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Autore: _Pulse_    15/10/2017    2 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Buongiorno a tutti e buona domenica :)
Eccoci qua. Risolto il caso della perla nera e del diamante azzurro mi sembrava giusto aprirne un altro, magari uno in cui Sherlock e Arsène si affronteranno un po' più direttamente. Spero vi piaccia!
Questo capitolo è importante anche per i legami familiari (da qui il titolo)... Sì, è giunto il momento che tutti aspettavate: come reagirà John alla scoperta?
Grazie a chi ha letto e commentato lo scorso capitolo e chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Vi voglio bene :D
Alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

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10. Blood bonds


«Come facevi a sapere che era stata legittima difesa?».
Sherlock la guardò prendere una forchettata di uova strapazzate che dall'aspetto sembravano di gomma e portarsela alla bocca. Masticò senza fare una piega e Sherlock ebbe la forte tentazione di assaggiarle per sapere se almeno il gusto fosse buono, ma si trattenne.
Geneviève arricciò gli angoli della bocca in un sorriso beffardo, pressoché identico a quello di suo padre. «Hai intenzione di dirmelo o hai paura che capisca il tuo segreto?».
«Non c'è alcun segreto», rispose. «Ho semplicemente prestato attenzione ai dettagli. Probabilmente tu eri troppo sconvolta, per questo non l'hai capito subito».
«Beh, grazie per la fiducia».
Sherlock non riuscì più a resistere e le rubò la forchetta dalle dita per portarsi alla bocca un po' di uova.
«Ehi!», si lamentò la ragazzina. «E poi chi sarebbe il ladro?!».
Il detective avrebbe riso se non fosse stato impegnato ad arraffare il piatto per sputarci dentro quello si era appena messo in bocca.
«Ma come fai a mangiare questa roba?!», esclamò, il volto accartocciato in una smorfia di disgusto.
Geneviève si addossò contro lo schienale della sedia ed incrociò le braccia al petto, un sopracciglio inarcato. «Sarà perché è da quattro anni che vivo negli ospedali e non posso permettermi altro».
Sherlock si irrigidì un poco, scioccato dalla sua stessa stupidità. Quindi si alzò e chiudendosi il cappotto le offrì la mano, senza guardarla negli occhi.
«Che cos'hai in mente?».
«Non sei più costretta ad accontentarti».
Non era la risposta che si aspettava, ma Geneviève decise di fidarsi un'altra volta, specialmente ora che suo padre era ancora disperso.
Pensava che Sherlock l'avrebbe portata in una caffetteria degna del nome, invece una volta scesi dal taxi si ritrovarono di fronte alla porta nera e lucida del 221B.
Geneviève restò sul marciapiede, a fissare il batacchio storto, mentre il detective apriva ed entrava.
«Avanti, dobbiamo sbrigarci prima che la signora Hudson torni dalla sua lezione di pilates».
Sopraffatta dalla curiosità, la ragazzina entrò e si tolse il cappottino per appenderlo accanto a quello di Sherlock, nell'ingresso. Quindi lo seguì fino all'appartamento della signora Hudson, in cui era riuscito ad entrare fin troppo facilmente, e ad un suo cenno si sedette al piccolo tavolo della cucina.
«Che cos'hai in mente?», ripeté la domanda, mentre il consulente investigativo apriva il frigorifero e le ante dei mobili sopra i fornelli per tirare fuori vari ingredienti e diverse pentole. Geneviève sentì il cuore iniziare a battere più forte, realizzando che Sherlock le stava preparando una tipica colazione all'inglese.
Era così imbarazzata - almeno quanto il detective - che si alzò dalla sedia per affiancarlo. La guardò solo una volta, con la coda dell'occhio, poi si misero al lavoro.
Sherlock maneggiò con maestria il coltello, tagliando i funghi e i pomodori, mentre lei faceva rosolare il bacon fino a farlo diventare croccante. Nella stessa padella, poi, il detective buttò le verdure e le fece saltare come un vero chef, sotto gli occhi sgranati di Geneviève, la quale avrebbe dovuto prestare attenzione al tostapane.
In un altro pentolino Sherlock cucinò le uova strapazzate e Geneviève fu mandata davanti al forno a microonde, dove aveva messo a riscaldare dei fagioli in salsa già pronti. Al din di fine cottura, Sherlock le lanciò due presine senza nemmeno sollevare gli occhi dalle uova.
In meno di dieci minuti il detective impiattò, spolverando tutto con un po' di sale, pepe e del prezzemolo, quindi portò i due piatti in tavola e si accomodò, deviando con insistenza il suo sguardo.
Lo stomaco di Geneviève brontolava rumorosamente per via del profumino che le stuzzicava le narici, ma non poté trattenersi dal dire: «Tu sai cucinare».
«Cucinare è chimica. I giusti elementi, le giuste porzioni, i giusti tempi», rispose in modo meccanico e finalmente alzò gli occhi nei suoi per rivolgerle un'occhiata serissima. «Ma non lo sa nessuno, e vorrei che le cose rimanessero così».
«Perché? Insomma...».
«Oggi è stata un'eccezione», sottolineò, stringendo forte nei pugni forchetta e coltello. «Se si scoprisse, ogni giorno dovrei perdere una quantità esorbitante di tempo ed è inaccettabile».
«Quindi preferisci che qualcun altro cucini per te, mentre tu ti fai gli affari tuoi».
Sherlock sorrise. «Vedo che hai capito. Ora zitta e mangia, prima che si freddi».
Geneviève non approvava la sua condotta, ma non se lo fece ripetere due volte e si avventò sul piatto. Spolverò tutto, persino le fette di pane che era riuscita a far bruciacchiare, e una volta a pancia piena, soddisfatta, tornò all'attacco.
«Non mi hai ancora detto come facevi a sapere che era stata legittima difesa».
Sherlock bevve un sorso di caffè e poi prese il tovagliolo accanto al piatto, sventolandolo di fronte al viso della ragazzina prima di usarlo per pulirsi la bocca.
«Ma certo!», esclamò lei, colpendosi la fronte. «Il fazzoletto sul comodino!».
Il detective sorrise, dimostrandosi quasi orgoglioso, e la lasciò continuare.
«Non poteva di certo appartenere al vecchio Hautrec, visto che una ferita al collo inferta da un tagliacarte avrebbe procurato un'emorragia che avrebbe inzuppato il fazzoletto. Inoltre, sarebbe stato trovato vicino al corpo della vittima. Secondo il testimone, invece, era solo parzialmente sporco di sangue. Mia madre deve averlo usato dopo essersi ferita alla fronte ed averlo dimenticato sul comodino dopo aver suonato il pulsante d'emergenza».
«Ecco la tua risposta», disse Sherlock.
Geneviève ridacchiò divertita. «Avevi ragione, non c'è alcun segreto».
Il detective fece per unirsi a lei, ma la porta alle loro spalle si aprì all'improvviso, mostrando una signora Hudson provata per la lezione di pilates. Lasciò cadere la borsa da ginnastica a terra e guardò i due, sconcertata.
«Che diavolo ci fate qui? E cos'è successo alla mia cucina?!».
Sherlock aprì la bocca, pallido, ma Geneviève si alzò e fu più veloce di lui nel dire: «Mi dispiace signora Hudson, è colpa mia. Volevo ringraziare il signor Holmes per l'ospitalità, così sono tornata per prepargli la colazione, ma lui non aveva niente in frigo. Pensavo... pensavo sarebbe tornata più tardi».
La padrona di casa la osservò a lungo, indecisa se crederle o meno. Alla fine dovette bersela, perché le rivolse un sorriso carico di dolcezza e le disse: «Sei davvero una cara ragazza, Geneviève».
«Quindi non sono nei guai?», le chiese speranzosa.
Il volto della signora Hudson perse ogni traccia di tenerezza. «Non ho detto questo».

