelle macchie rossastre e dalle proprie mani. Dai suoi movimenti e dai lineamenti del volto contratti era come se vedesse qualcosa.
Ma non c’era niente su di esse.
“Ti sei scottata?”, le chiese con apprensione.
Lei alzò appena lo sguardo sui suoi occhi e sbattè un paio di volte le palpebre, per poi tornare ad osservare nuovamente in basso.
Girolamo indugiò ancora un po’ con le mani sul suo viso, carezzandole le guance con i pollici nel tentavo di riattirare la sua attenzione, ma alla fine dovette arrendersi. Sospirò, prima di staccarsi da lei.
Raccolse con cautela i cocci da terra, prestando cura di non lasciare in giro nemmeno la più piccola scheggia. Non voleva rischiare che Elettra si ferisse accidentalmente. Li buttò in secchio vuoto abbandonato in un angolo della cabina, poi prese la bacinella con l’acqua per lavarsi e la poggiò sulla cassapanca. 
Prese le mani della ragazza tra le proprie, aiutandola a mettersi in piedi. Dopodiché le sfilò la camicia da notte macchiata, buttando anch’essa a terra. Osservò il suo corpo completamente esposto trattenendo il fiato, ma la sua espressione mutò in fretta, facendosi nuovamente preoccupata quando si rese conto dell’allarmante velocità con cui lei stava perdendo peso.
“Dovresti provare a mangiare qualcosina in più, mia diletta”, disse con dolcezza, mentre intingeva la spugna nell’acqua, per poi passarla con cura sul suo corpo. Con quel nomignolo era sempre riuscito a strapparle un sorriso, ma ora pareva che nemmeno lo notasse.
Sospirò di nuovo, riabbassando lo sguardo sul proprio lavoro. Passò la spugnetta sul suo petto, tra l’incavo dei seni e su di essi. Sorrise malinconico pensando a tutte le volte che lei si era lamentata del proprio seno, a detta sua troppo piccolo; solitamente in quei casi lui ne prendeva delicatamente uno tra le mani fingendo di studiarlo, per poi scoppiare a ridere e dirle che lo trovava perfetto così come era, aggiungendo che tutto il suo corpo lo trovava perfetto. Una volta le aveva anche detto che con la gravidanza solitamente aumentava; Elettra non gli aveva parlato per giorni, nonostante la marcata ironia della sua voce in quel momento. Aveva ritenuto più saggio non toccare mai più quell’argomento.
Girolamo scosse la testa: quei preziosi momenti con lei gli mancavano, ma dubitava che sarebbero potuti tornare. 
Decise di dedicarsi alle sue braccia. Dovette usare estrema cautela sul braccio sinistro, dove la ferita causata dalla lama di Francesco Pazzi stentava ancora a rimarginarsi. Il medico di bordo l’aveva visitata il giorno prima, affermando che, nonostante la lentezza della guarigione, pareva non essere infetta.
Ripensò a quell’attimo, a quando aveva spalancato il portone del Duomo e aveva visto quella spada calare sul suo capo: nemmeno si era reso conto di aver urlato a Pazzi di fermarsi, così come non si era accorto di aver estratto la propria e averla puntata al collo del suo alleato, o di averlo poi sbattuto con violenza contro le porte serrate della Sagrestia in cui si erano barricati Da Vinci e Lorenzo de Medici. In quel momento il suo unico desiderio era stato quello di ucciderlo. E lo avrebbe fatto, se non fosse stato per il Capitano Grunwald, che lo aveva costretto a ritornare alla realtà di quel momento; aveva indossato nuovamente la propria maschera da sfinge e in tono piatto aveva ordinato alle proprie guardie di rimettere Elettra in piedi e di condurla insieme con la Donati all’accampamento di Montefeltro, dove il Duca di Urbino, alleato dell’ultimo momento di Sisto, attendeva con impazienza di poter invadere la città con le sue truppe di mercenari. Le aveva lanciato giusto una fugace occhiata, senza nemmeno accorgersi che fosse ferita. Uno dei cerusici dell’esercito l’aveva ricucita alla bene e meglio, senza premurarsi di fare attenzione che non le rimanesse il segno una volta guarita. Probabilmente se fosse restato con lei sarebbe andata diversamente. 
Scosse la testa, pensando che ormai quello che era fatto era fatto e proseguì il suo percorso con la spugna su pancia e gambe. Sul ventre e sulle cosce, nei punti dove la tisana calda era caduta, la pelle appariva leggermente arrossata, ma non sembrava nulla di grave. 
