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Autore: EdemaRuh    15/10/2017    1 recensioni
Una soffitta, una videocassetta e noi, che non sapevamo farci gli affari nostri. Così è iniziata.
Un manicomio di notte, il cliché perfetto. Così è finita.
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il giorno tanto atteso arriva subito. Il che è abbastanza ovvio visto che ci siamo salutati domenica sera con l’intenzione di vederci martedì. Questo non mi ha impedito di morire di ansia ieri, ma la mia ansia è un’altra storia.

Siamo di nuovo a casa di Luca, la videocassetta è già pronta per essere vista e anche i video di Alessio sono caricati sulla chiavetta USB già collegata al computer di turno. Resta solo da decidere da dove iniziare. Dal momento che non riesco più a vivere, chiedo (o meglio quasi supplico in ginocchio) di partire dai secondi e fortunatamente vengo accontentata.

E così eccoci lì, mentre entriamo nella prima stanza, nella seconda, nella terza. Avanti e indietro per ore. Guardiamo solo alcuni pezzi che ci bastano per renderci conto che alcune cose non sono esattamente come ce le ricordavamo e non è solo l’impressione di alcuni. Concordiamo tutti. Finalmente arriva il fatidico momento in cui ci avviamo per tornare all’entrata. Eccola comparire in fondo al corridoio. Quando la videocamera è abbastanza vicina è evidente che la finestra è esattamente come l’avevo vista io: sbarrata dall’interno. Con tanto impegno. Alessio con il telefono prosegue, poi sento la mia stessa voce fermare tutto per far notare quello che ho visto. La videocamera inquadra la finestra, senza più assi di legno ad ostruirla, proprio come l’abbiamo trovata quando siamo entrati all’inizio. Ora ho finalmente la prova che non ero io il problema, anche se forse avrei preferito continuare a pensare che fosse solo un’illusione della mia mente dovuta al luogo inquietante in cui mi trovavo o alla necessità di cliché.

Ringrazio di non trovarmi più lì e giuro solennemente a me stessa che mai più metterò piede in quell’edificio, ne andasse della mia stessa vita. Il solo pensiero di quanto ci è successo mi terrorizza anche a distanza di due giorni e di parecchi chilometri.

Per quanto mi riguarda ho ottenuto quello che volevo e smetterei immediatamente di guardare il filmato e di mettere il naso in storie che, è evidente, non mi riguardano. Gli altri purtroppo non sono della stessa idea, quindi mi tocca subirmi tutto il tempo passato nella stanza degli archivi, le facce gioiose quando troviamo documenti che possono svelarci qualcosa di più sul paziente 507, la stanza in cui solo io sono entrata. Mi rendo conto che sono piuttosto curiosi di sapere cosa c’era lì dentro, dal momento che loro non hanno avuto occasione di vederla.

Erika che quasi vomita, io che mi faccio coraggio e sparisco oltre la porta, per poi tornare a prendere il cellulare ed entrare di nuovo. Non è per niente come l’avevo vista. Le pareti immacolate hanno lasciato spazio a mura che non hanno niente da diverso da quelle di tutto il resto dell’edificio, anzi sono se possibile ancora peggio. Ci sono scritte ovunque, parole che sembrano essere senza senso. Luca ha la brillante idea di mettere in pausa per leggere e realizziamo: ovunque sempre e solo la stessa scritta, a volte in nero, a volte in un rosso inquietante. Change sides. Ovvio.
Non ci sono molti dubbi a riguardo ma cerco ugualmente la cartella clinica del nostro amato paziente per scoprire quale sia la sua camera. Un rapido controllo sulla cartina che abbiamo disegnato mentre eravamo lì e ne ho la conferma assoluta: quella è la sua stanza.

«No.» non trovo la forza di dire altro, anzi, non so nemmeno se sono riuscita a dirlo o se l’ho solo pensato finché non vedo gli altri che mi guardano. «Non era affatto così. Vi giuro che era perfetta e dovreste credermi visto che la finestra era sbarrata davvero. Le mura erano bianche. Bianche.». Stavolta mi credono, non potrebbero fare altrimenti. E anche se dubitano non è il momento migliore per dirmelo.

Come sempre, visto che sono dell’idea che tolto il dente tolto il dolore, chiedo di continuare. Prima finisce meglio sto. Purtroppo per la mia sanità mentale però le sorprese della stanza del paziente 507 non sono finite. La me dell’altro ieri inquadra il pavimento, ai suoi occhi così perfettamente pulito e quasi muoio quando al centro vedo un cadavere. Il che se non altro spiega l’odore infernale. Non contenta, dall’alto della sua ingenuità, la me dell’altro ieri ci si avvicina, così possiamo notare i dettagli. La pelle pallida, gli occhi vuoti che fissano proprio la videocamera, non si sa per quale scherzo del destino, una mano stretta attorno al nulla, quasi nel disperato tentativo di aggrapparsi alla vita. Devo sedermi per non svenire.