Geneviève si ritrovò ad insaponare, grattare e risciacquare le stoviglie, per poi passarle a Sherlock, il quale le asciugava con un panno e poi le sistemava nella credenza. Aveva già fatto gioco di squadra con il detective, ma quello... quello era esilarante, tanto che ad un tratto non riuscì più a frenare le risate, e Sherlock neppure.
Quando si calmarono, il consulente investigativo sussurrò: «Grazie per aver mantenuto il segreto».
«Grazie a te per avermi aiutata a risolvere il caso del diamante azzurro».
«È stato un piacere».
«Sai... Dovremmo rifarlo, qualche volta».
«Ti ho detto che questa è stata un'eccezione».
«Non intendevo la colazione», sbuffò, dandogli un colpetto d'anca. «Investigare insieme».
Sherlock la guardò, vagamente sorpreso. «Vorresti davvero risolvere altri casi al mio fianco?».
Geneviève grattò con più energia il fondo della padella che avevano usato per il bacon - una scusa per non ricambiare il suo sguardo.
«Se pensi che io sia troppo piccola...».
«No», la interruppe. «No, penso sia un'ottima idea. John non si offenderà, se per qualche caso farò a meno di lui».
La ragazzina si illuminò, il cuore che le batteva forte nel petto. Raramente era stata così felice. Al contempo però, non poté fare a meno di pensare a suo padre e al suo piano per raccogliere informazioni sul detective. Poteva davvero reggere la pressione, essere sia amica di Sherlock Holmes che figlia di suo padre?
«Ho detto qualcosa di sbagliato?».
Geneviève rialzò gli occhi in quelli azzurri di Sherlock ed abbozzò un sorriso. «No, stavo solo pensando che avrei già un caso da proporti».
«Di che stai parlando?», le domandò con la fronte corrugata.
«La sorella di mia madre! Voglio trovarla, voglio che si incontrino!».
Il detective prese la padella che aveva appena finito di sciacquare e l'asciugò, fingendo di non aver sentito quell'ultima frase. Però l'aveva sentita, l'aveva sentita eccome: lo si capiva dal modo in cui il suo volto si era trasformato in una maschera di pietra.
«Che cosa c'è?», chiese Geneviève, innervosita dal suo silenzio.
Le diede le spalle per sistemare la pentola e disse piano: «Non posso aiutarti».
«Mia zia merita di sapere che sua sorella sta morendo! E poi...».
Sherlock si girò di scatto, gli occhi assottigliati in due fessure. Geneviève ebbe la tentazione di arretrare, o perlomeno deviare il suo sguardo, ma non ci sarebbe riuscita nemmeno volendo.
«Continua», la esortò il detective.
«Mia zia... mia zia sarebbe un'alternativa, se le cose con mio padre... beh, hai capito».
Non ci aveva pensato. I tratti del viso del consulente investigativo si ammorbidirono, mostrando persino del rammarico. Non aveva pensato che non voleva farlo solo per sua madre, ma anche per se stessa, per allargare la famiglia e sentirsi un po' meno sola.
Ora che l'aveva capito, Geneviève era sicura che non le avrebbe negato il suo aiuto. Ancora una volta si sbagliò.
«Non posso aiutarti», ripeté, quella volta con un tono che non ammetteva repliche.
Avrebbe dovuto chiedere il perché, pretendere almeno un valido motivo, ma la rabbia prese il sopravvento. Anche lei, come suo padre, si lasciava travolgere dalle emozioni, tanto da dimenticare tutto ciò che Sherlock aveva fatto di buono per lei.
Lo schizzò con il getto dell'acqua e poi, furibonda, corse alla porta, da dove gridò: «Vorrà dire che la troverò da sola!».
Sherlock non la seguì e Geneviève si ritrovò sul marciapiede, con le lacrime agli occhi. Tirò fuori il cellulare e vi collegò le cuffiette. Con la musica sparata a tutto volume nelle orecchie, iniziò a correre.

