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Autore: _Frame_    15/10/2017    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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144. Indistruttibile e Inaffondabile

 

 

Diari di Danimarca

 

D’accordo, sai qual è la cosa che più mi dà il vomito e che mi fa incazzare a morte quando ripenso a quello che è successo sulla Bismarck? Il fatto che, nonostante quella fosse stata la battaglia di Prussia e di Germania, di due nazioni che avevano sfruttato me e i miei compagni durante tutto il corso della guerra, di due nazioni che mi avevano costretto a combattere stando dalla loro parte e di conseguenza contro parte della mia famiglia, l’unico ad aver subito conseguenze permanenti da quel disastro sono stato io!

All’inizio, lo ammetto, l’idea di prendere parte a un’operazione del genere mi aveva tutto sommato intrigato abbastanza. Si trattava di un semplice pattugliamento dell’Atlantico, nulla a che vedere con il corpo a corpo massacrante a cui mi ero trovato davanti quando avevamo combattuto sulla Manica l’anno prima, quindi né io né Norge rischiavamo di invischiarci in un pericolo eccessivo. Giocavamo in casa nostra, poi, in pieno Nord, e anche questo dettaglio mi aveva reso più tranquillo e fiducioso. E poi io stesso stavo aspettando con ansia il giorno in cui avrei avuto occasione di tornare sul campo di battaglia per farmi di nuovo valere come un tempo, soprattutto dopo la sceneggiata che avevo piantato davanti a Germania. “Bene!” mi dissi. “Ho chiesto un’occasione, me la stanno offrendo. Ne approfitterò, diamine!” Non è che facessi i salti di gioia all’idea di farmi la crociera assieme a Prussia, sia chiaro, e pensavo che sarebbe stata la sua stessa presenza la parte più dura e dolorosa da sopportare. Ma quando mai! Perché poi il pattugliamento si è trasformato in una vera e propria caccia alla balena da parte degli inglesi e sappiamo tutti com’è andata a finire.

Nonostante i continui calci sui denti che quella guerra mi stava rifilando, io ho sempre cercato di rialzarmi, di non smettere di combattere sia per me, sia per la mia nazione tenuta in gabbia e sia per la mia famiglia, ma quello che accadde sulla Bismarck fu davvero la conferma di una cosa sola: quella guerra mi stava punendo, e forse il destino stesso mi aveva portato sulla corazzata solo per farmi succedere quello che poi mi è successo.

Eppure io ce l’avevo messa tutta. Avevo fatto tutto il possibile, mi ero piegato a Germania, mi ero umiliato davanti a lui, avevo assistito alla sofferenza delle nazioni che avrei dovuto proteggere, al dolore della mia stessa famiglia, e avevo accettato di mettermi al servizio di quei paesi che ci avevano ridotto in quella maniera. “Questo è il prezzo,” mi dissi. Mi dissi anche: “Danimarca, caro vecchio mio, non puoi ottenere qualcosa senza pagarne il prezzo, la vita non ti dà niente gratis. Il prezzo per ottenere la speranza di riunire la tua famiglia è l’umiliazione? È la tua forza messa a disposizione di quelli che vi hanno diviso? Allora pagalo! Certo che soffrirai come un cane, certo che dovrai stringere i denti e ingoiare rabbia, frustrazione e tutto il resto, ma se questo servirà a riallacciare il vostro legame, allora devi farlo, è un tuo dovere! Anche se è l’ennesima ingiustizia.”

La battaglia stessa è stata un’ingiustizia, considerando contro chi io e Norge abbiamo poi dovuto combattere, e anche in quel momento dovetti resistere alla tentazione di ammazzare Prussia con le mie mani. Al diavolo a tutto il resto, ero troppo incazzato. Ero incazzato e mi sentivo tradito. Prussia si sarebbe meritato tutti i pugni che sarei stato in grado di scaricargli addosso. Ma non lo feci. Continuai a ingoiare bile, a fare il bravo soldatino, a ripetermi: “Okay. Questo non è giusto. Non è fottutamente giusto, ma magari è solo una specie di prova del destino, no? Ora io affronto questa difficoltà, porto a termine il mio compito, il compito che io stesso ho pregato di affidarmi, mi faccio forza assieme a Norge, e alla fine verrò premiato, giusto? Giusto? I sacrifici e le sofferenze vengono sempre premiati!” No, col cazzo, invece.

La verità è una sola: il mondo se ne fotte di quello che è giusto o di quello che è sbagliato. Ogni tanto ti dà l’impressione di premiarti solo per illuderti, per ingannarti ancora di più e farti soffrire il doppio la volta dopo, quando ti ripagherà con un calcio nel culo divertendosi a guardarti mentre tu crolli in ginocchio annegando fra lacrime e sangue.

Non era giusto. Non era giusto per niente. Quella non era la mia battaglia, eppure io sono stato l’unico a essere massacrato nella maniera peggiore, l’unico a essere segnato permanentemente, come un castigo, come una stigmate da portarmi sempre dietro. Oh, e non fraintendermi, sono centinaia di anni che combatto guerre e che finisco trucidato in battaglia, non è che mi spaventano un po’ di sangue, un paio di ossa rotte, o qualche budella scivolata fuori dalla pancia. Io sono preparato a tutto. Io sarei capace di continuare a combattere anche con lo stomaco tagliato in due o, che ne so, con tutte le costole bucherellate da una raffica di proiettili. Per questo è stato tremendo. Perché io ero preparato a tutto, a tutto, meno che a quello che mi è capitato.

La parte più difficile da affrontare è stato il periodo che è venuto subito dopo la battaglia, direi, quando stavo cercando di riprendermi almeno dalle ferite che sarebbero potute guarire. Me ne stavo a letto, bollente di febbre, a rantolare per i dolori, rincoglionito dalla morfina e dai sedativi che mi sparavano dentro per farmi stare calmo, e ovviamente tornai a bruciare anche di rabbia. Non facevo altro che crogiolare nella disperazione, perché mi stavo lentamente rendendo conto di quello che avrei dovuto subire da lì in poi e di come mi sarei dovuto adattare alle mie... nuove condizioni. Adattarsi. I dottori me lo ripetevano ogni tre parole. Adattarsi. Meno male che c’era Nor con me. Lui non mi ha abbandonato nemmeno un secondo, nelle settimane in cui sono rimasto inchiodato a letto per riprendermi, ed è stato infinitamente più forte e coraggioso di me. Si occupava delle mie condizioni, mi stava affianco anche quando mi sembrava di impazzire per i dolori, quando non volevo prendere le medicine, e anche quando davo di matto perché sapevamo entrambi che non sarei mai più guarito e tornato come prima. Non riuscivo ad accettarlo. Norge però stava lì con me, mi stringeva la mano, e mi teneva a galla. È stata la prima volta in cui mi sono ritrovato a piangere davanti a lui. Ma è stata anche la prima volta nella mia vita in cui nemmeno la sua presenza riusciva a farmi sentire meglio o a darmi una qualche speranza di rimettermi e di tornare a combattere per l’ennesima volta. Che senso aveva, ormai? “Meglio morto!” gridavo ogni tanto. “Meglio morto piuttosto che rimanere in questo stato per tutta la vita!” Ero diventato una creatura inutile...

Cominciai a sentirmi risucchiato in quello che è forse il sentimento peggiore che una nazione o un essere umano possa provare. Ero stufo. Ero stufo di soffrire. Ero stufo di lottare per una battaglia che non avrebbe portato a nulla. Ero stufo di combattere e di non risolvere comunque niente, di vedere solo peggiorare la mia situazione. Ero stufo di vedere la vita prendermi per il culo. “Perché a me?” mi chiedevo. “Cos’ho fatto di così male per meritarmi tutto quello che mi sta succedendo? Perché anche quando cerco di fare la cosa giusta non faccio altro che peggiorare la situazione?”

Quella è stata la guerra più bastarda che io mi sia ritrovato a combattere, lo giuro. Non ha risparmiato nessuno, ci ha castigati uno per uno ed è stata una vera e propria punizione di massa. Un’esplosione di colpa generale per tutti i disastri che ognuno di noi aveva combinato durante il suo passato e che non aveva ancora scontato.

Guerra del cazzo...

 

.

 

18 maggio 1941,

Porto di Gotenhafen, Baia di Danzica

Prussia Occidentale

 

I raggi del sole martellavano la loro luce contro gli edifici e le strade del porto, accendevano i colori delle onde sospinte dal vento, sfumandole di un intenso color indaco che si faceva più chiaro e trasparente quando batteva sugli scafi delle navi; imbarcazioni luccicanti di un grigio metallico e accecante che tagliava come la lama di un coltello. Stormi di gabbiani volavano in cerchio davanti alla sagoma del sole, attorno agli alberi delle navi, ai tralicci e alle gru. I loro strilli si propagavano oltre gli squilli delle navi che stavano salpando dal porto, si mescolavano al brusio di voci e di passi che si elevava dai gruppi di soldati, marinai e ufficiali che riempivano le banchine e i moli. Il calore del sole ristagnava in quell’aria pregna dell’odore salmastro e acidulo di schiuma di mare, di nafta, di fumo, di olio per motore e di alghe. Il fischio del vento scuoteva i tralicci e le bandiere issate sulle imbarcazioni. I cigolii delle gru che spostavano le loro ombre, ruotando contro il cielo, si univano agli scricchiolii dei carichi che venivano issati sui ponti delle navi e alle voci degli operai che gridavano per farsi sentire sopra i rombi degli automezzi.

Danimarca si spinse in mezzo a un gruppo di marinai in uniforme bianca, tutti in fila sulla banchina, davanti a una delle imbarcazioni ancorate al porto, schivò il passaggio di due automezzi che procedevano a passo d’uomo, scaricando fiotti di un fumo acre e nero, e si riparò gli occhi da un raggio di sole abbagliante che si rifletteva sulla superficie di una delle navi. Passò in mezzo a un altro gruppo di marinai che stavano risalendo uno dei ponti, e continuò a camminare. Il vociare di tutti gli uomini radunati al porto era un martellare continuo nelle orecchie, rimbombava nella testa, già ovattata dall’odore nauseante della nafta mescolato a quello tiepido e dolciastro del mare sporco di olio. Danimarca si tappò il naso con una mano, respirò attraverso gli spazi fra le dita, e borbottò un lamento contro il palmo. “Che razza di macello.” Accelerò, superò un autocarro che si era introdotto in uno degli spazi per lo scalo, raggiunse Norvegia che camminava dietro l’ufficiale della Kriegsmarine che li stava scortando, e si portò direttamente accanto all’uomo. Si tolse la mano da davanti la bocca e la aprì accanto alla guancia, indirizzando la voce verso di lui. “Ehi, quando hai detto che ci faranno salpare?” Strinse la mano attorno alla cinghia del bagaglio che gli stava scivolando dalla schiena, e diede un piccolo colpo di spalla per sistemarlo fra le scapole.

