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Autore: yonoi    16/10/2017    3 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4. Sulla soglia della paura e dell’incanto

Il mattino seguente, iniziò per Hansi Wallemberg l’avventura di un mondo nuovo. La donna di città l’aveva lasciato riposare fino a tardi per smaltire la fatica, l’angoscia che lo aveva sbalordito in quel viaggio verso una destinazione più volte spiegata dalla pazienza di padre Grünewald, ma in realtà mai compresa. Hansi in realtà si era svegliato molto presto, con l’impressione di essersi smarrito strada facendo: non ricordava più dove doveva svegliarsi, se a casa sua al paese, oppure tra i sobbalzi del sedile di terza classe. Ci mise un po’ a riprendere il tragitto della memoria, finché ritrovò le cortine del letto a baldacchino, i cordoni pesanti come gli addobbi quaresimali del padre Grünewald, l’orologio con le figurine in parrucca. Dalle finestre, che la Iolanda aveva già provveduto a spalancare per dare aria alle camere prima che salisse il caldo, si udiva il canto solitario delle cicale.
         Ad Hansi piaceva quell’atmosfera raccolta, così simile a un grembo: gli ricordava la quiete delle sue valli, quando cadeva il vento e non restava altro che quella potente assenza di rumori e di suoni. Disteso sull’erba ai piedi della montagna, su quei pendii che col trascorrere delle ore allungavano ombre e mutavano i colori, ascoltava la segreta armonia nascosta dietro al silenzio, il fruscio degli ingranaggi che mandavano il mondo avanti. Anche adesso, dalla sua nicchia protetta, gli pareva di udire un cigolio metallico, che forse non era il ritmo solenne del mondo, ma soltanto un rumore di cinghie ingarbugliate, di molle che saltavano in fondo al corridoio, in una stanza che lui ancora non conosceva.
         A un certo punto gli accordi, le molle e chissà quali meccanismi contorti saltarono del tutto, e da quella stanza remota si levò il frastuono di un orologio a cucù, che strepitava tutte le ore del mondo senza riuscire a fermarsi. Colto alla sprovvista, Hansi si acquattò nel letto a baldacchino, ma ad avere la meglio fu la curiosità: quel frastuono da giostra in fondo era bizzarro, magari divertente, forse valeva la pena di andare a vedere.
         Si avventurò, Hansi Wallemberg, lasciando la stanza e il canto lento delle cicale, il dondolio degli alberi del giardino appesi al vento. In mezzo al corridoio, lo avvolse di nuovo il silenzio. Il cucù col suo pigolio squinternato s’era zittito a un tratto. Dopo un breve intervallo, come sorto dal nulla incominciò a diffondersi, appena percettibile, un tintinnio di campane, note simili a gocce che cadevano una di seguito all’altra: una cascata di suoni, che guidò i passi di Hansi fino in fondo alla casa, in una stanza circondata da grandi armadi scuri, e mensole che risalivano le pareti fino quasi al soffitto.
         Dalle ante socchiuse, in fila colorata e un po’ caotica sulle mensole, s’intravedeva una fantasmagoria di oggetti, soprattutto giocattoli, e di nuovo orologi di tutte le possibili e immaginabili forme, rintocchi e dimensioni. E ancora, per la stanza, cavallucci a dondolo, marionette di legno, bambole nella culla, a gruppi sulle sedie in abiti d’altri tempi. Ce n’era persino una a grandezza naturale, un adulto posticcio che spaventò molto Hansi perché aveva le braccia snodate col fil di ferro, e al posto delle gambe una gabbia da uccelli, dritta su un piedistallo: come ebbe modo di spiegargli la Iolanda, non appena si rese conto dei suoi timori, si trattava di un semplice manichino da sarta, dove la lunga massa di capelli color paglia serviva a preparare acconciature e cappelli; e la gabbia da uccelli serviva a modellare la ricca impalcatura di gonne a crinolina del secolo passato.        
         La macchina da cucire, un modello a pedali in smalto nero con un motivo di rose rosse, stava tra il manichino e un piccolo tavolo arruffato di stoffe, velette per cappelli, fiori di panno lenci.