Finì e lasciò cadere la spugnetta nella bacinella, poi andò alla cassettiera di fianco alla porta, prendendo da esse una lunga veste color rosa cipria, di un tessuto leggero; quella, insieme ad altre e a qualche paio di pantaloni erano stati reperiti miracolosamente da Zita nei giorni precedenti alla partenza, al porto di Pisa, quando entrambi si erano resi conto che non potevano lasciare Elettra con indosso gli abiti rotti ed insanguinati che aveva in Duomo per tutta la durata del viaggio. 
L’aiutò ad indossarla e poi le mise dietro l’orecchio una ciocca ribelle di capelli che le ricadeva sul viso, indugiando sulla guancia con la punta delle dita. Prese il suo volto tra le mani, lasciandole poi lentamente scivolare sul suo collo, sulle spalle ossute e poi giù, sulle braccia, fino ad arrivare a stringere le sue mani. Cercò per l’ennesima volta il suo sguardo, ma esso era completamente catturato dalla scrivania e dalle carte su di essa; la vide muovere un passo in quella direzione.
Girolamo sospirò, decidendo comunque di accompagnarla fino ad essa, sempre tenendola per mano. Una volta lì, le scostò la sedia per permetterle di sedersi. Osservò i suoi occhi guizzare da una parte all’altra alla ricerca di una matita e di alcuni fogli bianchi. Aprì uno dei cassetti, prendendo tutto l’occorrente e mettendoglielo di fronte. Elettra cominciò a disegnare senza mai alzare lo sguardo su di lui, di fianco a lei, come se nemmeno esistesse. 
La osservò ancora per alcuni istanti con un finto sorriso sulle labbra, in netto contrasto con gli occhi preoccupati, poi ritenne più saggio uscire dalla cabina. 
Chiuse alle proprie spalle la porta con lentezza, evitando accuratamente di produrre anche il più minimo rumore, e si appoggiò alla sottile parete di legno che divideva i vari ambienti della nave con tutto il proprio peso, come se tutte le sue energie si fossero appena prosciugate, nonostante la giornata fosse appena iniziata. Chiuse gli occhi e si massaggiò lentamente le tempie, il volto affranto, per una volta libero da ogni maschera. 
“Come sta?”
La voce di Zita lo colse di sorpresa, forse per la prima volta da quando era al suo servizio. 
Alzare nuovamente le palpebre fu uno sforzo considerevole. Si chiese da quanto tempo la sua fedele serva abissina si trovasse in piedi davanti a lui. Probabilmente era lì da ancora prima che uscisse dalla cabina.
Come risposta si limitò ad abbassare lo sguardo sulle tavole di legno grezzo della pavimentazione e a scuotere la testa, in preda allo sconforto.
Gli scappò un lungo sospiro.
Seguirono alcuni momento di silenzio, che furono però rotti da Zita. “Si sta lasciando morire”, disse in un sussurro. 
Anche Girolamo era arrivato alla stessa conclusione ma, a differenza sua, non aveva avuto il coraggio di ammetterlo a parole.
Ciò che la sua schiava però non avrebbe mai detto era che, se si trovavano in quella situazione, la colpa era solo sua. Il Conte questo lo sapeva e non si dava pace di ciò.
Ancor prima della congiura in Duomo, quando il piano di mettere fine ai Medici cominciava a prendere forma, si era interrogato sulla possibile reazione di Elettra. Più la data fatidica si avvicinava, più lui si preparava ad affrontare la sua collera in caso di successo del piano. Avrebbe sopportato qualsiasi insulto, qualsiasi parola che il dolore e la rabbia l’avrebbero indotta a dire. Avrebbe sopportato perfino un suo tentativo di tagliargli la gola nel sonno o azioni simili. Ma mai si sarebbe aspettato tutto quello: non c’erano state parole maligne, né azioni avventate. Non era successo niente di quello che si sarebbe aspettato: Elettra non parlava e ogni suo singolo movimento, persino il più elementare come alzarsi dal letto doveva essere guidato da qualcuno. L’unico gesto che compiva di propria spontanea volontà era disegnare. Passava le sue giornate a disegnare il volto di Giuliano de Medici. 
Da quel 26 aprile l’unica parola uscita dalla sua bocca era stato un “Ti prego” appena mormorato, poco prima che il moro e la Donati finissero fuori bordo. 