Erano trascorsi due giorni da quella mattina e Geneviève non l'aveva più visto né sentito. E così avrebbe voluto continuare: non voleva ripresentarsi alla sua porta solo per ammettere che senza il suo aiuto non aveva fatto alcun passo avanti.
Tutto ciò che sapeva di sua zia era che si chiamava Mary e che da piccola era identica a sua madre, come aveva potuto constatare di persona dopo aver trovato una fotografia nascosta tra i suoi vestiti, nella loro casa a Brixton.
Clotilde non aveva conservato nient'altro, forse proprio per mantenere il segreto, e Geneviève si era ritrovata con in mano un pugno di mosche.
Ma non sarebbe tornata da Sherlock ad implorarlo, ne andava del suo orgoglio. Per questo teneva il broncio a suo padre, il quale stava per affidarla niente meno che al detective.
«È proprio necessario?», domandò per l'ennesima volta. «Non sono una bambina, non ho bisogno della babysitter. E poi perché proprio Sherlock? Non posso stare con uno dei tuoi uomini? Andrebbe bene anche Ernest».
«Ernest è terrorizzato da te», rispose Arsène, senza distogliere lo sguardo dal finestrino.
Erano giorni che la sua mente sembrava da un'altra parte, come se stesse pensando a come risolvere un problema irrisolvibile. Geneviève aveva provato a chiedergli che cosa lo preoccupasse tanto, ma lui aveva sempre negato, o cambiato argomento.
«Che cosa gli hai fatto?».
«Non so di cosa tu stia parlando», mentì.
«Ad ogni modo, nel posto dove sto andando, avrò bisogno della scorta al completo», le confessò,  dandole finalmente un indizio.
L'unico motivo per cui avrebbe potuto aver bisogno di tutti i suoi uomini era un colpo. E uno grosso, per giunta. Ora il poco tempo passato in ospedale, le parole sussurrate a Baffoni e le lunghe riunioni con i suoi sottoposti avevano finalmente un senso. Geneviève avrebbe dovuto capirlo prima, ma era stata così assorbita dalla proprie inconcludenti indagini da non aver visto quello che stava accadendo sotto il proprio naso.
Capiva che non l'avesse inclusa nel suo piano per via della promessa fatta a sua madre, ma almeno avrebbe potuto informarla... La delusione e il timore che non si fidasse ancora di lei la fecero scivolare ancora un po' di più nel sedile, col desiderio che la pelle nera la inglobasse. Meglio una vita vissuta all'interno di una limousine che tra un padre che la teneva a distanza e un detective che si rifiutava di aiutarla a rintracciare un membro della famiglia.