L’ufficiale di marina spostò lo sguardo lungo la superficie del mare che si stendeva alla loro sinistra, abbassò il copricapo per resistere alla luce dei raggi solari che battevano sulle imbarcazioni, sulle gru e sulle lamiere dei magazzini, e aspettò che finissero di issare uno dei carichi sul ponte di una nave, prima di parlare. Il fracasso cessò e finì sostituito dal brusio di passi e di voci, mescolato agli scrosci delle onde. L’ufficiale si schiarì la gola. “L’imbarco generale avverrà a mezzogiorno, signore.” Tornò a stringere le mani dietro la schiena e rivolse gli occhi al cielo, rallentò il passo per rimanere accanto a Danimarca. “Ma la corazzata salperà alle due di notte. Dobbiamo finire di caricare i rifornimenti e devono ancora cominciare a carburarla.” Gli rivolse un’occhiata accondiscendente da sotto l’ombra del copricapo. “Spero non vi dispiacerà trascorrere qualche ora in più ancorati al porto.”

Danimarca fece roteare lo sguardo ed emise un piccolo sbuffo di nervosismo. “Come no.” Aprì e strizzò le dita attorno alla cinghia del bagaglio che gli passava sopra la spalla, e compì un paio di passi all’indietro per mettersi al fianco di Norvegia. Chinò la spalla, abbassò la voce, e gli parlò accanto alla guancia senza perdere di vista la schiena dell’ufficiale. “Ehi, dici che ci sarà Germania o Prussia a dirigere la baracca?”

Norvegia fece scivolare lo sguardo verso la superficie del mare grigio e indaco ricoperto da uno strato di scintille bianche, e scosse lentamente il capo. “E che importanza dovrebbe avere?” Anche lui si sistemò il suo bagaglio sulla spalla, dandogli una spinta.

Danimarca corrugò un broncio che gli rese lo sguardo più scuro, nonostante il sole di mezzogiorno. “Be’, se proprio dobbiamo essere guidati da qualcuno, preferisco che sia Germania.” Rivolse un indice verso il basso, verso la superficie di cemento sulla quale stavano camminando, e picchiettò l’aria. “Se sono qui è solo per prendermi la rivincita su quello che è successo sulla Manica, e anche per dimostrargli che so tenere fede ai patti che propongo. Lui deve esserci per vedere con i suoi occhi quanto so essere leale.”

Norvegia sollevò l’estremità di un sopracciglio, il suo sguardo si estraniò, e la sua mente tornò a immergersi nell’aria glaciale dell’inverno appena trascorso. Le sue labbra soffiarono nubi di condensa cristallina, lo strato di neve tornò a scricchiolare sotto i suoi passi, il vento di ghiaccio gli sibilò contro le orecchie e fra i capelli, pizzicandolo. Rivide Danimarca piegato sulle ginocchia e sui gomiti, anche lui in mezzo alla neve, dopo essere stato bloccato dai soldati tedeschi, e i suoi occhi rabbiosi che fulminavano il profilo di Germania che si allontanava dopo avergli rivolto un’occhiata di disprezzo e indifferenza.

Norvegia abbassò le palpebre, sospirò, sconsolato, e tornò con la mente al Porto di Gotenhafen, a camminare sotto la luce e il tepore del sole di maggio. “Dubito che Germania ti abbia dato corda dopo quella sceneggiata.” Schivò un altro gruppo di marinai che stavano scaricando sacche di bagagli da uno degli automezzi, prima di imbarcarsi anche loro, e il cigolio gracchiante di una delle gru tornate in moto coprì le sue parole, le sentì solo Danimarca. “Se Germania ci ha chiamati qua è solo perché gli serviva qualcuno che lo guidasse nei mari nordici, e non perché sei stato tu a sfidarlo.” Norvegia scrollò le spalle. “Con tutto quello che sta succedendo in Europa, tu sei l’ultimo dei suoi problemi.”

“Ma intanto siamo qui,” ribatté Danimarca. “Sotto sua specifica richiesta. E Germania dovrà pur avere una qualche fiducia in me, se mi ha affidato l’incarico.”

“No, non l’ha affidato a te.” Norvegia spostò la mano stretta alla cinghia del bagaglio che gli passava sopra la spalla, e la manica della giacca scoprì parte del polso bendato, ancora sofferente per le piaghe e le cicatrici. Abbassò la voce. “Tu sei qua a fare la marionetta come la scorsa estate,” scosse il capo, “niente di più.”

Danimarca provò un’improvvisa scossa a entrambi i polsi, dove anche le sue bende gli proteggevano la pelle piagata che non era ancora riuscita a guarire. Aggrottò la fronte, si morsicò il labbro per contenere un grugnito di rabbia e frustrazione, e afferrò una delle maniche, tirandola fino a coprirsi il palmo. “Lo vedremo.” Si massaggiò la mano e le bende attorno ai polsi. Tirò su il mento, allargando le spalle e facendosi investire dalla luce del sole, e soffiò uno sbuffo più inorgoglito. “Vedremo chi è che si farà valere di più una volta che saremo nel nostro territorio.”

Norvegia alzò gli occhi al cielo, e si preparò mentalmente a tutte le sue idiozie che avrebbe dovuto fermare durante l’operazione.

Camminarono ancora. L’ufficiale che li accompagnava si fece largo separando una fila di marinai in piedi sulla banchina, accelerò il passo, guardò alla sua sinistra, verso la stazza di un incrociatore che avevano appena superato e che tappava la luce del sole, e finì abbagliato dai pochi raggi che riuscivano a filtrare attraverso la struttura di una delle gru. Rallentò, e Danimarca e Norvegia gli furono di nuovo accanto.

Un lenzuolo di ombra si dilatò sulla banchina, carico di una tensione statica che corse sulla loro pelle come un intreccio di rami elettrici, penetrò fino ai loro cuori, stritolandone il battito.

Danimarca si girò, tirato come un magnete da quella tensione sfrigolante. Portò anche lui la mano davanti alla fronte, rabbrividì sotto il tocco di quell’ombra rovente ed elettrica, e l’immagine di una corazzata attraccata alla gru e a un incrociatore gli riempì il lucido degli occhi. Sgranò le palpebre, trattenne il fiato, e una stretta di soggezione e timore gli stritolò il cuore, chiudendogli lo stomaco. Danimarca fermò il passo, schiuse le labbra che si erano congelate per la meraviglia, e soffiò l’unico filo di fiato che gli era rimasto nei polmoni. “Uau.” Lo sguardo brillò di meraviglia.

Anche Norvegia gli si fermò vicino, il suo sguardo finì catturato dal profilo della nave, e lui compì un passo all’indietro reclinando il capo per guardarla fino alla cima. Anche nei suoi placidi occhi di nebbia comparve un lampo di stupore: una scossa elettrica fra le nubi.

Un piccolo sorriso d’orgoglio incurvò le labbra dell’ammiraglio. L’uomo si sistemò la frontiera del copricapo, sollevò il mento, e rivolse l’indice alla Bismarck. “Quella è la corazzata, signori,” gli disse. “Stiamo già imbarcando.”

La stazza della Corazzata Bismarck riempiva tutto il campo visivo e si stendeva lungo l’intero arco d’orizzonte del porto. L’albero maestro si ergeva al di sopra della foresta di tralicci, passava oltre la sagoma del sole e non si riusciva a vederne la cima; i cannoni che sbucavano dalle torrette si tenevano in orizzontale, a riposo; e i raggi del sole che battevano contro il metallo della nave accendevano scintille argentate sui rigonfiamenti della stazione di comando dell’artiglieria, sul ponte dell’ammiraglio e sulla torre di comando da cui sbucava il telemetro. Vernici bianche e nere marchiavano la sua corazza, in attesa di quelle mimetiche. Bandiere tedesche sventolavano dagli alberi d’acciaio, sospinte dal vento che aveva ripreso a soffiare sul porto. La figura massiccia ma slanciata le donava un aspetto regale.

Danimarca deglutì e ingoiò quel groppo di stupore che gli era rimasto incastrato in fondo alla lingua paralizzata. “È...” Compì un passo più lontano, tirò la testa all’indietro più che poté, salì sulle punte dei piedi, ma non riuscì a vederne la cima. Rimase immerso nella sua maestosa ombra che pareva inghiottire tutto il porto, come un mantello. “Enorme.” Spostò lo sguardo lungo la fiancata della corazzata. Stavano già imbarcando l’equipaggio, e file di marinai che portavano sacche e bagagli alla spalla stavano salendo sul ponte. Danimarca aggrottò un sopracciglio e parlò più piano, in modo che lo sentisse solo Norvegia. “Che razza di bestione.”

Norvegia socchiuse le palpebre, i suoi occhi ripercorsero la superficie corazzata della Bismarck e si soffermarono sulla prua, dove sventolava una delle bandiere tedesche. “È lunga duecentocinquanta metri, poco meno dello Hood.” Abbassò la mano dalla fronte e tornò a stringerla sulla cinghia del bagaglio. “Ma è la corazzata più massiccia che si sia mai vista.”

Danimarca flesse il capo di lato e corrugò un’espressione interrogativa. “Come fanno a mandarla avanti?”

“È velocissima, in realtà,” rispose Norvegia, rimettendosi a camminare dietro l’ufficiale. “Raggiunge i trenta nodi, e ha l’armamento più moderno che l’ingegneria navale tedesca abbia mai installato su un’imbarcazione militare.”

Danimarca lo seguì, saltellò stando sulle punte dei piedi, senza scollare gli occhi dalla Bismarck, e tornò a squadrare i rigonfiamenti delle torrette. Due puntavano la prua e due puntavano la poppa. “Quattro cannoni?”

Norvegia scosse il capo. “Quattro torrette da due cannoni l’una,” rispose. “E ha una corazza praticamente inscalfibile. Riesce a raggiungere i trecentoquaranta millimetri nei punti più spessi.”

Danimarca si tolse la mano dalla fronte e gli scoccò un’occhiata scettica e sconcertata. “Come fai a saperlo?”

Norvegia si strinse nelle spalle, sistemò il suo bagaglio sulla scapola, e riacquistò quell’espressione piatta e placida che rendeva i suoi occhi più annebbiati e distaccati. “Dobbiamo fare bene questa cosa, o no?”

Danimarca fece schioccare la lingua in un moto di frustrazione. “Be’, non...” Okay, d’accordo, dobbiamo farla bene, io stesso ho tutti gli interessi di farla bene, ma... “Non così bene,” specificò. “Noi non siamo dalla parte di Germania. Siamo...” Gli si rimise affianco e sventolò la mano per sdrammatizzare. “Più che altro la sua guida navale nelle acque del Nord. Non ho la minima intenzione di piegarmi più di quello che ho già fatto, e se si tratterà di mettere in pericolo le nostre vite per salvare le loro...” Ripeté lo sventolio di mano contro la Bismarck, come per levarsela dalla vista. “Allora al diavolo,” ringhiò. “Non ho ancora intenzione di lasciarci la pelle per uno come Germania.”

Norvegia sollevò l’estremità di un sopracciglio, piegò un’espressione poco convinta, ma lasciò correre.