Forse non avrebbe dovuto farla assistere a quella scena. Se solo l’avesse lasciata in cabina a disegnare, probabilmente nemmeno si sarebbe accorta della loro presenza a bordo.
Scosse la testa, ben consapevole che il passato non si poteva cambiare.
Il passato…
Era strano capire di essere stato davvero felice solo quando quella felicità la si era persa: aveva sempre pensato al suo soggiorno a Firenze come ad un peso, un’incombenza irritante a qui non aveva potuto sottrarsi, eppure quello che solo un anno prima avrebbe considerato un inferno, grazie a lei -e solo grazie a lei- si era rivelato il paradiso.
 
1477...

Sentì la porta della camera da letto aprirsi e richiudersi poco dopo, ma si impose di non lasciarsi distrarre e di finire ciò che stava facendo. Con un ginocchio a terra e le mani giunte, strette intorno al proprio rosario d’argento, Girolamo finì di sussurrare quella semplice preghiera in latino, la prima che la sua memoria ricordava di aver imparato, quando si trovava nel monastero a cui suo padre lo aveva dato in affidamento in attesa di poterlo usare come proprio strumento. Era un retaggio di quei tempi anche il consueto rosario mattutino. 
Si fece il segno della croce prima di rimettersi in posizione eretta e voltarsi in direzione della porta.
Elettra era in piedi davanti a lui, con un vassoio con due tazze fumanti tra le mani e lo osservava con un’aria perplessa.
Poteva vedere nelle sue iridi azzurre le emozioni susseguirsi velocemente e mescolarsi tra loro: vi leggeva una punta di genuina curiosità per quei gesti che a lei parevano quasi oscuri e occulti, senz’altro inconsueti. Per un istante gli parve di scorgere un tentativo di comprensione, ma esso lasciò ben presto spazio ad un’espressione di disappunto. Ma anche essa scomparve poco dopo, spazzata via da quella che inizialmente era solamente una scintilla di ironia, ma che alla fine coprì ogni altra emozione, arrivando a contagiare anche le sue labbra vermiglie, che si piegarono in un sarcastico sorriso, di quelli che in Girolamo creavano sempre sentimenti contrastanti: una piacevole irritazione di cui non poteva fare a meno.
“Ci sono modi più proficui di passare il proprio tempo”, la sentì dire con il suo tono di voce impertinente. 
Il Conte se lo aspettava, ma alzò comunque un sopracciglio, osservandola con un’espressione minacciosa. 
Elettra lo sorpassò con passo calmo, come se l’aria intimidatoria di Riario non avesse il minimo effetto su di lei, e poggiò il vassoio su uno dei due comodini.
“Che avresti fatto se non fossi stato Conte?”, gli chiese con genuina curiosità, sedendosi sul bordo del letto a gambe incrociate.
Girolamo indugiò sulla risposta per alcuni istanti: se suo padre lo avesse lasciato al monastero c’erano ben poche strade che avrebbe potuto intraprendere… 
“Il monaco, probabilmente”, rispose.
Osservò la giovane sbuffare e storpiare la propria faccia in un’espressione di disappunto che le dava un’aria buffa, amplificata dalle gocce di vernice dai diversi colori che si trovavano sparse sul suo viso a mo’ di tante piccole lentiggini. 
“Non mi pare tu abbia la stoffa per fare il monaco”, ribattè lei, lasciando correre il proprio sguardo tra le lenzuola sfatte e i cuscini a terra. 
Guardò anche lui in quella direzione: sul suo volto fece la sua comparsa un sorriso malizioso. “Dici di no, mia diletta?” 
“Stanotte non mi pare tu ti sia comportato da monaco”
Girolamo sospirò al ricordo della piacevole nottata che avevano passato assieme. “No, direi proprio di no”, concluse alla fine, guardandola profondamente negli occhi. Se solo il sole non fosse stato sul punto sorgere, facendo così scadere il tempo a loro disposizione per restare assieme, le avrebbe proposto di ripetere l’esperienza. 
Si sedette al suo fianco senza mai interrompere il contatto visivo. “E tu invece che avresti fatto se non ti fossi dedicata all’arte?”, le domandò con voce bassa, ad un soffio dalle sue labbra. 
“Sarei diventata un’esploratrice”, fu la pronta risposta di lei. Si alzò di scatto in piedi sul letto. “Avrei avuto una mia nave, una mia ciurma e avrei scoperto qualche nuovo continente”. Si guardò in giro. “E poi avrei combattuto contro i pirati”. In un gesto fulmineo afferrò il candeliere che vi era sul comodino, puntandoglielo poi addosso come se si fosse trattato di una spada. 