***

«Ehi, volevi vedermi?».
Sherlock diede le spalle alla finestra e respirò profondamente. John ebbe un brutto presentimento, il quale si intensificò quando l'amico gli disse che forse avrebbe fatto meglio a sedersi.
Il dottore si avvicinò alla poltrona, ma non si sedette. «Di che si tratta, Sherlock? Se è per chiedermi di Molly...».
L'investigatore corrugò la fronte. «Cosa? Perché dovrei chiederti di Molly?».
«Beh, quando Arsène ha raccontato del caso che tu e Geneviève avete risolto insieme, quello del piede del diavolo, avevo intuito che tu e lei vi eravate visti. Volevo parlartene, ma è uscita fuori la questione Irene Adler e non ne ho più avuto l'occasione. Poi l'altro giorno, quando sono andato a prendere Rosie, è stata lei a raccontarmi tutto».
«Lei...? Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere?», borbottò, finendo lui stesso per sedersi, nervoso.
«Che razza di domanda è? Lo sai perché. È la madrina di mia figlia, noi due siamo amici».
«Quando ti fa comodo», sussurrò Sherlock, ma non abbastanza a bassa voce da non farsi sentire.
«Che cos'hai detto? Che intendi dire?».
Il detective gli rivolse un'occhiata tagliente. «Sei stato a dir poco spregevole, quando l'hai costretta a dirmi che avresti preferito l'aiuto di chiunque altro piuttosto che il mio. Non sono ferrato in questo campo, ma non penso si sia trovata a suo agio nel farlo».
«Oh. Oh, questa è bella!», gridò John, con un sorriso ironico sul volto. «Tu, proprio tu, vieni a farmi la ramanzia per averla fatta soffrire?! C'è una bella differenza tra me e te, amico: io le ho già chiesto scusa per quello, più volte. Tu, invece, continui a comportarti da idiota!».
Sherlock deviò il suo sguardo, mentre il dottor Watson continuava: «Mi ha raccontato dei biglietti, lo sai? Di quello che le hai scritto. Come puoi pretendere che passi oltre, dopo quello che le hai detto senza ricevere nemmeno una spiegazione?! Se proprio vuoi farti del male non dicendole che era vero, almeno abbi il coraggio di dirle che l'hai fatto perché dovevi salvarle la vita! Così se ne farà una ragione, o ci proverà! Ma il tuo silenzio... La stai torturando, Sherlock».
Il suo tono di voce si era ammorbidito alla fine, tuttavia il detective avrebbe preferito che continuasse a gridare. Se lo meritava.
«Mi dispiace molto», rispose mestamente. «Ma lo sappiamo entrambi che è meglio così».
John non sembrava d'accordo, affatto. Ciò nonostante si lasciò cadere sulla propria poltrona, sospirando.
«Di che cosa devi parlarmi, allora?».
Sherlock tornò a mostrare quei segni di incertezza che tanto lo intimorivano, quella volta però fece del suo meglio per controllarli e guardandolo profondamente negli occhi rispose: «Di una cosa che ho scoperto recentemente e che temo riaprirà una ferita. Per questo ho aspettato di esserne assolutamente certo, prima di parlartene. Ho condotto alcuni test del DNA e quelli... quelli non mentono».
John si portò le mani sugli occhi, avvertendo il proprio cuore appesantirsi di diverse tonnellate. «C'entra Mary, non è vero?».
«Sì, John».
Il dottore prese un profondo respiro e guardò l'amico sinceramente addolorato di fronte a lui. «Avanti, sono pronto».
E così Sherlock gli raccontò tutto: dell'incontro con Geneviève e sua madre, malata di cancro e terribilmente somigliante a Mary; della conferma ricevuta da Arsène e successivamente dalla stessa donna, dopo che aveva scoperto della sua complicità con il Ladro Gentiluomo in diversi casi, in particolare quello del diamante azzurro. Clotilde Destange, il suo nome vero e il cognome della sua famiglia affidataria - diversa da quella di Mary, - gli aveva anche rivelato che l'ultimo contatto con la sorella era stato prima del suo matrimonio.
Sherlock aveva avuto due giorni per verificare che la storia reggesse, ma non aveva trovato prove fisiche. L'incidente in cui erano morti i loro genitori doveva essere stato banale, poco eclatante e comunque troppo generico per individuarlo tra i miliardi di casi identici. Però le tempistiche combaciavano perfettamente.
Quello che voleva erano prove solide - non poteva rischiare di farlo soffrire nuovamente per nulla - perciò era ricorso al test del DNA.
Grazie all'anello che Clotilde gli aveva dato era riuscito a prelevare delle tracce epiteliali a malapena sufficienti per un solo tentativo. Aveva fatto bene a rischiare però, perché aveva ottenuto la risposta che cercava: Mary e Clotilde erano veramente sorelle.
John si alzò e camminò per un po' per il salotto, dalla porta della cucina a quella che dava sulle scale. Sherlock gli diede tutto il tempo necessario a metabolizzare quel flusso di informazioni, con le gambe accavallate e le mani posate sui braccioli della poltrona.
Ad un tratto il dottore si girò verso di lui e con un enorme punto interrogativo sul volto chiese: «Come hai ottenuto un campione del DNA di Mary?».
Sherlock deviò il suo sguardo, ma non gli negò la risposta: «Non hai ancora avuto la forza di liberarti delle sue cose. Le hai inscatolate, ma...».
«Sei entrato in casa mia quando non c'ero. È questo che stai dicendo».
«Sì, in sostanza».
John annuì e riprese a camminare. Altri due minuti di passi meditabondi e si fermò di nuovo per dire: «Quindi mi stai dicendo che Geneviève e Rosie sono cugine? E che... che sono imparentato con Arsène Lupin?!».
«Poteva andarti peggio».
«E lui l'ha sempre saputo? Voleva anche che accettassi dei soldi da lui! Che faccia tosta!».
«Lui lo sa», confermò Sherlock, il quale si alzò dalla poltrona per tornare alla finestra. Con le dita sfiorò le corde del violino, senza raccoglierlo dalla scrivania, e aggiunse: «Ma Geneviève no. Solo due giorni fa ha scoperto che sua madre aveva una sorella e ora si è messa in testa che deve trovarla, prima che sia troppo tardi. Ha chiesto il mio aiuto, John».
Il dottore si portò le mani sul viso, iniziando a capire perché non l'avesse più vista da quelle parti. «Tu gliel'hai negato, non è vero?».
«Che altro potevo fare? Dirle che conoscevo sua zia? Che ha sposato il mio migliore amico e che ha avuto una bambina, sua cugina? Avrei potuto farlo, ma tu saresti stato inevitabilmente compromesso».
Sherlock si girò per tornare a guardarlo negli occhi. Dal canto suo John non sapeva che dire, così lasciò che fosse il detective a riempire il silenzio.
«Lei stessa ha detto di voler trovare sua zia in modo tale che se le cose con suo padre non fossero andate bene avrebbe avuto qualcun altro su cui contare. Sei sicuro di volere questa ragazzina nella tua vita, John? È pur sempre una Lupin».
«È pur sempre mia nipote», replicò a tono, ancor prima di poter decidere se fosse saggio o meno. Era vero che si trattava della figlia di quello che si sospettava essere il ladro più astuto del mondo, ma se c'era anche una sola possibilità, una sola, che non prendesse la sua stessa strada, allora dovevano tentare.
Sherlock parve capirlo e gli sorrise dolcemente, sollevato che fosse giunto alla stessa conclusione.
«Bene», disse. «Avevo già promesso a Clotilde che l'avrei tenuta al sicuro per Mary».
John avrebbe voluto prenderlo a pugni per aver fatto l'ennesima promessa senza avere la completa certezza di poterla mantenere, ma poi scorse Mary seduta sul divano, con le ginocchia strette al petto, un sorriso felice e gli occhi colmi d'orgoglio. Gli indicò Sherlock con un cenno del capo e John capì immediatamente quello che doveva fare.
Appoggiandosi allo schienale della poltrona con entrambe le mani, disse: «Perciò, anche se io ti avessi detto che non ne volevo sapere, tu avresti comunque cercato di portarla sulla buona strada?».
«Non ci sono riuscito con suo padre, magari lei...».
«No, c'è di più», lo interruppe, ottenendo l'approvazione di Mary. «Tu ti sei affezionato».
Sherlock quella volta non fuggì, quella volta no. Anzi ricambiò il sorriso ed unendo le mani dietro la schiena disse: «Pensavo di averti già fatto capire che grazie a te ho realizzato che la famiglia può andare ben oltre i legami di sangue».
Ecco, questo era quello che voleva sentirsi dire.
John si lasciò cadere sulla poltrona e nonostante tutte quelle rivelazioni gli fossero cadute tra capo e collo all'improvviso, non se ne sentì appesantito. Non se al suo fianco aveva Sherlock, pronto ad aiutarlo a sostenerle.