Arrivarono alla base della scala d’accesso che si arrampicava fino al ponte. I marinai salivano, alcuni a passo più svelto, altri si fermavano a guardare indietro, ad aspettare altri compagni e a indicare la corazzata scambiandosi parole che si perdevano nella confusione del porto. Qualcuno, vestito anche lui in uniforme bianca, scese per la stessa scala a passo svelto, e alcuni marinai si scansarono per lasciarlo passare. La figura saltò gli ultimi gradini con un balzo, atterrò sulla banchina di cemento, e gli si avvicinò un altro uomo in uniforme che si chinò a parlargli da sopra la spalla, portandosi una mano davanti alle labbra. L’uomo indicò con un cenno del capo la direzione dalla quale stavano arrivando Danimarca e Norvegia, senza guardarli.

La figura che era saltata giù dalla scala si girò verso di loro, il suo sguardo fendette l’aria e li raggiunse come una scintilla, i suoi occhi si accesero di entusiasmo. Ignorò l’ufficiale che l’aveva fermato e che si era chinato a sussurrargli all’orecchio, corse verso Danimarca e Norvegia, e spalancò le braccia. Un’irritante voce familiare superò la confusione del porto e raggiunse le loro orecchie, come una graffiata di unghie sul metallo. “È arrivata la mia ciurma!”

Danimarca fermò il passo e arretrò, congelandosi, trafitto da una scossa di orrore e sconcerto. Anche Norvegia irrigidì, senza però cambiare espressione. Prussia? realizzarono all’unisono.

Danimarca rabbrividì, scosse il capo, esasperato, e si girò sventolando un mezzo saluto da sopra la spalla. “Ecco. Lo sapevo. Fine dei giochi.” Compì un passo per allontanarsi e Norvegia lo afferrò per il bavero della giacca. Lo riportò indietro, facendolo di nuovo girare, il loro ufficiale si mise sull’attenti, e altri marinai di passaggio camminarono loro attorno, facendo più spazio.

Prussia arrestò la corsa, si strinse le mani sui fianchi e mostrò a entrambi un largo e aguzzo sorriso di soddisfazione. “Ma guarda, guarda.” Piegò il capo di lato e percorse i loro due profili da capo a piedi. Ridacchiò, parlò con voce più bassa ma con lo stesso tono graffiante con il quale li aveva accolti. “E io che pensavo che non avreste mai avuto le palle di farvi vivi.”

Danimarca arricciò una smorfia di disappunto, mantenne il broncio che aveva piantato quando lo aveva visto arrivare, ma stette zitto.

Prussia si posò una mano sul petto, sotto la croce di ferro e le piastrine colorate cucite accanto alla doppia fila di bottoni d’oro che gli attraversava il busto, e si piegò in un piccolo ma nobile e rispettoso inchino. “Benvenuti a Gotenhafen, ciurma.” Sulla manica sinistra splendettero le cinque bande dorate che componevano il paramano, di cui una spessa il triplo delle altre, e una stella dello stesso colore puntata sull’orlo. Fili d’oro luccicavano anche sulle spalle bianche della giacca, dove erano cucite controspalline che esibivano un intreccio oro e bianco che racchiudeva al suo interno un’ancora – dorata anche quella – e due bastoni da feldmaresciallo incrociati fra loro. Gradi da Grosseadmiral. Prussia raddrizzò la schiena e indicò la Bismarck alle sue spalle, allargando un gonfio sorriso di fierezza. “Vi piace la mia bella bimba? Magnifica, eh? Vero che è magnifica?”

Danimarca si sporse di lato, tornò a squadrare la stazza della Bismarck che continuava a coprirli con la sua ombra, e di nuovo quell’intimidatorio brivido di soggezione gli corse lungo la schiena. Lanciò un’occhiataccia a Prussia. “È da megalomani.”

Prussia mantenne il gonfio sorriso da sbruffone e si spolvero una spallina dorata. “Megalomani che possono permettersi di costruire una corazzata simile, ricordatelo.” Tornò a indicarla con un ampio gesto del braccio. “Non c’è verso di batterla, è modernissima e praticamente inaffondabile.”

Danimarca arricciò una stizzita smorfia di scherno. “Anche il Titanic lo era.”

Prussia si rimise le mani attorno ai fianchi, gonfiò il petto all’infuori, e lo squadrò con aria solenne. “Ma al Titanic mancava un requisito fondamentale per rimanere a galla.”

Danimarca e Norvegia si scambiarono una rapida e bassa occhiata interrogativa. Danimarca sollevò un sopracciglio. “Quale?”

Prussia tornò a sorridere, sollevò il mento, salì sulle punte dei piedi, e si batté la mano sulle piastrine colorate cucite accanto alla croce di ferro. “Non era tedesco.”

Danimarca strizzò un pugno sulla cinghia del suo bagaglio e uno contro il fianco, le braccia tremarono e lui si morse il labbro fino a diventare rosso in viso per trattenersi e per ingoiare quello che stava per dire.

Prussia lanciò un’occhiata distratta all’ufficiale che aveva accompagnato i due fino al porto, e gli indicò con un cenno l’altro uomo che aveva lasciato ai piedi della scala d’accesso. “Lei può andare,” gli disse, “da qui in poi penso io a loro.”

L’ufficiale annuì, batté un saluto irrigidendo l’attenti, “Sissignore”, e si congedò.

Prussia non perse altro tempo e anche lui tornò a dirigersi verso la gradinata che risaliva la corazzata, accelerò il passo, schivò un gruppo di uomini che stavano discutendo davanti a un autocarro fermo fra due piloni d’attracco, e chiamò Danimarca e Norvegia con un cenno. “Venite, venite, non statevene lì a bloccare il traffico.” Giunse le mani con uno schiocco, e il suo sguardo tornò ad accendersi di entusiasmo, come quando li aveva visti arrivare. “Dunque...” Si strofinò i palmi, emozionato come un bambino che sta per assalire un barile pieno di caramelle e cioccolatini. Suscitò una certa tenerezza a entrambi. “Vi hanno già spiegato che partiamo questa notte, vero?”

Danimarca esalò un sospiro, sentì il peso del bagaglio farsi più opprimente, e si trascinò dietro la presenza di Prussia facendo scivolare i piedi sul cemento. “Sì,” sbiascicò.

Prussia annuì. “Vi spiegherò tutti i dettagli tecnici dell’operazione una volta che avremo imbarcato, ma vi hanno già detto in cosa stiamo per imbatterci, giusto?”

Danimarca sollevò gli occhi verso la cima della Bismarck che non riusciva a scorgere, abbagliato dal raggio di sole che batteva sul suo albero maestro, e ignorò quella sensazione di disagio che gli era rimasta cristallizzata sulla pelle come uno strato di ghiaccio bruciante. Si strofinò la nuca e massaggiò il collo. “Sì,” disse con tono pacato. “Perlustrazione nell’Atlantico e caccia ai traffici mercantili inglesi.” Si indicò il petto con il pollice. “Noi dobbiamo guidarti nel percorso dei nostri mari.”

“Proprio così.” Prussia girò lo sguardo da sopra la spalla, e ripercorse un’altra volta le loro figure dalla testa ai piedi. Tornò a guardarli in volto. “Spero siate in buona forma.”

Danimarca aggrottò la fronte, negli occhi bruciò una luce ostile, e sollevò la mano che non reggeva la sacca del bagaglio. “Questo dipende da quanto hai intenzione di strapazzarci.” La manica scivolò all’indietro e rivelò la benda fasciata attorno al polso.

Prussia sbuffò con aria indifferente. “Questo dipende da quanto farete i difficili.”

Danimarca tornò a schiacciare il pugno, fece gonfiare le vene. “Questo dipende da quanto ci costringerai a esserlo.” Norvegia gli diede una gomitata e lo ammutolì.

Prussia riprese a camminare guardando davanti a sé, a testa alta, e strinse le mani dietro la schiena. Un piccolo e fine sorriso di compiacimento gli incurvò le labbra. “Basta solo che vi ricordiate chi fra me e voi stringe le catene dal lato giusto, signori miei.”

Quelle sue parole gettarono un’ombra di scura inquietudine che fece accapponare loro la pelle, come quando si erano ritrovati per la prima volta davanti all’imponente stazza della Bismarck che si ergeva fino al cielo. Norvegia sospirò, abbassò le palpebre, e distese la tensione che si era accumulata sulle spalle. Cominciamo bene.

Arrivarono alla base della gradinata che saliva fino al ponte della corazzata. Prussia piantò i piedi sul cemento, divaricò leggermente le gambe, e si girò verso Danimarca e Norvegia stando a spalle larghe. Bloccò la strada. “Dunque,” annunciò. “Prima di mettere piede sulla corazzata, ho solo un paio di raccomandazioni da fare in modo da andare fin da subito d’amore e d’accordo, evitando in questo modo...” Un fremito gli attraversò le labbra, le palpebre si strinsero leggermente. “Diverbi inutili.” Squadrò entrambi. “O no?”

Danimarca guardò Norvegia mantenendo quella perenne espressione imbronciata che somigliava a quella di un bambino arrabbiato. Cercò un appiglio. Norvegia gli rivolse uno sguardo più duro e inclinò il capo, indicandogli Prussia con un cenno di ammonimento. Non fare l’idiota e assecondalo, per una volta.

Danimarca sospirò a fondo, alzò gli occhi al cielo, e forzò un vacillante sorrisetto accomodante. “Quali raccomandazioni?” Un grumo fiammante di umiliazione gli bruciò in fondo allo stomaco.

Prussia si schiarì la voce e stese l’indice davanti ai due. “Regola numero uno.” Abbassò il dito, tornò a scoprire il suo volto, e il rosso dei suoi occhi si accese, divenne lucido e liquido come sangue, lo avvolse con un’aura feroce che rese la voce cupa e graffiante come un artiglio premuto nella carne. “La Bismarck è mia.”

La sensazione dell’artiglio aguzzo premuto contro la loro pelle si piantò a fondo, percorse la gola di entrambi, strappandogli il fiato, e li ammutolì, ghiacciando loro il sangue e tenendoli immersi in quell’aria di pece che era come una nebbia di fumo nero. Un primo e sottile brivido di paura corse lungo la schiena di Danimarca, una scossa elettrica come quelle trasmesse dalla presenza della corazzata.

“Durante la navigazione ci uniremo anche al Prinz Eugen, quando entreremo nei fiordi,” continuò Prussia. “Se si ritenesse necessario, allora avrete il permesso di toccare i suoi comandi, ma solo in casi eccezionali, e solo se sarò io a darvi il permesso. Con la Bismarck non deve accadere. La Bismarck passerà solo e unicamente sotto le mie mani, nessuna eccezione.” Prussia tornò a rivolgere l’indice a entrambi, e le sue parole suonarono come una minaccia. “Voi quando navigheremo avrete il semplice ruolo di ufficiali, come se foste esseri umani. Mi aiuterete con la rotta, con i pattugliamenti aerei, con le comunicazioni radio, tutto qui. Per il resto sarò io a comandare la corazzata e a metterci le mani sopra.” Quegli occhi di sangue tornarono a sfilare su di loro, come la lama di un coltello che passa da una gola all’altra. “Sono stato abbastanza chiaro?”