Girolamo rise di cuore. Un altro, quello, dei miracoli che quella ragazza riusciva a compiere su di lui. 
“Le tisane si raffreddano”, disse poco dopo, riferendosi alle due tazze non più fumanti poggiate sul comodino. 
Elettra sbuffò, non soddisfatta della così breve durata di quel momento di ilarità. Si guardò in giro, come se cercasse qualcosa e, quando non parve trovarlo, la sua espressione divenne di disappunto. “Voglio un cappello di quelli a tesa larga, con una lunga lunga piuma sopra”, finse di piagnucolare, imitando in tutto e per tutto il comportamento di un bambino capriccioso. 
Il Conte si lasciò andare nuovamente ad un pieno sorriso ironico, dopodichè le porse una delle due tazze. Fece per portarsi la propria alle labbra, ma lei lo fermò con un gesto della mano: la sua espressione in quel momento non prometteva nulla di buono.
“Prima di mangiare qualcosa bisogna sempre dire un Padre Nostro, ve ne siete forse scordato, Conte Riario?”, lo prese in giro fingendo un’aria angelica. 
Sul viso dell’uomo comparve una smorfia di disappunto. “Finirai per essere essere accusata di stregoneria un giorno o l’altro se continui così”, borbottò.
“Se fossi stata una strega a quest’ora avrei già trasformato Francesco Pazzi in un ratto”, fu la sua pronta risposta. 
Riuscì a strappargli nuovamente un sorriso. Sorriso che restò impresso sul volto di Girolamo anche mentre sorseggiava lentamente la propria tisana al lampone, non distogliendo però mai lo sguardo da lei. 
“Hai dipinto per tutto il resto della notte?”, le chiese, rompendo così il silenzio fatto di lunghi sguardi che si era venuto a creare. Non era la prima volta che lo faceva, accadeva piuttosto spesso.
Elettra annuì.
“A cosa stai lavorando?”
Questa volta scosse la testa. 
Girolamo tentò di farle gli occhioni, ma nemmeno quella tattica parve funzionare.
“Non è ancora finito”, si spiegò meglio lei.
“Posso vederlo?”
“Tu provaci e io ti scaglio addosso un po’ di malocchio per davvero”


“Mi manca”, disse Girolamo in un flebile sussurro. Ciò che vedeva ogni giorno, la donna che lui e Zita tentavano con tutte le loro forze di accudire al meglio non era la stessa che aveva conosciuto a Firenze. Quella ragazza, quella giovane e impertinente fiorentina, aveva lo sguardo attento e brillante e una lingua che nulla gli lasciava perdonato; nessuno prima di quel momento gli aveva parlato come aveva fatto lei. E nessuno prima di lei era riuscito a riportare a galla la sua coscienza. 
Ora, invece, di quella ragazza allegra e spensierata non rimaneva nulla, nemmeno lo sguardo, il colore degli occhi. Tutto ciò che era rimasto era un guscio vuoto, che lui stesso aveva svuotato, e che lentamente si stava consumando anch’esso. 
Lei gli aveva dato tanto, troppo, e lui in cambio la stava uccidendo. 
Girolamo scosse la testa. “Non possiamo permetterglielo, Zita”
La serva annuì alle sue parole. “Come pensate di fare?”
Il suo padrone chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, in attesa di un’idea. Quando li riaprì, essi si focalizzarono su di una porticina appena visibile sulla destra, in fondo a quel corridoio scarsamente illuminato; essa portava all’ultimo livello della nave, nel punto dove si trovavano le celle.
Zita colse al volo ciò che il Conte aveva in mente. “Pensate che il ragazzo possa riuscire a farla ragionare?”
Udì un pesante sospiro. 
“Lo spero. Lo spero tanto”


Nda 
Eccomi qui finalmente con il nuovo capitolo! Innanzitutto mi scuso per il ritardo - di ben due settimane - con cui lo pubblico, ma ultimamente sono stata molto occupata con l'accademia. 
Bene! Finalmente entrano in scena anche questi due. Siete felici che Elettra sia "tornata" (più o meno)? 
Non lo nego: è stato un parto multigemellare con complicazioni; di questo capitolo avrò almeno quattro differenti versioni ahahah. Non sono nemmeno completamente soddisfatta di questa versione, ma tra tutte era la meno peggio. 
Cercando di essere più puntuale, alla prossima!

   
 
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