«Non avevo idea. Non avevo minimamente idea.».

Ora mi credono al mille per cento. Non avrei mai potuto uscire da quella stanza come se niente fosse se davvero avessi visto quella scena fin da subito. C’è qualcosa che non va, qualcosa di profondamente sbagliato in quel posto.

«Dovremmo cercare di capire da quanto il cadavere era lì.» suggerisce Riccardo.

«Non capiremo mai da quanto era lì, al massimo possiamo dedurre che era morto solo da pochi giorni visto che non era ancora decomposto.».

Comincio veramente a sentirmi male ma non ho la forza di chiedere loro di smettere. Vorrei solo non essere mai entrata lì dentro. Di fatto, però, ci sono entrata e queste non sono altro che le conseguenze, non posso scamparci.

«Che facciamo, lo denunciamo alla polizia?» chiede Erika, pratica come al solito.

«Non so se è una buona idea, potrebbero chiederci cosa ci facevamo lì. Magari nemmeno il cadavere era reale, come la finestra sbarrata.».

Wow, magnifico davvero riuscire a pensare che c’è un cadavere solo nelle nostre teste. Guardo lo schermo un’ultima volta, anche se contro la mia volontà. Devo memorizzare qualche dettaglio che potrebbe essere importante, che mi piaccia o no. Capelli corti. Jeans scuri. Camicia. Cartellino. Eccolo, esatto. Il cartellino. Lo faccio notare agli altri, che non sanno comunque cosa farsene di un’informazione secondaria come questa.

Mi alzo ed esco dalla stanza mentre gli altri ancora discutono; ho bisogno di staccare, di non pensare a quanto ho appena visto, ma è impossibile farlo con quelle immagini ancora davanti agli occhi. E c’è una domanda che mi ossessiona, una domanda alla quale sento di dover trovare una risposta: perché?

 
 
Ci prendiamo una lunga pausa durante la quale ci sforziamo di mangiare qualcosa, prima di dedicarci alla videocassetta che abbiamo trovato nella stanza degli archivi. È abbastanza chiaro vedendo le facce sconvolte degli altri, che nemmeno loro riescono a togliersi quei due occhi vuoti dalla testa. Probabilmente il cadavere senza nome resterà negli incubi di noi tutti per un po’ di tempo. Mi dispiace solo di essere stata in qualche modo la causa di tutto questo, vorrei non essere mai entrata lì dentro, tantomeno con un cellulare in mano pronta a filmare tutto. Ho quasi calpestato un cadavere senza nemmeno saperlo.

Come la prima, la cassetta inizia con il nero totale. Stavolta la data è 27 luglio, nel solito angolo. Nell’altro, come già immaginavamo, CR68-507.3. Non posso non chiedermi quante altre volte il paziente sia stato filmato o dove sia finita la videocassetta numero due.

Stavolta il paziente sembra più rilassato e consapevole, come se nelle due settimane trascorse tra il primo video e questo fosse riuscito a fare davvero qualche progresso. Stavolta è il medico a parlare per primo ma è una voce diversa da quella che abbiamo sentito la prima volta.

«Allora, siamo qui per registrare la terza cassetta, non è così? Ed è stato lei a chiederci di farlo, vero?»

«Sì, sono stato io.» risponde prontamente il paziente.

«Se la sente di dirci il perché?»

«C’è qualcosa che mi guarda.»

«Che cosa, di preciso?»

«Non lo so, so solo che c’è. E mi ha detto di cambiare lato, change sides.»

«Da quanto tempo si sente osservato da questo qualcosa?»

Il paziente 507 prende un lungo respiro.

«Credo sia iniziato tutto qualche anno fa quando mi sono trasferito nella casa nuova che ho comprato. Una villa poco fuori dalla città. Ci vivevo con la mia famiglia, ovvero mia moglie e mio figlio.
Ma c’era qualcosa. In soffitta. Ho cominciato a passarci le notti. Quella casa, la mia casa, è maledetta.». Una villa poco fuori città, la soffitta. Se ha cominciato a passarci il suo tempo è possibile che quel letto fosse proprio suo?

«E poi?» lo incalza il medico.