***

Arsène scese dalla limousine ed aiutò la figlia, porgendole la mano. Lei la evitò e lui sospirò, dirigendosi verso la porta. Bussò un paio di volte col batacchio che aveva raddrizzato e quando la signora Hudson aprì la porta la salutò con meno brio del solito, chiedendo di Sherlock.
«È di sopra, entrate pure».
«Non posso, sono in partenza», si scusò Arsène. «Vogliate solo dirgli che gli sono davvero grato per l'ospitalità che darà a mia figlia».
Quindi prese il volto di Geneviève per darle un bacio sulla fronte, al quale lei reagì con una smorfia.
«Sarò di ritorno domani mattina. Farai la brava, oui?».
La ragazzina annuì di malavoglia, così che la lasciasse andare, poi guardò il padre risalire sulla limousine. Una volta lontano, lasciò cadere la borsa nell'androne e le tirò un calcio, gridando improperi in francese.
La signora Hudson si portò le mani alla bocca, scossa, fino a quando non vide Sherlock e John precipitarsi giù dalle scale.
«Che cos'è successo?», chiese il dottore, fissando prima la padrona di casa e poi la ragazzina e viceversa.
«Un pacco! Crede che io sia un maledetto pacco!», gridò Geneviève, accanendosi ancora contro la borsa.
«Su, adesso calmati», fece un tentativo John. «Vieni a bere una tazza di té, così puoi raccontarci cosa sta succedendo».
Fallendo con le buone maniere, Sherlock decise di intervenire a modo suo, ma non appena le sfiorò la spalla la ragazzina lo trucidò con lo sguardo, spingendolo lontano da sé.
«Non mi toccare», sibilò, prima di correre su per le scale e chiudersi a chiave nella vecchia stanza di John.
I due uomini si fissarono, chiedendosi se fosse troppo tardi per tirarsi indietro.