Danimarca lanciò un’occhiata di sbieco a Norvegia – anche lui aveva ruotato lo sguardo in cerca del suo – ed entrambi annuirono con aria più docile ma ancora rigida. “Sì.”

Prussia riacquistò il raggiante sorriso con cui li aveva accolti, e quell’ombra nera si sciolse dal suo volto. “Bene!” esclamò. “E questo direi che ci porta alla seconda regola per mantenere la pace fra noi tre.” Tossicchiò di nuovo per schiarirsi la voce, e stese un dito alla volta per tenere la conta. “Una volta a bordo, vi rivolgerete a me chiamandomi ‘Signor Capitano’, o ‘Signor Magnifico Capitano’, oppure ‘Signor Magnifico Capitan Prussia’. Anche in questo caso, non tollero trasgressioni.” Tenne le tre dita aperte e fece sventolare la mano. “Regola numero tre,” esclamò. “Se io non ci sono, allora vi rivolgerete al mio primo sottoufficiale che si occuperà subito di rivolgermi il messaggio.”

Danimarca aggrottò un sopracciglio e un sincero pizzico di curiosità gli punse la base della nuca. “E chi sarebbe?”

Un batuffolo color giallo limone sfrecciò davanti ai loro sguardi e volò fino alla spalla di Prussia. Gilbird richiuse le ali, si aggrappò con le zampette alla controspallina da Grosseadmiral, zampettò più vicino al viso del padrone, e cinguettò per salutare. “Pyo!”

Prussia sollevò la spalla su cui si era posato il canarino e gli carezzò la testolina con l’indice. “Chi è il mio sottoufficiale, eh?” Gli lisciò anche le piume in mezzo alle ali. “Chi è il sottoufficiale più magnifico di tutta la Kriegsmarine? Ma sì che sei tu. Quanto vorrei metterti l’uniforme da marinaretto.”

Danimarca contenne una smorfia di perplessità che gli fece traballare una palpebra, e rinnovò l’espressione da ‘cominciamo bene’ che prima era comparsa anche sul volto di Norvegia.

Prussia sfilò l’indice dalle piume di Gilbird e tornò a battere le mani. “Bene. Detto questo.” Gonfiò un sorriso aguzzo e spronante, gli occhi rossi tornarono ad accendersi di eccitazione, come braci incandescenti. “Siete pronti a salpare, ciurma?”

Danimarca e Norvegia si guardarono sottecchi, sollevarono le sopracciglia, ed entrambi allontanarono gli sguardi. Sospirarono. “Sì,” risposero.

Prussia appoggiò una mano dietro l’orecchio e tese l’udito. “Sì ‘come’?” Picchiettò a terra la punta del piede.

Danimarca strizzò i pugni e serrò i denti. Anche a Norvegia salì un brivido di frustrazione lungo la schiena che gli rabbuiò lo sguardo. “Sì, Signor Capitano,” digrignarono.

“Non vi sento!”

Norvegia si sporse a schiacciare il piede a Danimarca.

Argh!” Danimarca scattò come se gli avesse dato la scossa, e alzò la voce. “Sì, Signor Capitano!” Alcuni marinai di passaggio si girarono verso di loro, attirati dall’urlo, e proseguirono per la loro strada.

Prussia esibì un sorriso di soddisfazione. “Perfetto.” Si girò, si appese al corrimano della scalinata, e saltò lungo i primi gradini. “Salite a bordo, vi faccio fare un giro di perlustrazione e poi vi sistemiamo in cabina.” Continuò a scalare la salita senza aspettarli.

Norvegia rimboccò il suo bagaglio contro la spalla, superò Danimarca, e anche lui cominciò a percorrere la scala.

Danimarca saltellò sul piede che non gli aveva calpestato, si massaggiò quello che teneva stretto fra le mani, e buttò un’ultima occhiataccia in direzione di Prussia. Dovrò passare l’intera missione stando sotto la guida di uno come lui che... Un altro conato di rabbia gli bruciò lo stomaco. Che... Trattenne un ringhio fra i denti e scosse il capo. Non posso farcela, impazzirò. Riappoggiò il piede a terra, imboccò anche lui la scala, e saltellò dietro a Norvegia. “Sul serio,” gli fece, “come diavolo fai a sopportarlo?”

Norvegia si strinse nelle spalle, rassegnato e indifferente. “Convivo con un idiota del genere da centinaia di anni.”

Danimarca si posò una mano sulla guancia e sgranò gli occhi in un’esagerata e drammatica espressione di stupore. “Nooo. Sul serio?” esclamò con un sospiro. “E chiii?

Norvegia strinse la mano sulla sbarra, si fermò, attese un secondo, e girò lo sguardo da sopra la spalla. Fulminò Danimarca con un’espressione a metà fra il compassionevole e lo stupore di chi riesce ancora a rimanere sconvolto da idiozie simili dopo centinaia di anni. Scosse il capo, lo ignorò, e proseguì la scalata sui gradini seguendo i passi di Prussia.

Danimarca rise e gli andò dietro salendo di due scalini alla volta. “Dai, Norge, scherzo. Norge!” Aprì una mano attorno alla bocca per chiamarlo. “Norge, scherzavo! Norgeee.” Norvegia non lo aspettò e il suo profilo divenne sempre più piccolo e distante, finì inghiottito dalle schiene di alcuni marinai che stavano imbarcando assieme a loro. Danimarca fece roteare lo sguardo, percorse altri tre gradini, e borbottò fra i denti. “Perché nessuno capisce mai quando scherzo?” Rimboccò il suo bagaglio che cominciava a intorpidirgli il braccio, e salì sulla Bismarck.

 

.

 

I locali interni della corazzata emanavano un profumo squisito, da acquolina in bocca. Un profumo pungente di vernice fresca, così intenso da poterlo masticare, si mescolava a quello più stordente del legno laccato e a quello morbido e penetrante, soporifero, delle tappezzerie appena srotolate e spazzolate. I corridoi stretti ne intensificavano l’aroma, lo rendevano più tiepido, da togliere il fiato. I rumori dei passi e del vociare dei marinai e degli ufficiali che si spostavano attraverso le budella della Bismarck erano più ovattati e rimbombanti rispetto al fracasso che si elevava dal porto.

Prussia si girò di profilo per infilarsi in mezzo a un gruppo di marinai appena saliti assieme a loro, e passò attraverso due pareti più strette che si aprivano sulle scale che davano al piano superiore. Riparò Gilbird con una mano, per far sì che nessuno lo urtasse, sgusciò fra le spalle di due uomini, e si girò a buttare un’occhiata a Danimarca e a Norvegia che lo stavano seguendo. Indicò una delle camere che avevano appena superato, continuando la spiegazione. “Qui c’è l’ufficio stampa dell’artiglieria,” percorse i pochi gradini che li separavano dal piano superiore, e indicò altre porte, “la sala dei quadri per il controllo della FlaK, la camera con i collegamenti telefonici per la coordinazione delle artiglierie. Qui sotto, poi...” Si fermò, batté la suola a terra facendo rimbombare il pavimento – Gilbird sporse il musetto a guardare per terra –, e dovette alzare la voce per farsi sentire sopra la confusione di passi e di un ronzio simile a un trapano in funzione. “Passano gli imbuti dei boiler che provengono direttamente dalla sala macchine e che salgono fino alla piattaforma superiore, okay? Mentre le turbine...” Stese un braccio a indicare il corridoio alla sua sinistra. “Si trovano verso poppa. Tenetelo a mente per quando vi chiederò di andare a controllare o quelle, o le caldaie, o la camera dei boiler. Non voglio che vi perdiate e che qualcuno debba venire a recuperarvi, chiaro?”

Danimarca e Norvegia si scambiarono una breve e innocua occhiata di sostegno reciproco, e annuirono entrambi, rispondendo di malavoglia. “Sì, Signor Capitano.” Lo dissero così piano che non si riuscì a udire sopra i rimbombi propagati dalla sala macchine.

Finirono di salire le scale, percorsero il corridoio di destra, Prussia scambiò un breve cenno con un gruppo di tre ufficiali che camminavano in direzione opposta alla loro, e superarono un’altra camera da cui proveniva un suono di sfregamento grattato su lastre di ferro. Un tiepido e fragrante profumo di pane bianco li investì in un’ondata di dolcezza.

Danimarca fu il primo a reagire, come un cane che impenna le orecchie, e diede un’annusata all’aria seguendo la scia di aroma. “Che profumo di...”

“Pane?” lo precedette Prussia. “Sì, qua a sinistra abbiamo appena passato il forno.” Indicò un punto oltre la parete. “Ma le cucine sono più lontane da qui, sono sotto le Torrette Dora e Caesar.” Svoltarono una curva, tornando immersi solo nell’odore di vernice e di tappezzeria, e Prussia indicò loro le altre stanze che sfilavano sulla parete sinistra. “Qui c’è la camera per l’individuazione degli ultrasuoni, la camera di comando per le assegnazioni durante i combattimenti,” imboccò degli altri gradini e indicò un altro piccolo corridoio prima di iniziare a salire, “qui ci sono invece le cabine degli ufficiali dove alloggerete anche voi. Poi la camera del meteo,” rivolse l’indice verso l’alto e salì i gradini, “il ponte dell’ammiraglio, il centro comunicazioni, la stazione per il monitoraggio del vento, e una delle postazioni delle artiglierie.” Fermò il passo fra due delle camere che aveva appena indicato, si spostò per far passare dei marinai che stavano scendendo con i bagagli caricati sulle schiene – alcuni di loro stavano parlando e uno rise – e si girò facendo arrestare anche Danimarca e Norvegia. “Domande?” Anche Gilbird gonfiò le piume per apparire più grande, e li fissò con i suoi dolci occhietti neri che assunsero lo stesso riflesso inquisitorio di quelli di Prussia.

Lo sguardo di Danimarca vacillò. L’odore troppo forte di tappezzeria nuova e di lacca per legno gli trasmise un’improvvisa botta di capogiro, tutto il discorso di Prussia vorticò attorno alla sua testa, gli sdoppiò la vista già appannata, e le parole ronzarono in un suono sottile e irritante, come uno sciame di insetti in volo. Ufficio stampa artiglieria, sala dei quadri, camera collegamenti telefonici, sala dei boiler, sala macchine, sala turbine, centro comunicazioni, stazione monitoraggio, il forno, il dannato pane, cucinano il pane su una dannata corazzata... “Uhm ci...” Danimarca sollevò un indice e puntò il corridoio. Lo sguardo si fece perplesso e il tono di voce incerto, sorvolato dall’eco dei passi e dai brusii delle tubature che borbottavano dentro le pareti. “Ci sono planimetrie appese da qualche parte?”