         Al centro della stanza un tavolo più grande, più massiccio e più scuro. Là, una lunga treccia posata su una spalla e una schiena sottile erano intente a girare la manovella di una scatola sonora, anch’essa in legno finemente intarsiato: un carillon da cui usciva, come un ricamo a macchina, la fragile delicatezza di quella melodia. Sulla sommità del carillon, una ballerina col tutù e la coroncina girava con un ritmo altrettanto meccanico. Poco più in là, tra pezzi d’ingranaggi e una ciotola di colla il cui odore di mandorla riempiva tutta la stanza, c’era uno spazio libero sul grande tavolo scuro, con una sedia che evidentemente attendeva qualcuno: sopra a una tovaglietta spiegata con cura, un vassoio da colazione col caffelatte, su un piattino una fetta di quella crostata che, ancora il giorno prima, si stava preparando quando Hansi era arrivato.  
         Proprio Hansi era l’atteso di quel momento.
         Come se avesse occhi sensibili sulle spalle, tra le scapole che si muovevano appena seguendo il movimento della piccola manovella, la Iolanda intercettò la sua presenza non appena il bambino si affacciò sulla soglia: anche se il ragazzino si muoveva in punta di piedi, all’inizio per non guastare la musica, poi per le emozioni suscitate da quel luogo dello stupore.
         Incerto tra la curiosità e il turbamento, Hansi restava immobile, e non osava entrare.
         Dal grande tavolo scuro, dove stava rimettendo con pazienza in funzione un antico carillon, la Iolanda si volse appena verso di lui: chinò il capo, invitandolo ad avvicinarsi con un cenno della mano. Forse perché assorbita dalle minuzie del lavoro, s’era però dimenticata di sorridere, e l’effetto che ottenne fu di apparire stranamente minacciosa: dovette alzarsi ed accogliere il bambino sulla soglia, prenderlo per la mano con il sorriso più invitante, per convincerlo a varcare la soglia della paura e dell’incanto. 
         Tenendolo per mano, lo accompagnò per la stanza dedicata alla sua arte di riparare le cose: gli mostrò i cucù con gli uccellini di tutti i colori, le pendole con le figurine danzanti, che uscivano al rintocco delle ore ballando il valzer; le bambole vestite da dame d’altri tempi e persino certi arnesi che, a vederli di sfuggita, lo avevano spaventato, ma in realtà erano solo attrezzi per il restauro.
         Ad Hansi tornò in mente quella grande bottega che aveva visitato l’unica volta in cui era stato in città, al tempo in cui suo padre non era ancora svanito nelle nebbie del fronte, e della guerra, al paese, non si sapeva niente. Con un gruppo di montanari che conosceva la strada, erano partiti prima che fosse giorno: su un carretto i fagotti delle erbe e i formaggi da vendere al mercato, l’alba solo un barlume livido sull’orizzonte.
         Avevano percorso i sentieri in parte a piedi, in parte spingendo il carro nei passi più scoscesi: le donne con lo scialle ricamato dei giorni di festa, gli uomini col cappotto buono della domenica, che però contava poco contro il vento e la pioggia.
         Una tenebra pungente li aveva accompagnati per tutta la giornata, perché la città era tetra, snodata intorno a un fiume come un serpente di nebbia: e gli era sembrata ben più severa e ostile di questa città di portici rossi e gialli dove si trovava adesso, che pure era straniera e di cui conosceva a malapena il nome. A ripensarci, s’era sentito molto più forestiero percorrendo quei viali di pioggia interminabile, le mura dei palazzi e le infinite cancellate, coi draghi sugli stemmi e maschere mostruose che sputavano l’acqua piovana dalle grondaie.
         Di quel giorno ricordava il gemito del vento impigliato negli angoli, l’assenza di pietà nei volti delle persone che sfilavano a capo chino come ombre, i lampioni di ferro battuto e pendente, il giorno che non riusciva a levarsi da terra. E poi, improvvisamene, da una via laterale, la luce calda di una bottega artigiana, aperta sulla strada. Uno splendore talmente inatteso e travolgente da dissipare persino l’angustia della pioggia: Hansi s’era fermato, senza neppure accorgersi che il gruppo dei paesani, con i suoi genitori, proseguiva la strada col carretto e le spalle ricurve sotto l’acqua. Attratto dal conforto di quella luce, era entrato in un laboratorio grande come la stanza da lavoro della Iolanda: in quel luogo raggiante, scaldato da una stufa come quelle della montagna, si fabbricavano bambole. S’imbottivano i corpicini con l’ovatta, si dipingevano col pennello i piccoli volti, si montavano occhi spalancati ed azzurri, in modo che potessero aprirsi e poi chiudersi.