«Sono diventato ossessionato dalla cosa. Era sempre lì con me a studiarmi e io studiavo lei. Ho cominciato a dormire in soffitta, mia moglie non voleva più saperne niente di tutta questa storia, mio figlio per fortuna era ancora piccolo per capire o almeno lo spero.»

«Ha mai visto questa cosa?»

«No. Ma mi aiutava. Quando ero in soffitta sembrava prendersi cura di me.»

C’è un momento di silenzio. Il medico sta dimostrando una calma glaciale davanti ad una storia che ha sentito per chissà quante volte mentre il paziente 507 probabilmente riflette su quanto sta raccontando. Riflette un po’ troppo e perde di nuovo il senno perché all’improvviso ricomincia a sussurrare “Change sides”, dimostrando di non aver ancora recuperato la ragione. Nonostante questo, il medico insiste.

«Mi racconti altro.»

«Ho ripreso tutto, volevo avere le prove che non era solo una mia invenzione. E avevo le prove ma la cosa continuava a dirmi di cambiare lato. Non potevo farlo, non c’erano altri lati. Non c’erano lati. Non potevo cambiare lato. Sono morto?»

«Certo che non è morto.»

«Sono in un manicomio come ho chiesto a mia moglie?»

«Sì, è in un manicomio come ha chiesto a sua moglie. Lei sostiene di avere le prove registrate dell’esistenza di questa cosa, dove sono?»

«Non ci sono.». Stavolta il medico resta chiaramente interdetto e il paziente 507 nonostante il suo stato di totale confusione mentale riesce ad intuirlo perché aggiunge «Mia moglie ha registrato video di famiglia sopra a quelle cassette per cancellare tutto. Ha cambiato lato. Lei c’è riuscita. Io no. Non ho cambiato lato. Sono morto.».
 

Il video si ferma così, lasciandoci perplessi.

«Parlava di casa tua? Di quella soffitta?» mi chiede all’improvviso Luca.

«Sì, credo che il letto che ho trovato fosse suo, come tutte le altre cose. E ora si spiegano le infinità di video di famiglia che ci sono lassù. Poverino, deve aver lavorato ore, è impazzito per poter riprendere quella cosa e poi sua moglie ha cancellato tutto.». No, forse non tutto. Forse alla fine dei filmati sono rimasti alcuni secondi di quello che era stato prima.

Improvvisamente provo un’immensa pena per lui, finito rinchiuso in un manicomio per sua volontà, convinto di essere morto per aver fallito la sua missione, la strana missione di cambiare lato che tanto l’ha ossessionato per chissà quanti anni. Probabilmente non è mai uscito da lì e non ha mai avuto la gioia di vedere suo figlio crescere o dire la prima parola. Tutto per delle stupide videocassette. Spero che almeno sua moglie abbia avuto la decenza di guardarle prima di cancellare per sempre il loro contenuto, anche se, dal momento che era donna, ne dubito ampiamente. Quei filmati rappresentavano la follia di un marito che probabilmente era arrivata a detestare a causa della sua presunta pazzia e si sa, le donne cancellano tutto ciò che odiano. Il più in fretta possibile.

«Credo che sia arrivato il momento di andare ai piani bassi a chiedere udienza al padre di mio cugino per vedere se si ricorda qualcosa.» propongo. Lui è l’unico che può darci un minimo indizio. Non che io voglia andare avanti con questa storia.

«Pensavo fossi sconvolta da quello che abbiamo trovato e che volessi chiuderla qui.» mi fa notare Riccardo. È così, in effetti. Non ne voglio più sapere niente di tutto questo ma allo stesso tempo ora che conosco la sua storia sento di dovere qualcosa a quel pover’uomo. Per esempio cercare di scoprire che cosa l’ha portato ad essere rinchiuso in una stanza dove poi io ho quasi calpestato un cadavere. Ok, lo ammetto, non è una bella idea, non mi entusiasma, ma ormai ci sono dentro, che altro posso fare?

«Sono sconvolta ma voglio sapere cosa diavolo è la cosa che c’è nella soffitta di casa mia se permetti.». In realtà non lo voglio assolutamente, preferisco continuare ad illudermi che sia tutto normale, perché a tutti gli esseri umani in fin dei conti piace credere che vada tutto bene.

«Sei davvero convinta che quella cosa non fosse solo nella sua testa? Come fai a sapere che non era veramente così pazzo da percepirla solo lui?» mi chiede Erika.
Effettivamente è una bella domanda. La risposta arriva da sé non appena ripenso alla mattina che ho passato in soffitta da sola a cercare altre videocassette paranormali. Mi tornano in mente tutte le sensazioni strane e quel maledetto rumore che ho sentito una volta uscita.

«Perché ha osservato anche me.».
   
 
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