Prussia alzò gli occhi al soffitto e si spolverò la spallina sulla quale non stava appollaiato Gilbird. “Ovviamente,” rispose. “Ma non consideratela come una giustificazione per non tenere a memoria tutto quello che vi ho detto. E memorizzate bene anche tutte le uscite e gli accessi perché, ripeto, non voglio che rimaniate incastrati da qualche parte e che io sia costretto a farvi tirare fuori dai miei ufficiali. Sarebbe patetico sia per me che per voi.” Lanciò un’occhiata rapida verso il corridoio di sinistra, dove le voci di altri uomini si stavano avvicinando, e la sua attenzione tornò subito su Danimarca e Norvegia. “Dunque,” esclamò battendo i palmi, “se non c’è altro, vi accompagno alle vostre cabine.” Prussia si infilò in mezzo alle loro spalle, li superò, e tornò a scendere le scale, ripercorse la strada all’indietro. Aspettò di sentire i loro passi venirgli dietro e rivolse un’occhiata interrogativa alle sue spalle. “Una doppia o due singole?”

Norvegia si affrettò a rispondere. “Singole.”

“Doppia!” Danimarca tenne il braccio impennato dopo l’esclamazione, lo sventolò, e gli occhi luccicarono. Il sorriso si fece più largo e speranzoso.

Norvegia lo fulminò di traverso e Danimarca ricambiò con una ridacchiata di complicità.

Prussia si strinse nelle spalle, continuò a camminare. “E doppia sia.”

Danimarca abbassò il braccio che aveva rizzato sopra la testa e strinse il pugno in segno di vittoria. “Evvai.” Norvegia gli diede un calcetto dietro il ginocchio, facendolo rimbalzare in avanti.

Prussia sbuffò una smorfia di compatimento nei loro confronti, e imboccò l’ala di corridoio che si apriva nell’ambiente riservato alle cabine. “Non illudetevi troppo,” disse a entrambi, “il tempo in cui starete assieme in camera sarà ridotto al minimo indispensabile. Vi dividerete i turni, e dormirete alternandovi, in modo che ci sia sempre uno di voi con me.”

Danimarca perse subito il sorriso. “Tu non dormi?”

Prussia sollevò il mento e si batté il pugno sul petto. “I capitani non dormono. In ogni caso...” Si voltò a puntare entrambi con l’indice, gli occhi tornarono bui e minacciosi come quando li aveva ammoniti ancora prima di salire sulla Bismarck. Il corridoio si fece più freddo, i passi di Prussia più lenti e pesanti. “Ricordatevi che siete qui per lavorare, e non per starvene assieme in camera a,” fece roteare la mano e sventolò via quell’idea, “a fare quello che credete di fare.”

Danimarca si morse il labbro, divenne viola in faccia, e ingoiò un’imprecazione in fondo allo stomaco che aveva ripreso a bollire. Norvegia corrugò un sopracciglio, strizzò i pugni, e anche il suo sguardo piatto vacillò di rabbia.

Superarono l’ultima parte di corridoio, andando oltre i posti di comando per la guardia notturna, camminarono sopra un pavimento di legno che scricchiolò sotto i loro passi, e raggiunsero la nicchia che raccoglieva al suo interno le cabine degli ufficiali. C’era un profumo più ruvido in quell’ambiente, di uniformi appena lavate, di sapone, e di coperte di lana. Prussia balzò in avanti, accelerando la camminata, superò due porte, e arrivò alla cabina sul fondo. “Eccoci.” Si appese alla maniglia, la fece scattare, e spinse la porta che si aprì con un cigolio. Batté una mano alla parete interna – click! – e accese la luce. “Casa, dolce casa.” Compì un passo all’indietro per lasciare spazio a Danimarca e a Norvegia, e tese il braccio verso l’interno della cabina.

Danimarca raggiunse la porta per primo e ci saltellò dentro, anche lui colto da un guizzo di entusiasmo improvviso che gli aveva dato una scossetta in fondo alla schiena. Sbatté le palpebre per abituarsi alla luce, diede un’annusata all’aria che profumava di naftalina e di lacca per legno, e avanzò di due passi più lenti al suo interno. Due cuccette a castello erano incastrate in fondo alla camera, e avevano le coperte di lana cotta ripiegate sotto i cuscini. Tendine scure tappavano l’unico oblò posto accanto ai letti, sopra il piccolo comodino dove giaceva solo una lampada con la spina ancora staccata e arrotolata attorno al fusto. Un armadio in legno di noce, a due ante, era accostato al muro di sinistra, davanti a un altro piccolo tavolino spoglio. Una delle ante era socchiusa, lasciava vedere l’interno di tre scomparti, riempito solo con quattro appendiabiti di ferro. Il brusio delle tubature che correvano sul soffitto e dentro le pareti era più basso e vibrante, ronzava fino alle viscere.

Danimarca lasciò scivolare il suo bagaglio dalla spalla e lo fece cadere sul pavimento. Si avvicinò alle cuccette e passò la mano sul materasso di quella superiore. Annuì. “Carina.”

Anche Norvegia si guardò attorno, spostando gli occhi dal soffitto alla parete, e si avvicinò all’armadio guardaroba. Aprì l’anta, ci sbirciò dentro finendo investito dall’odore di naftalina, e la richiuse. Andò all’oblò e scostò di poco una tendina.

Prussia si scansò per lasciar passare altri ufficiali che stavano andando nelle loro cabine, e diede un colpetto al muro. “Sistemate i bagagli.” Indicò un punto lungo il corridoio. “I bagni sono qua affianco, e la mia cabina è laggiù, nel caso doveste chiamarmi per un’emergenza. Dopo che avrete fatto, raggiungetemi in...”

“Signore.” La voce di un ufficiale appena arrivato alle sue spalle lo interruppe.

Prussia girò lo sguardo verso l’uomo, senza spostarsi e senza abbassare l’indice. “Cosa?” Anche Gilbird si girò e salutò l’ufficiale con un breve sventolio d’ali.

L’uomo in uniforme – bianca anche la sua – raddrizzò le spalle e porse a Prussia due impacchi di carta tenuti legati da fili di spago che formavano una croce. “Le ho portato queste, signore.” I pacchi frusciarono. “Sono appena arrivate.”

Gli occhi di Prussia si illuminarono. Prussia staccò il palmo dal muro e raccolse i due pacchi dalle mani dell’uomo. “Ooh, grandioso.” Li soppesò e li porse a Danimarca che era più vicino. “Ecco,” gli fece, lasciandogli i pacchi fra le braccia, “cambiatevi con queste e poi raggiungetemi nella Sala Radio C, quella proprio sotto l’albero maestro. Vi aspetto fra venti minuti esatti, e non ammetto ritardi, nemmeno di un minuto.” Tornò lo sguardo affilato, gli occhi taglienti e luccicanti di rosso, e la voce bassa e ruvida, come una graffiata di artigli sulla schiena. “Non prendete sotto gamba questa missione solo perché si tratta di una ricognizione nelle acque che vi appartengono,” disse. “Mi aspetto la massima professionalità da entrambi.” Aggrottò un sopracciglio. “Sono stato chiaro?”

Danimarca strinse leggermente le dita sulla carta scricchiolante – tastò una consistenza morbida, di stoffa – e si scambiò un’occhiata con Norvegia. I polsi bruciarono a entrambi, gli fecero di nuovo realizzare chi fra loro tre reggeva le catene dalla parte giusta. Norvegia distolse lo sguardo, Danimarca lo alzò al soffitto, ma annuirono entrambi. “Sì.”

Prussia si schiarì la gola, alzò gli occhi al cielo. “Sì ‘come’?”

Norvegia fece di nuovo tremare i pugni e Danimarca digrignò i denti. Risposero in coro. “Sì, Signor Capitano.”

“Perfetto.” Prussia ghignò. “Vedete che imparate anche voi?” Si girò, sventolò un saluto da sopra la spalla, e accompagnò l’anta della cabina facendola di nuovo cigolare. “Venti minuti, ciurma.” Se ne andò chiudendo la porta. I suoi passi si allontanarono, diventando un eco ovattato, e finirono sostituiti solo dal ronzio delle tubature.

Norvegia sospirò, fece anche lui scivolare il suo bagaglio dalla spalla e lo lasciò ricadere ai piedi della cuccetta inferiore. Danimarca si girò a lasciargli fra le mani i due impacchi di carta e la sua fronte si corrugò in un’espressione di sconforto. “Sarà un viaggio dannatamente lungo.” Si portò davanti all’oblò, restrinse le palpebre, e anche lui diede una sbirciata attraverso lo spazio fra le tendine.

Norvegia lasciò scivolare una delle buste di carta sulla cuccetta, rigirò quella che gli era rimasta fra le mani, e la spremette leggermente, tastando la morbida consistenza della stoffa sotto lo scricchiolio dell’impacco. Slacciò i due fili di spago, scartò la confezione, e le sue mani si congelarono. Un’aura grigia gli attraversò il volto impietrito, gli annebbiò gli occhi rimasti paralizzati e lucidi come pezzi di vetro. Norvegia sospirò, rassegnato, e i suoi muscoli tornarono a rilassarsi. “Oh, no.”

Danimarca richiuse le tendine, scoccò a Norvegia un’occhiata interrogativa. “‘Oh, no’ cosa?” La sua voce già fremeva di timore, di un brutto presagio che gli si era infilato sotto i vestiti come una pioggerella di ghiaccio.

Norvegia raccolse il pacco ancora intero che aveva appoggiato sulla cuccetta, e glielo lanciò. “Questo.”

Danimarca lo acchiappò al volo, facendo scricchiolare la carta, e lo girò subito per raggiungere il nodo dello spago. Gettò via i lacci, strappò la confezione di carta marrone, e sbiancò anche lui. Il suo cuore si ghiacciò, martellò un ultimo battito che lo fece diventare grigio in faccia, la bocca rimase socchiusa in quella mezza smorfia di orrore e indignazione che gli fece traballare le labbra. Danimarca sgranò gli occhi, trattenne il respiro, e la luce di rabbia che si era accesa nelle sue pupille sembrò dar fuoco ai brandelli di carta strappata ancora avvolta attorno al contenuto del pacchetto.

Sulla manica sinistra, stirata e ripiegata sulla giacca bianca assieme a quella destra, erano cucite quattro bande dorate assieme a una stella a cinque punte, dello stesso colore, ricamata sotto le fasce. Le controspalline erano formate da un intreccio argentato che racchiudeva al suo interno un disco dorato e due stelle a quattro punte. Gradi da primo ufficiale, da Kapitän zur See. La croce di ferro risplendeva sul taschino della giacca, accanto ai quattro bottoni dorati che attraversavano il busto.