***

«Forse dovrei prendermi una giornata di ferie», esclamò John, gli occhi rivolti verso il soffitto, oltre il quale sapeva ci fosse la nipote di cui aveva appena scoperto l'esistenza.
«Forse dovresti», rispose Sherlock con quel suo tono assente, segno che stava pensando ad altro e non aveva nemmeno sentito le sue parole. Anche la sua posizione lo confermava: appollaiato sulla poltrona, con le dita unite appena sotto le labbra.
«Perché Arsène avrebbe dovuto affidarla a me?», si chiese, rispondendo a tutte le domande di John. «Si è portato dietro almeno dieci uomini...».
«La signora Hudson ha detto che Arsène era in partenza, forse...».
Sherlock sgranò gli occhi e guardò l'amico. «Quanto sono stupido?!».
«Da uno a dieci?».
«John, Arsène ha in mente un colpo! Per questo non si è portato dietro Geneviève, per questo lei è così arrabbiata e per questo l'ha portata qui, così da costringerci a farle da babysitter! Ma si sbaglia di grosso se pensa di potermela fare sotto il naso!».
Il detective si alzò e prese un plico di giornali, li lasciò cadere sul grembo di John e poi si riaccomodò col pc sulle gambe e il proprio cellulare in una mano.
Il dottore non dovette nemmeno chiedere, sapeva fin troppo bene quale fosse il suo compito: sfogliare ognuno di quei giornali per cercare ciò che Arsène aveva intenzione di rubare.

***

Geneviève si era calmata, finalmente, e il silenzio che proveniva dal salotto la rendeva soltanto più curiosa. Così, dimentica dell'arrabbiatura con Sherlock Holmes, uscì dalla stanza e scese le scale in punta di piedi. Evitò persino il gradino scricchiolante che aveva notato la prima ed unica volta che aveva dormito lì, quindi nessuno si accorse di lei, nascosta dietro lo stipite della porta.
«Perché non chiediamo a Geneviève se sa qualcosa?», domandò il dottor Watson.
«Perché suo padre non le ha detto nulla. Se aveva già in mente di portarla qui, non avrebbe rischiato tanto mettendola a conoscenza del suo piano».
«Va bene, ma tentar non nuoce».
«John, non è il momento».
«Lo so, lo so». Scoperto, il dottore sospirò e tornò a sfogliare giornali.
Geneviève si arrischiò a guardare all'interno del salotto, incuriosita da quell'ultimo scambio di battute. Strinse i pugni lungo i fianchi, stufa marcia che le persone che le stavano intorno la tenessero all'oscuro di informazioni importanti.
Per questo entrò nel salotto domandando: «Non è il momento per cosa?».
John sobbalzò dallo spavento, mentre Sherlock esclamò con tono piatto: «Finalmente ti sei degnata di raggiungerci».
«Con me non attacca, signor Holmes», replicò piccata, incrociando le braccia al petto. «Non è il momento per cosa?».
«Per occuparci delle tue crisi da teenager!», sbottò allora. «Siamo nel bel mezzo di un caso, non vedi? Tuo padre ha in mente un colpo dei suoi e dobbiamo scoprire di che si tratta».
A quel punto Sherlock si alzò, mettendole tra le mani un po' dei giornali di John.
«Se vuoi aiutarci bene, altrimenti sei pregata di fare silenzio».
Geneviève si imbronciò, ma si sdraiò a pancia in giù sul sul divano ed iniziò a sfogliare i giornali. Il dottor Watson seguì ogni suo movimento e la ragazzina non si sentì completamente a suo agio, ma rimase in silenzio. Non capiva perché di colpo fosse così interessato a lei, né a cosa fosse dovuta la sua espressione: un misto di rimpianto e tenerezza.
Nel frattempo Sherlock si era portato il cellulare all'orecchio e attendeva che dall'altra parte rispondessero. Quando accadde, attaccò subito a parlare senza nemmeno salutare.
«Ispettore Ganimard, sono Sherlock Holmes. Ho ragione di credere che Arsène abbia organizzato uno dei suoi colpi e che si stia muovendo mentre parliamo. Lei ha qualche idea?».
La risposta non dovette piacergli particolarmente, perché gli chiuse il telefono in faccia, ancora senza salutare.
«Perché mi guardate in quel modo?», sbottò, trovandoli entrambi con gli occhi puntati su di lui. «Al lavoro!».
Geneviève sbuffò e chiuse il terzo quotidiano, poi lo lanciò sul tavolino insieme agli altri ed iniziò a cercarne uno in particolare.
«Dottor Watson?», lo chiamò, per quanto non fosse entusiasta di attirare la sua attenzione ora che finalmente le aveva staccato gli occhi di dosso.
«Sì?».
«Ha lei il Sun?».
«Uhm... non mi pare».
Sherlock alzò lo sguardo dal pc. «Il Sun? Perché proprio il Sun? È spazzatura!».
«Neanche a me piace il gossip, ma mio padre lo legge tutte le mattine», rispose la ragazzina, scrollando le spalle.
John rimase in silenzio per qualche istante, fino a quando non comparve chiaramente una lampadina accesa sopra la sua testa. Sherlock e Geneviève lo fissarono, trovando estremamente buffa la sua faccia.
«Credo che lei abbia ragione, Sherlock».
«Di che cosa stai parlando?».
«Il Sun! Quando si è presentato davanti a casa mia per offrirmi quel passaggio stava leggendo il Sun! L'ho visto strappare un articolo ed infilarselo in tasca, prima di buttare il resto».
Il consulente investigativo lo guardò a bocca aperta.
«E me lo dici solo ora?!», gridò poi, alzandosi dalla poltrona e correndo giù per le scale come un tornado. «Signora Hudson!».
Tutti e tre fecero irruzione nel suo appartamento, alla ricerca del numero di due giorni prima. Lo trovarono e lo sfogliarono con cura, in piedi intorno al tavolo della cucina.
Ad un tratto gli occhi di Sherlock notarono un trafiletto non troppo appariscente, quasi alla fine del quotidiano. Vi puntò sopra l'indice, sollevandosi per scambiare un'occhiata con John.
Geneviève lesse ad alta voce: «"L'erede del patrimonio Thibermesnil si sposa!" Non capisco, che interesse dovrebbe avere mio padre in un matrimonio?».
«Perché la sposa è stata l'ultimo amore di tuo padre: miss Nelly Underdown», rispose gravemente Sherlock.