         Hansi era rimasto impressionato dalla perizia dei lavoranti che aveva visto all’opera attorno a un grande tavolo: semplicemente assemblando dei pezzi anatomici - gambe e braccia ammucchiati dentro a grosse ceste, lunghe ciocche di riccioli, occhietti come biglie - riuscivano a dar vita ad un essere umano in miniatura. Da sempre affascinato dalla bellezza in tutte le sue forme, Hansi si era lasciato trasportare dall’incanto finché frau Lise, sua madre, non era tornata in fretta a recuperarlo. Per cavarlo da lì, aveva dovuto strattonarlo fino in strada, e ad Hansi era sembrato di cadere di nuovo, a capofitto, nel buio.
         Nel frattempo, la Iolanda continuava a mostrargli una meraviglia dopo l’altra, guidando la sua attenzione con lunghe occhiate e cenni gentili del capo, le dita della mano che illustravano le magie del carillon, muovendosi come una danza.
         Erano prodigiosi anche gli odori di quella stanza: il tepore della crostata con la sua fragranza di frutta, l’aroma vertiginoso della colla di mandorle. Il ritmo del carillon era colmo di una nostalgia inafferrabile.  
         A un certo punto la Iolanda, con un gesto più ampio, invitò Hansi a servirsi dal vassoio già pronto per la prima colazione. Dopo aver rinunciato alle insidie del dizionario tedesco - italiano, aveva compreso che la migliore strategia per comunicare con il bambino passava attraverso il silenzio, l’intensità degli sguardi, la semplicità del gesto. Soprattutto, confidava nel potere di suggestione della stranezza, e nel fascino degli oggetti del suo laboratorio, per distrarre Hansi Wallemberg dalla malinconia: dimenticando la sua tristezza per un istante, magari si sarebbe ricordato d’aver fame, addentando un boccone, tra una stramberia e l’altra, senza neanche accorgersene.
         Non era, in realtà, così facile. Hansi s’era lasciato avvicinare al tavolo, aveva sfiorato il carillon con un dito soltanto, poi s’era azzardato a dare un giro di manovella, a toccare la piccola ballerina in tutù che vorticava incessante su quelle note meccaniche. Ma quanto al mangiare, continuava a fissare il bricco del caffelatte con aria preoccupata, e la fetta nel piatto come se quell’innocua crostata casalinga potesse saltargli addosso da un momento all’altro. Un’altra serie di occhiate, ben più apprensive, le riservava al manichino a grandezza naturale, con quella gabbia angosciante al posto delle gambe. All’immaginazione fin troppo incendiaria di Hansi Wallemberg, quella gabbia evocava l’idea di un supplizio: “È veramente orribile”, ripeteva a se stesso, “e di sicuro stanotte, col buio, verrà a prendermi”.
         Fu in quel momento che la Iolanda ebbe un’intuizione improvvisa. Da una delle mensole che si arrampicavano nell’ombra della parete, levò un’altra scatola, stavolta scura e piatta, dalla quale spuntava come un fiore inconsueto una tromba di ottone simile a quelle viste da Hansi nelle fiere: quando al paese si radunava la banda con la grancassa simile a una pancia smisurata, i clarini lucenti, i tromboni dalla bocca simile a una voragine, roba da aver paura di andarci a finire dentro. Osservò la Iolanda appoggiare sul piatto della scatola un disco, un oggetto schiacciato e abbastanza simile alle cacche di mucca - Hansi, al solo pensiero, rise tra sé - e come il disco iniziò a girare, dal trombone di ottone uscì fuori, sottile poi sempre con maggiore pienezza, una voce che aveva tutte le vibrazioni del rapimento: a bocca aperta proprio come i paesani alla fiera, Hansi trattenne il fiato mentre una voce femminile e dolcissima, e una melodia che non era di questo mondo, intonavano Un bel dì vedremo, dalla Madama Butterfly. Ascoltando quel canto, si aveva l’impressione di sentirsi levare in alto.
         Hansi non comprendeva nessuna delle parole, ma non aveva dubbi: quella voce incorporea e priva di peso umano era carica, al tempo stesso, di tutta la possibile sofferenza dell’anima. E per quanto Hansi Wallemberg di certe cose, all’epoca, sapesse poco e niente, lo comprese all’istante: era un canto d’amore, non poteva essere altro.