Le mani e le braccia di Danimarca tremarono. Fuoco vivo gli arse nel sangue. Fra le dita che reggevano l’uniforme tedesca con la croce di ferro cucita sopra si raccolse il desiderio rovente di raggiungere Prussia e di stenderlo a suon di cazzotti. Il cuore riprese a battere, accelerò infiammandogli il viso, il petto e lo stomaco. Danimarca serrò i denti e contenne un ringhio in fondo alla bocca. “Figlio di...” Si gettò alla porta, la spalancò sbattendola sulla parete della cabina, e il tonfo improvviso fece girare alcuni marinai di passaggio. Prussia era sparito. Danimarca inspirò fino a sentire i polmoni bruciare, e lanciò un urlo che ruggì attraverso tutta la corazzata. “Prussiaaa!” Tutti si girarono, alcuni gli lanciarono vaghe occhiate perplesse, e poi proseguirono. Danimarca sollevò l’uniforme ancora piegata e impacchettata nella carta strappata, e la sventolò sopra la testa. “Brutto stronzo,” gridò, anche se Prussia non c’era, “non mi infilerò mai questa merda addosso!” La sbatté sul pavimento, riagguantò la porta della cabina e la richiuse sbattendola. Dopo tre secondi la riaprì, si chinò a raccogliere l’uniforme grugnendo qualcosa fra le labbra ancora imbronciate, e tornò a sbattere l’anta.

Danimarca scartò quello che rimaneva dell’impacco marrone. Estrasse anche camicia e pantaloni bianchi, cravatta nera, e una cinta dorata spessa quanto il suo palmo che si chiudeva con una fibbia a forma di umbone. Strinse le dita sulla stoffa facendo stridere le unghie sui bottoni della giacca, e i tremori di rabbia tornarono a irrigidirgli la mandibola, a scivolargli fra i denti e ad arrochirgli la voce. “Quel gran bastardo figlio di...” Una scintilla argentata luccicò su un braccio della croce di ferro cucita sul taschino, e catturò il suo sguardo infiammato di rabbia. La croce che aveva sempre brillato sul petto di Germania durante gli scontri con Inghilterra, quando reggeva le catene a lui e a Norvegia, e che aveva brillato anche sul petto di Prussia durante la Guerra al Nord, quando Finlandia era crollato ed era finito fra le loro mani. Danimarca scosse il capo e si girò in cerca di Norvegia. Non poteva farcela. “Chi diavolo si crede di essere per costringermi a mettermi questa roba addosso? Io...” Si bloccò, le labbra tornarono congelate e lo sguardo sgranato come quando aveva aperto la busta di carta.

Norvegia finì di indossare la giacca – calzava già i pantaloni bianchi –, abbassò lo sguardo per infilare i quattro bottoni dorati nelle asole, e ribaltò il bavero sistemandoselo attorno al collo. Le maniche fasciate dal paramano composto dalle quattro bande e dalla stella gli andavano leggermente larghe e toccavano le nocche. Le spalle calzavano a pennello.

La rabbia che si sciolse dal viso di Danimarca gli lasciò dipinta addosso una grigia e smorta espressione di delusione. “Perché te la stai mettendo?”

Norvegia raccolse la cintura arrotolata che aveva posato sul materasso della cuccetta, accanto agli abiti che si era appena tolto. “Perché qui vigono le sue regole.” Srotolò la cinta, se la passò attorno alla vita, sopra la giacca, e agganciò la fibbia all’altezza del ventre. Clack! “Lamentarti non servirà a niente,” disse Norvegia, “e soprattutto non gli farà cambiare idea su cosa farti fare o meno. Anzi, arrabbiandoti gli darai ancora più soddisfazione quando dovrai comunque fare quello che ti ordina.”

“M-ma io...” Danimarca tornò a guardare l’uniforme che reggeva fra le mani, ingoiò un aspro conato di odio, e tornò ad aggrottare la fronte. “Io non mi metto un’uniforme tedesca.” La buttò sulla cuccetta e annodò le braccia al petto, scrollò le dita per strizzare via la sensazione di averla tenuta fra le mani. “Mi strappo la pelle di dosso, piuttosto.”

Norvegia raccolse la giacca che Danimarca aveva lanciato, la rigirò, e gliela buttò in testa. “Be’, o la indossi o vai in giro nudo. Prova un po’ a pensare a quale delle due scelte avrà più conseguenze.”

Danimarca sollevò una delle maniche bianche che gli pendevano davanti al viso, stese un sorriso da idiota e ammiccò. “Aah, ci stai sperando, eh?”

Norvegia gli lanciò i pantaloni in faccia.

 

.

 

Danimarca infilò la mano sotto l’apertura della giacca, raggiunse la spalla e si grattò da sopra la stoffa della camicia. Spinse le dita più a fondo e raggiunse la scapola, aumentò la velocità e continuò a grattarsi per scrollarsi di dosso la sensazione bruciante e appiccicosa trasmessa dall’uniforme tedesca, come se stesse indossando vestiti fatti di ortiche. Soppresse un ringhio di frustrazione fra i denti serrati, si girò sul fianco continuando a camminare di sbieco, e si diede una grattata più violenta anche alla schiena, sotto la cinta che gli attraversava la vita da sopra la giacca. Contenne un altro ringhio che gli inacidì la voce. “L’ha fatto apposta.” Danimarca saltellò per rimanere al passo con Norvegia e con l’ufficiale che li stava accompagnando alla Sala Radio C, e sbatté con una spalla sulla parete del corridoio. Aggrottò di più la fronte, gonfiando il broncio nero che gli immusoniva la faccia, e usò l’altra mano per strofinarsi anche la spalla di destra. Le unghie cominciavano a bruciare. “L’ha fatto apposta perché sapeva che mi avrebbe fatto incazzare.” Infilò di nuovo la mano nello spacco della giacca e si grattò il costato, sotto la parte della stoffa dove era cucita la croce di ferro che rimbalzava sul suo petto a ogni saltello. Danimarca si rosicchiò il labbro ed emise un grugnito di rabbia. “Voleva solo farmi incazzare, quel gran bastardo.” La croce gli pesava contro il torso come un chiodo piantato fra le costole. Pesava di sconfitta.

Norvegia spostò lo sguardo su di lui con un movimento impercettibile degli occhi, e tornò a guardare davanti a sé, verso la schiena dell’ufficiale che li stava scortando. Testa alta e spalle dritte, impeccabile nell’uniforme bianca che fasciava il suo corpo asciutto. “Certo,” gli disse con tono piatto e accomodante. “Prussia l’ha fatto per indispettire te. Tutto quello che fa è per indispettire te. Tutto quello che fanno gli altri gira sempre e solo attorno a te.”

Danimarca brontolò uno sbuffo fra le labbra, tirò fuori la mano dalla giacca e si batté il pollice al petto. “Se il mondo girasse davvero attorno a me non sarebbe la merda che sta diventando.”

L’ufficiale tedesco che li scortava tossicchiò da sotto i baffi e fece finta di non aver sentito. Superarono uno dei magazzini, aspettarono che un gruppo di tre marinai che stavano trasportando sacche sulle spalle e sopra la testa passassero accanto a loro, e si fermarono davanti a una delle sale radio. L’ufficiale indicò la porta a Danimarca e Norvegia. “La sala è questa, signori.” La aprì spingendo l’anta all’interno e si portò in disparte, li lasciò passare stando sull’attenti. “Chiamateci pure nel caso aveste bisogno d’aiuto per tornare indietro nella vostra cabina. Noi siamo sempre qua attorno.”

Danimarca aveva ancora una mano infilata sotto la giacca e le dita appese alla camicia per passare unghiate sotto la clavicola. Percorse l’entrata della sala con lo sguardo e si soffermò sullo scorcio di soffitto che intravedeva dal corridoio. Posò il piede sulla fetta di luce bianca e fredda, artificiale, strisciata sul pavimento di legno, e venne colto da un brivido di disagio simile a quello trasmesso dal peso della croce di ferro sul suo petto. Ebbe l’impeto di tirarsi indietro. “Uhm.” Danimarca si sfilò la mano da sotto la giacca, strinse e rilassò i pugni due volte. Sciolse il brivido. “D’accordo,” farfugliò. Norvegia gli passò affianco, esitò buttando uno sguardo alla parete, ed entrò prima di lui.

L’ufficiale annuì e tornò ad agguantare la maniglia. “Buon lavoro, signori.” L’anta strisciò a terra, emise un sofferente fischio metallico, e si chiuse con uno scatto secco.

Un violento e improvviso odore di metallo, di silicone e della pelle delle poltrone nuove sostituì quello più morbido del corridoio. Danimarca sbatté le palpebre per abituarsi alle luci della sala che si proiettavano in mezzo alle torri di pannelli d’acciaio attraversate dai cavi bianchi, grigi e blu, che rendevano l’atmosfera più estraniante. Si avvicinò a Norvegia che stava scorrendo con gli occhi i quadranti già in funzione. Le lancette stabili all’interno degli ovali aggiungevano sottili blip! al rumore delle tubature che gorgogliavano anche attraverso quelle pareti. Danimarca non scorgeva la fine della stanza. I pannelli più alti ne bloccavano la vista e le luci troppo forti che battevano sull’acciaio distorcevano i profili delle ombre. Soffiò uno sbuffo di esasperazione e si avvicinò anche lui a una delle torrette in fila con altre quattro gemelle che componevano un muro di manopole. Piegò le spalle in avanti e vi si specchiò sopra. “C’è da perdersi,” commentò. Batté l’unghia sopra uno degli ovali, facendo ronzare la lancetta stabile sul numero sessanta, e si sollevò sulle punte dei piedi per guardare oltre la torretta.

“Ciurma...”

La voce appena emersa fra le pareti lo fece tornare con le suole per terra. Sia Danimarca che Norvegia si girarono e rivolsero lo sguardo all’ombra che era comparsa accompagnata da uno schioccare di passi su quel pavimento appena tirato a lucido.

Prussia avanzò in mezzo a due dei pannelli, scavalcò un fascio di cavi che serpeggiava accanto alla parete, e finì anche lui abbagliato dalla luce fredda delle lampade che brillarono sui bottoni dorati della sua uniforme, sulle controspalline, sulle bende che avvolgevano la manica sinistra, e sulla croce di ferro cucita assieme alle altre piastrine colorate. Gilbird diede una scrollata alle piume e tornò accoccolato sulla spalla del padrone. Gli occhietti neri fermi e attenti sulle due nazioni davanti a loro. Prussia sollevò un sorriso aguzzo e spavaldo, e stese un braccio a indicare la camera. “Benvenuti ufficialmente a bordo della Corazzata Bismarck, signori.” Li squadrò con aria compiaciuta soffermandosi sulle loro giacche bianche, e la sua voce assunse un sottilissimo tono di sfida. “Vi piacciono le uniformi?”

Un’ennesima fiammata di rabbia ruggì nel sangue di Danimarca e si condensò all’interno dei suoi pugni strizzati contro i fianchi, facendogli tremare le braccia. Danimarca si piantò le unghie nei palmi. Oh, ti piacerebbe che mi piacessero, vero? Brutto crucco figlio di un...