***

Il tintinnio di una forchetta contro il bicchiere di cristallo attirò l'attenzione della ristretta cerchia di invitati di Georges Devanne, il solo ed unico erede di tutte le ricchezze della famiglia di Thibermesnil.
Era questo il nome con cui erano conosciuti, per via dell'imponente castello che si erano tramandati di generazione in generazione e in cui vi erano raccolti tesori dal valore inestimabile: pezzi d'arredamento, diademi e gioielli con gemme di ogni sorta, quadri, arazzi, statue.
Un posto solitamente inespugnabile, dove però si era deciso di celebrare il matrimonio dell'anno. Certo, prevedendo un tale afflusso di gente - gli invitati alle nozze vere e proprie sarebbero state più di duecento - le misure di sicurezza erano state triplicate, ma con uno come Arsène sarebbero state inutili. Specialmente se aveva avuto il piacere di conoscere lo stesso Georges Devanne durante la sua permanenza nel Principato di Monaco, qualche anno addietro. Aggiungersi alla lista degli invitati a quel punto era stato un gioco da ragazzi e dubitava fortemente che il caro Georges avrebbe avuto il coraggio di dire pubblicamente che non ricordava di averlo invitato. Prima di tutto le apparenze.
Anche se non l'avesse conosciuto – e l'avrebbe preferito – avrebbe trovato il modo per entrare e rovinare il matrimonio. Ma come aveva potuto la sua cara, dolce ed intelligente Nelly innamorarsi di un tipo del genere? E dopo così poco tempo dalla loro separazione, poi!
«Buona sera a tutti», salutò Georges, nel suo orribile completo tre pezzi. «E grazie per essere venuti da così lontano per quest'occasione così speciale. Per voi sono state arredate le stanze degli ospiti, le stesse stanze dove hanno soggiornato nobili e re. Spero vi sentirete a casa».
Arsène sorrise, arricciandosi i finti baffi fulvi. Oh, sicuramente.