Norvegia gli posò la mano su un pugno, gli punse il polso con l’unghia, scaricandogli una scossetta, e gli fece rilassare la tensione. Il sangue defluì, Danimarca sospirò e fece scivolare via quei pensieri dalla testa. Tornò un bravo soldatino.

Prussia si girò, avanzò in mezzo ai pannelli, e li chiamò con un cenno della mano. “Seguitemi. E fate estrema attenzione a quello che vi dirò.” Si infilarono fra i macchinari, sorpassarono i quadri di comando e i contatori riempiti da manopole sezionate da numeri e circondate da archi colorati. Macchine da scrivere nere e lucide si incastravano negli scomparti occupati da scrivanie su cui erano sistemati portapenne, cestini con fogli di carta, fascicoli e documenti. Un paio di cuffie trovavano il loro posto in ogni postazione, appese ai pannelli. Giungle di cavi di silicone intrecciati fra loro e tenuti assieme da fascette sgusciavano fuori dai contatori protetti da ante di plastica, si arrampicavano lungo le pareti come liane, e andavano a infittirsi sul soffitto, dove i rimbombi delle tubature si infittivano.

Prussia raggiunse il fondo della camera, dove una scrivania più larga era sistemata in mezzo a quelle accostate al muro, e raccolse una delle carte geografiche spiegate sopra quelle millimetrate che occupavano l’intero spazio del banco. La sua voce suonò di colpo più seria e pesante, come un pugno allo stomaco. “L’Operazione Rheinübung scatterà ufficialmente alle ore zero-due-zero-zero di questa notte, quando salperemo dal Porto di Gotenhafen per dirigerci verso le acque dell’Atlantico.” Si fermò ad aspettare gli altri due, posò le punte delle dita su un piccolo spazio di superficie di formica che emergeva in mezzo all’ammasso di carte, e li fissò negli occhi. “Questo...” Sfilò la carta nautica più grande e la girò verso Danimarca e Norvegia. La fece scivolare verso di loro senza sollevarla dalla scrivania. “Sarà il nostro percorso.”

Danimarca e Norvegia si sporsero a guardare, e Danimarca strinse le braccia al petto per nascondere la croce di ferro dalla sua stessa vista. Ne intercettava sempre la scintilla argentata quando abbassava gli occhi.

Prussia posò l’indice sulla Baia di Danzica affacciata al Mar Baltico, e l’ombra del suo indice attraversò tutta l’Europa. “Verso le ore uno-due-zero-zero di domani dovremmo raggiungere l’Isola di Rügen,” il polpastrello scivolò verso ovest, percorrendo la costa, e si fermò su un’isola sopra la Germania, “in questo punto,” batté il dito su ‘Rügen’, “e da qui ci uniremo all’incrociatore Prinz Eugen e agli U-Boot Z-16 e Z-23 che faranno da scorta al convoglio. Navigheremo lungo la costa tedesca,” il suo indice salì verso nord, “poi passeremo il Gran Belt, il Kattegat, lo Skagerrak, e ci terremo ben camuffati all’interno dei fiordi naturali.” Buttò a Norvegia un’occhiata fredda e inquisitoria. “Il tempo dovrebbe essere a nostro favore, o sbaglio?”

Norvegia strinse le mani che teneva giunte dietro la schiena, e rivolse inconsciamente gli occhi al soffitto, come a scrutare il cielo. “Di solito c’è sempre molta nebbia in questo periodo dell’anno.”

“Ed è quello che vogliamo.” Prussia aprì la mano, la batté sulla carta, e inghiottì l’immagine della Scandinavia. I suoi occhi abbagliati dalla luce artificiale della camera apparivano ancora più lucidi e taglienti. “Questa è un’operazione che abbiamo mantenuto altamente segreta, persino alla nostra stessa nazione, in modo che nessuna informazione trafeli rischiando quindi di finire in mani inglesi. Infatti...” Tornò a tracciare la rotta invisibile con l’indice, passò attraverso i fiordi. “Lungo questo percorso, tutto il traffico mercantile tedesco è stato sospeso, in modo che nessuno avverta movimenti sospetti. Gli inglesi hanno le orecchie dritte su questa porzione di Atlantico, perché sanno che è una zona calda, e anche il più piccolo segnale radio ci tradirebbe. Non deve assolutamente succedere.”

Danimarca corrugò le sopracciglia in un’espressione scettica e fece tamburellare le dita sulle braccia incrociate. “Come farai ad assicurarti che Inghilterra non verrà a sapere della nostra navigazione?” domandò. “Ci muoveremo proprio sotto di lui.”

Prussia staccò l’indice dalla porzione di mare e lo portò ancora più a nord. Superò il Regno Unito e si soffermò sulle Isole Orcadi. “Perché io comunque mi occuperò di tenere costantemente monitorata Scapa Flow tramite ispezioni aeree. Se qualche nave britannica mancherà all’appello, allora saprò che Inghilterra si è messo in allarme e che ha dato ordine di inseguirci. A quel punto, potremo anche cominciare a preoccuparci. Tuttavia...” La tensione sul suo sguardo si sciolse, rendendo l’espressione più morbida e gli occhi meno minacciosi. “Ora Inghilterra è a Creta, e dubito che abbia intenzione di abbandonare le posizioni, dato che stiamo per attaccarlo anche laggiù. Perciò possiamo starcene abbastanza tranquilli.”

Gli occhi di Danimarca percorsero il tracciato che risaliva attraverso il mare e che si infilava fra Groenlandia e Islanda per poi sfociare nell’Oceano Atlantico. Tornarono sulle coste inglesi protette dalla Royal Navy. “E se dovessimo comunque incontrare dei convogli inglesi prima di arrivare nell’Atlantico?”

“Allora il piano sarà questo.” Prussia si spinse il pollice sul petto, sopra la croce. “Nel caso dovessimo ingaggiare un combattimento, io guiderò la Bismarck contro le unità potenziali di scorta, mentre il Prinz Eugen si butterà sulle unità mercantili. Teoricamente, dovrei riuscire a guidare l’attacco di entrambe le navi, anche senza il vostro aiuto, ma...” Si strinse nelle spalle, allontanò gli occhi torcendo un angolo della bocca in una smorfia di disagio. “Se avessi bisogno del vostro supporto,” disse con tono più esitante, “allora voi vi muoverete solo sotto un mio ordine, e mai di testa vostra. E toccherete solo il Prinz Eugen, come vi avevo già avvertito. Ah, e a proposito...” Un’ombra elettrica tornò ad addensarsi attorno a lui, circondandolo come una nebbia scura. L’aria divenne di ghiaccio, i suoi occhi brillarono di rosso, il suo viso corrugato in quello sguardo di minaccia finì inghiottito dal nero. “Non provate nemmeno a pensare di sabotarmi o di mettervi a fare strani giochetti alle mie spalle, chiaro?”

Danimarca sentì una scarica di brividi bruciare lungo la schiena. Ingoiò il respiro, e i suoi muscoli divennero di pietra. Si sentì impallidire, le guance divennero fredde, e una riga di sudore gli attraversò la tempia.

Prussia tornò a schiena dritta, le spalle larghe, la sua stazza nobile e imponente davanti agli altri due. La sua ombra trasmise la stessa energia elettrica che batteva nella corazza della Bismarck, fra le sue viscere e dentro il suo cuore. “Ricordatevi solo dove vi trovate, sotto quale comando vi trovate,” un breve sguardo ai loro polsi riparati dalle maniche, “e chi fra noi impugna le catene. Una mossa falsa da parte vostra verso di me...” Le labbra rigide in quello sguardo intimidatorio si flessero in un tagliente e sadico sorrisetto. “E non c’è bisogno che vi spieghi quali saranno le conseguenze nei vostri confronti, no?”

Danimarca e Norvegia si guardarono di sbieco. Norvegia abbassò la fronte senza staccargli gli occhi di dosso, e flesse le estremità delle sopracciglia a indicare Prussia mimando un’espressione di ammonimento. Ti scongiuro, dagli retta. Non metterti a fare idiozie e usa il cervello, per una volta.

Danimarca inspirò a fondo, aprì e strizzò i pugni, sciolse il groviglio di odio nei confronti di Prussia che gli stagnava nel petto, e ricevette il pensiero di Norvegia. Guardò Prussia negli occhi, rispose con tono piatto. “No.” Sollevò una manica della giacca e si strofinò il polso bendato che aveva ricominciato a pizzicare.

Anche la tensione sul viso di Prussia si distese. “Cerchiamo allora di far procedere la missione nella maniera giusta fin da subito.” Sollevò una mano per carezzare la testolina di Gilbird con l’indice, e il canarino flesse la testolina di lato per farsi grattare anche sulla nuca. “Se voi mi ubbidirete senza fare i difficili come avete fatto durante la Battaglia di Inghilterra,” continuò Prussia, “allora non avrete nulla di cui preoccuparvi, e io farò in modo che non vi capiti nulla.”

Norvegia sussultò, e una minuscola scintilla di sorpresa gli attraversò lo sguardo. Sa di quello che è successo durante la Battaglia di Inghilterra? Tornò a restringere le palpebre e a squadrare Prussia con occhi più freddi e ostili. Ovvio, Germania deve avergli detto tutto. E deve sicuramente averlo anche messo in guardia da noi... Fece scivolare lo sguardo sul profilo di Danimarca e un soffio di sconforto gli ingrigì il volto. O almeno da Danimarca.

“Se il tempo e il mare saranno dalla nostra parte,” proseguì Prussia, “dovremmo raggiungere il Porto di Bergen già entro il ventuno.” Sfilò l’indice dal piumaggio di Gilbird e indicò la città di porto norvegese in mezzo ai fiordi. “Stazioneremo al porto, faremo verniciare entrambe le navi con pitture mimetiche, e la vera operazione partirà da lì.” Si strinse la mano sul fianco e corrugò uno sguardo duro. Uno sguardo da Germania. “Vedete di farvi trovare in forma. Non voglio lamentele per il sonno o per la fatica, vi voglio scattanti e operosi.” Un’ultima occhiata di ammonimento scintillò fra le sue palpebre. “Mi sono spiegato?”

Danimarca strinse i denti per trattenere un ringhio, ma rispose docilmente assieme a Norvegia. “Sì.”

“Ho detto,” Prussia rafforzò il tono, “mi sono spiegato?

Danimarca e Norvegia resistettero alla martellata di rabbia che era precipitata sulla nuca di entrambi, si trattennero dall’uscire dalla camera, ripercorrere i corridoi, scendere per la scala d’accesso e andarsene dal porto, e annuirono lasciando uscire quelle parole che erano come una coltellata sulla lingua. “Sì, Signor Capitano.”

“Bene!” Prussia li superò e i suoi passi si allontanarono schioccando fra le pareti d’acciaio della sala radio. “Rompete le righe, ciurma,” esclamò con entusiasmo. “Vi farò chiamare quando leveremo le ancore.” La porta si aprì, stridette, e si richiuse con uno schiocco che fece piombare il silenzio nella camera.

Danimarca gettò nuovamente lo sguardo sulle carte nautiche e su quelle millimetrate che erano rimaste aperte sulla scrivania. La linea tratteggiata che segnava il percorso, scivolava lungo le coste tedesche, poi fra lui e Norvegia, e ancora più a nord, verso Islanda, e gli provocò un conato di disgusto. Quella linea che penetrava i loro mari e che sfiorava la loro terra era come una mano fredda e viscida infilata fra le cosce nude. Danimarca scosse il capo. “Non mi piace.” Si mise a braccia conserte, stringendosi nelle spalle per sopprimere la sensazione di disagio, e camminò avanti e indietro a passo pesante. “Non mi piace per niente. Non mi piaceva la scorsa estate e continua a non piacermi ora.” Sbuffò. “Per chi merda ci ha presi? Trattarci come,” esitò, “come...” Schiacciò i pugni contro gli avambracci e sentì la pressione delle fasce ai polsi bruciare contro le piaghe mai guarite. Danimarca strinse i denti. “Perché dovremmo continuare a stargli dietro? Cosa dovremmo ottenere da questa lotta?” Allontanò gli occhi dalle carte e li posò sul profilo di Norvegia. Sospirò, in cerca di una sua consolazione. “Che facciamo, Nor?”

Norvegia abbassò le palpebre e scosse il capo, impotente quanto lui. “Nulla.” Si avvicinò alla scrivania e posò le punte delle dita sulla traiettoria. La percorse lentamente, carezzando i profili delle loro nazioni. “Perché, anche se non abbiamo niente da guadagnarci, abbiamo comunque tutto da perdere.”

Danimarca guardò in mezzo ai piedi e il suo volto tornò scuro, la fronte contratta da una ruga di frustrazione. “Tutto da perdere...” Sollevò le mani, aprì i palmi, mosse piano le dita sbiancate per la pressione di quando le aveva schiacciate a forma di pugno. La sua voce tremò. “E cos’è che ci è rimasto fra le mani?” Quel suo mormorio cadde nel vuoto, si perse in mezzo ai ronzii che attraversavano la sala, e finì assorbito dalle pareti.

Gli occhi di Norvegia si concentrarono sulla carta, l’ombra li accerchiò infossandone la luce e li rese più bui. Quel presagio che aveva toccato Danimarca come una mano gelida si posò anche su di lui, lasciandogli un’impronta di ghiaccio sulla pelle. C’è qualcosa che non convince anche me. Fece scivolare lo sguardo verso la porta, verso la direzione imboccata da Prussia. Chiamarci per un’operazione del genere, dove non ci sarà nemmeno permesso di combattere a meno che non sia Prussia stesso a guidarci... Restrinse le palpebre. Quale dovrebbe essere il nostro vero scopo in tutto questo?

Norvegia raddrizzò le spalle e anche lui si mise a braccia conserte. Fece tamburellare le dita riprendendo a fissare le mappe sulla scrivania. Prussia sa qualcosa. Sa qualcosa che noi non sappiamo e che userà contro di noi. Si morse l’interno del labbro. Il freddo presagio divenne un groviglio di calore che bruciò attorno al cuore. Ma cosa?

L’ombra stesa lungo tutta la Scandinavia rimase nera e fitta come un panno di pece, si preparò a inghiottire le loro nazioni in un freddo e crudele abbraccio di sofferenza che sarebbe presto piombato addosso a ognuno di loro.

 

.

 

Prussia passò un’altra piccola carezza sulla testolina di Gilbird, ancora appollaiato accanto alla sua guancia e con le zampe aggrappate alla controspallina, e si rivolse all’ufficiale che gli camminava affianco durante la loro marcia attraverso il corridoio. “Le linee telefoniche sono ancora attaccate?” Sfilò l’indice dalle piume di Gilbird e strinse le mani dietro la schiena.

L’ufficiale annuì. “Sissignore,” rispose. “Le staccheremo solo quando salperemo.”

“Ottimo.” Prussia inspirò gonfiandosi il petto con un frizzante senso di eccitazione, e allargò un aguzzo sorriso smagliante. “Allora c’è solo un’ultima persona da avvisare prima di partire.”

 

.

 

La voce di Finlandia squillò dall’altro capo della cornetta. “Cosa?” esclamò con un sobbalzo. “Ci sei tu a guidare di persona le operazioni con la Bismarck? Ma...” Finlandia tentennò, si fece più insicuro, e sue le parole tremolarono attraverso la sgranatura della linea. “Ma Giappone mi aveva detto che sia tu che Germania sareste rimasti a Creta, e pensavo che...”

“Sì,” Prussia lo anticipò, “in effetti è stata una decisione abbastanza affrettata.” Raccolse il cavo della linea telefonica che passava sopra la scrivania, lo spostò dalle carte che qualcuno aveva lasciato sparse sulla postazione, davanti all’apparecchiatura, e accavallò le gambe sulla sedia. “Ma abbiamo organizzato l’assedio a Creta meglio del previsto,” disse con tono rassicurante, “così abbiamo deciso che mio fratello se la caverà benissimo anche da solo.” Prussia spostò lo sguardo alle sue spalle, attirato dalle voci provenienti da un gruppo di tre tecnici radunati attorno a un’apparecchiatura da cui stavano prendendo appunti, e tornò a girarsi. Rilassò le spalle sullo schienale. “Poi non mi piaceva l’idea di non seguire la vera prima missione della corazzata.” Carezzò una delle colonne che lo separavano dagli altri scompartimenti, e si lasciò pervadere dal senso di calore trasmesso da quel semplice tocco. Sollevò un piccolo sorriso. “È una nave speciale per me.” Gilbird alzò il musetto da uno dei fogli che stava beccando per noia, e squadrò Prussia con occhietti ingelositi.

“M-ma,” la voce di Finlandia tornò incerta dall’altro capo dell’apparecchio, “ma quindi io, uhm, dovrei ancora...” Si perse in un mormorio che non seppe come terminare la frase.

Prussia aprì il palmo, raccolse Gilbird e lo fece zampettare fra le dita e sulle nocche. Parlò a Finlandia con tono rassicurante. “Dato che ci sono io qua a monitorare la situazione, non è più strettamente necessario che tu ci passi informazioni dalla terraferma.” Si strinse nelle spalle. “In ogni caso, un aiuto in più non fa mai male. Quindi, se per caso notassi qualunque movimento sospetto da parte della Royal Navy o di chiunque altro, mandami un bollettino radio. D’accordo, Fin?”

“Ah, sì, va bene.” Una breve pausa – forse Finlandia aveva annuito – e poi anche la sua voce riacquistò sicurezza. “Sì, non ti preoccupare,” esclamò, “starò attentissimo.”

Sulle labbra di Prussia si piegò un sorriso di soddisfazione. “Bravo.” Sollevò il pollice, grattò il petto di Gilbird, e il canarino inclinò la testolina per farsi strofinare anche lungo il collo.

“Uhm, quindi...” Finlandia parlò con tono più cauto, ci fu uno sfrigolio della linea. “Ci sei solo tu sulla Bismarck? Tutti gli altri sono rimasti a Creta?”

Prussia fermò il tocco in mezzo alle piume di Gilbird, irrigidì le dita, ed esitò. Si guardò attorno – gli uomini ancora raccolti attorno alle apparecchiature, qualcuno che entrava e che usciva dalla porta, un borbottio di voci che non riusciva a distinguere, i riflessi di luce sui pannelli e i piccoli squilli provenienti dalle radio. Si schiarì la voce e tornò con lo sguardo solo sul suo apparecchio. “Sì.” Posò Gilbird sulla scrivania e raccolse una penna che qualcuno aveva lasciato accanto alle carte. La fece rigirare fra le dita e si sbarazzò di quel briciolo di senso di colpa che si era incuneato nel suo cuore. “Sì, qua ci sono solo io.” Mostrò al ricevitore un sorriso spavaldo. “Ma io sono così forte che faccio per tre, ti pare?”

Finlandia soffiò una dolce risata di consolazione. “Sì, sicuramente. Però fai attenzione, mi raccomando.” Uno scricchiolio della linea, e la sua voce tornò più bassa e preoccupata. “Il Mare del Nord è più pericoloso di quello che sembra, soprattutto in questa stagione, dato che i ghiacci si stanno sciogliendo e che ci sono molte precipitazioni. Fai attenzione alla nebbia.”

Prussia annuì con un gesto solenne e sollevò la mano in segno di promessa. “Starò attento, promesso.” Posò un’altra carezza sulle piume di Gilbird, e nei suoi occhi tornò quell’ombra di cupo presagio che gli aleggiava anche attorno al cuore, appesantendogli il petto. “Tieni gli occhi aperti, Fin, anche con Russia. Resisti ancora un po’ e poi ti portiamo via da lì. Promesso.”

Finlandia prese un respiro profondo e rispose con voce più calda e fiduciosa. “Sì. Farò il mio dovere. Lo prometto anch’io.”

“Bravo.” Prussia accennò un sorriso più mite all’apparecchio. “Ci si vede.”

“Ciao, Prussia.”

Riagganciarono entrambi. Prussia invertì la posizione delle gambe accavallate, si stiracchiò contro lo schienale della sedia, si massaggiò le palpebre che già bruciavano per la luce che batteva sulla camera, e soffiò un sospiro liberatorio. In mezzo al ronzio proveniente dalle pareti e dal brusio spanto dalle frasi che si stavano scambiando i tecnici alle sue spalle, riemersero le ultime parole che erano passate attraverso l’apparecchio telefonico. “Ci sei solo tu sulla Bismarck?” riecheggiò la voce preoccupata di Finlandia.“Sì,” confermò di nuovo l’eco di quella di Prussia. “Sì, qua ci sono solo io.” Una voce macchiata però da un fremito di colpevolezza che gli era rimasto incastrato come una spina nella bocca.

Prussia sospirò, sporse di nuovo la mano per far salire Gilbird sul palmo, fece zampettare il canarino fra le dita, lasciando che gli beccasse le nocche e che sbattesse le ali come una farfallina appena colta da un fiore, e quella dolce visione alleviò la pesantezza dei sensi di colpa. Mi sento un bastardo a ingannare uno come Finlandia. Lui è l’ultimo che se lo meriterebbe. Il suo cuore tornò a incupirsi. Prussia aggrottò la fronte, ridivenne scuro in volto, anche sotto i riflessi delle lampade, e le vibrazioni di energia provenienti dalla corazzata gli corsero nel sangue, assecondando il suo battito cardiaco. Però...

Si mise Gilbird sulla spalla, si alzò dalla postazione, si aggiustò la giacca che si era sgualcita contro lo schienale, e attraversò la camera a testa alta, dirigendosi all’uscita. Ho giurato che sarei andato avanti in questa guerra utilizzando ogni strumento a mia disposizione. E il legame fra quei cinque... Un sottile ghigno di crudeltà e furbizia gli comparve sulle labbra. Gli occhi si accesero, lucidi, scarlatti e scottanti come perle di sangue. È un’arma perfettamente carica che mi potrà essere utile ancora per un po’.

   
 
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