Dopo la cena si spostarono nell'antica sala delle guardie per conversare ancora, bere whisky e fumare sigari pregiati.
Si trattava di una vasta e alta stanza che occupava tutta la parte inferiore della torre Guillaume, dov'erano conservati i pezzi migliori della collezione dei signori di Thibermesnil. C'erano cassapanche e credenze e arazzi appesi ai muri di pietra; le quattro finestre ogivali, tutte su un lato della torre, avevano profondi vani, muniti di panchine in cui erano conservati gioielli, tabacchiere, antichi orologi da taschino.
Tutt'intorno, fatta eccezione per la parete in cui si ergeva l'imponente camino di marmo, si ergeva una biblioteca in stile Rinascimento e su uno dei frontoni si leggeva, a grandi lettere d'oro, il nome "Thibermesnil".
«E tu, Velmont? Che cosa mi racconti? Saranno anni che non ci vediamo!», esclamò ad un tratto Georges, sorridendogli con una punta di nervosismo negli occhi.
«Già. Non sai che sorpresa, ricevere il tuo invito!».
«Ah, ma figurati... Non avrei mai potuto dimenticarti! Tu eri... sì, insomma...».
«Un fantastico pittore?».
«Giusto!». Ridacchiò, massaggiandosi il collo. «I tuoi ritratti...».
«Paesaggi, in realtà».
Gli amici di Devanne si scambiarono occhiate imbarazzate, chiedendosi che razza di padrone di casa fosse il giovane rampollo: come poteva non ricordarsi di quel suo caro amico?
C'era anche da dire, però, che Horace Velmont – niente meno che Arsène Lupin – si stava divertendo un mondo a metterlo in difficoltà. Anche un po' troppo, a dire il vero. Decise di darsi un contegno, per non insospettire troppo Georges. Non voleva che corresse ai ripari, anzi... voleva che si fidasse di lui e gli rivelasse tutte le meraviglie del castello.
Arsène, seduto proprio accanto a Georges, continuava a versargli da bere - whisky corretto Pentothal, per la precisione - e a farlo parlare. Scoprì che Nelly non c'era, che sarebbe arrivata quella notte da Chicago, dov'era andata a prendere i suoi genitori, e che gli uomini della sicurezza sarebbero stati ovunque, il giorno successivo. Come aveva previsto, il colpo andava fatto quella notte stessa.
Quando fu sicuro che il siero della verità sortisse gli effetti sperati, Arsène poté spingersi un po' di più con le domande.
«Ma dimmi, sono vere le leggende su questo castello?».
«Quali leggende?».
«I fantasmi, i passaggi segreti...».
Devanne scoppiò a ridere, tirandosi le ginocchia fino al petto. «I fantasmi! Non c'è nessun fantasma, Horace!».
«E i passaggi segreti?», insistette.
«Quelli sì, è possibile».
Velmont trattenne il respiro, guardando gli altri amici con espressione sconvolta. Un paio di loro risero e si ritirarono per riprendersi dal jet-lag, altri rimasero giusto per il gusto di sentire le cose assurde che Georges avrebbe detto da ubriaco e rinfacciargliele per il resto della vita.
«C'è un libro, là...», farfugliò, indicando un punto dell'immensa libreria.
Arsène si alzò, sentendo le dita prudere per l'eccitazione. Quel libro, o meglio una sua pagina, era tutto ciò che gli serviva per completare e rendere perfetto il proprio piano.
«Quale libro?», domandò, nonostante lo avesse già individuato e ne stesse accarezzando il dorso.
«Si chiama... Thibermesnil Chronicles. La nostra famiglia ne ha una copia, mentre l'altra si trovava nella biblioteca di un monastero, affidata a un certo abate Gélis. Ma è andata persa quasi un secolo fa».
Arsène si voltò e guardò Georges ad occhi chiusi, con la testa appoggiata alla spalla e la bocca semiaperta. Lo raggiunse ad ampie falcate e gli diede uno schiaffetto sul volto per impedirgli di addormentarsi.
«Ehi, non vorrai mica lasciarci a metà della storia!», lo rimproverò ridendo. «Va' avanti».
Devanne ricambiò il sorriso e la sua vera natura da sbruffone si fece avanti: si alzò persino, riuscendo a malapena a non barcollare.
«Beh... in entrambi i libri sono conservate le planimetrie originali del castello e si dice che solo confrontandole si può scoprire il passaggio segreto che permetteva ai miei avi di avere... come dire... relazioni clandestine».
Arsène sapeva già tutto questo, come sapeva che non era vero che bastavano i due libri - presto entrambi in suo possesso - per risolvere il mistero di Thibermesnil. Oltre agli ingressi, infatti, bisognava conoscere il meccanismo con cui aprirli e questo era un segreto che si tramandavano i Devanne di generazione in generazione.
«E dimmi, tu hai mai usato questo passaggio? Mi ricordo che a Monte Carlo andavi matto per le feste e le ragazze, ovviamente!».
Georges gli rivolse un sorriso stupido e riprese a ridere, tanto che un paio di amici dovettero prenderlo al volo prima che cadesse faccia a terra. Lo gettarono sulla poltrona e poi anche loro si ritirarono per evitare che il giorno seguente, quando Devanne si sarebbe presentato sbronzo al proprio matrimonio, venissero incolpati di qualcosa.
«Non vi preoccupate, ci penso io a lui!», li rassicurò Velmont, il quale aspettò che la porta del salotto si richiudesse prima di perdere ogni traccia di sorriso.
Si avvicinò con la stessa espressione di un predatore e una volta chino su di lui, con le mani posate sui braccioli, mormorò: «E così siamo rimasti noi due, mon ami».
Il rampollo ridacchiò, senza cogliere il pericolo che stava correndo.
Era da tempo che Arsène non avvertiva un tale desiderio di fare del male a qualcuno, ma Georges Devanne stava facendo uscire il peggio di lui: non solo era l'erede immeritevole di una fortuna milionaria, ma in qualche modo aveva anche ottenuto l'amore della sua Nelly. Come diavolo era possibile?!
«Cosa stavamo dicendo? Ah, il passaggio segreto. L'hai mai usato?».
Georges scosse il capo. «Il segreto è perduto... perduto per sempre».
«Che cosa?», mormorò Arsène. «No, non è possibile».
«E invece sì!», ridacchiò ancora, per poi iniziare a singhiozzare. «Il mio bisnonno morì prima di poter rivelarlo al suo unico figlio. Si cercò e cercò tra i suoi averi, ma a parte qualche strana citazione...».
«Strane citazioni? Di che stai parlando?».
Georges indicò la mensola sopra il camino. «Quella foto».
Arsène vi si precipitò ed afferrò la cornice d'oro in cui era conservata una fotografia in bianco e nero che ritraeva il bisnonno di Georges con sua moglie e il suo unico figlio, di sei o sette anni. Era stata scattata in quella stessa stanza, col capofamiglia seduto sulla poltrona che dava le spalle alla libreria col nome del castello sul frontone.
Senza troppe cerimonie aprì la cornice ed estrasse la fotografia per leggere gli appunti che erano stati scritti a penna: "T.G. L'ascia volteggia nell'aria che freme, ma l'ala si apre, e si va verso Dio. 2-6-12".
Sul volto di Arsène si aprì un sorriso che ben presto si trasformò in una risata entusiasta. Eccola, finalmente! Ecco la soluzione dell'enigma!
Georges si unì a lui in quella risata, ma si interruppe non appena gli occhi gelidi di Lupin si posarono su di lui.
«Grazie mille, Georges. Sei stato incredibilmente d'aiuto. Ti auguro tante belle cose». E con la fotografia e il libro tra le mani uscì dalla torre.


   
 
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