         Durante l’ascolto, nella stanza da lavoro della Iolanda era sceso un religioso silenzio: gli orologi a cucù, che ogni tanto impazzivano per gli ingranaggi guasti e iniziavano a strepitare senza fermarsi, i carillon con le loro canzoncine meccaniche, persino le cicale che facevano capolino dalla brezza di una piccola finestra, si erano zittiti. E restarono a lungo nello stesso silenzio di Hansi e della Iolanda, con le mani nel grembo.
         Al termine, Hansi Wallemberg aveva le lacrime agli occhi per l’emozione: per farsi consolare, cadde diritto in trappola accettando il fazzoletto che la Iolanda gli passava sulla faccia per pulirgli naso e lacrime, e la fetta di crostata che la donna di città, come se niente fosse, gli allungò dal vassoio. La Iolanda, che in mezzo ai suoi giocattoli pareva anche lei una grande bambola, gliela offrì con un gesto talmente delizioso, che il bambino restò incantato, e prima ancora di realizzare cosa stava accadendo, già stava sgranocchiando. E dopo, già che c’era, trangugiò il caffelatte con la fame di secoli che aveva in arretrato.
******

Quella mattina, Hansi fece conoscenza col grammofono della Iolanda, e con l’arte di lei nel riparare le cose: arte che si estendeva a tutto il possibile, dagli abiti ai giocattoli, e fino alla pazienza richiesta dai meccanismi infinitesimali degli orologi, dei cavallucci a dondolo, dei grandi occhi spalancati delle bambole. E comprendeva anche l’arte di cucinare, perché quella serviva a riassettare le anime.    
         In quel laboratorio popolato da oggetti sorprendenti, Hansi approdò a una nuova concezione del tempo. In montagna le ore trascorrevano lente, vagando per i prati finché al tramonto la luce si levava da terra, e restava a bruciare sulle vette più alte, con brandelli di rosa, scarlatto, viola intenso. Allora si alzava il vento, e lo scampanellio delle mucche disperse lungo i pendii dei pascoli si faceva più limpido, più netto il suono e depurato da ogni altro rumore. Il bosco rilasciava i suoi aromi pungenti, e le vette bruciavano come dita di fiamme: giù al paese, restava qualche cencio violetto appeso alle finestre, fili di rosa pallido impigliati alla cipolla rossa del campanile. Nelle viuzze strette tra l’odore del fieno e il tintinnio delle posate sulla tavola, era già notte fonda. 
         Il tempo della città, invece, era diverso. In casa dei Drusiani, a scandirne il ritmo erano gli orologi sincronizzati come una danza, in una piroetta sonora dietro l’altra. Solamente la sera quella festa di suoni si faceva più ovattata: i tetti si accendevano di rosso come un incendio, mentre in casa nascevano, negli angoli, le ombre. Dal soffitto, scendevano creando strani effetti: le bambole sulle mensole allungavano i capelli fino a terra, i pizzi delle gonne come tele di ragno. Il manichino da sarta ammiccava nella penombra con la sua faccia pallida, i chiodi nel corsetto e la sottana di legno, minacciando incubi notturni. Per fortuna, a quell’ora, la stanza da lavoro chiudeva i battenti, e il centro della casa si spostava in cucina.
         La cucina della Iolanda era anch’essa un luogo di sortilegi, che iniziava ad animarsi nel tardo pomeriggio, quando si avvicinava l’ora prevista per il rientro di Arrigo. Durante il giorno i pasti erano semplici spuntini, sbocconcellati in fretta dalla padrona di casa per non perdere la concentrazione necessaria: seduta al grande tavolo nel centro della stanza, le ciglia basse e le dita minuziose, proseguiva il lavoro senza badare al tempo, né alla luce che scivolava lungo i muri, facendosi incandescente nel mezzogiorno, poi rovente nell’afa del primo pomeriggio. Finché la luce iniziava pian piano a ritirarsi. E quando la bizzarra corte degli orologi si metteva in moto e scandiva i rintocchi delle sei, la Iolanda si ridestava come da un sogno, e interrompeva qualsiasi attività: abbandonava viti, colle e meccanismi, tessuti e imbottiture, come sospinta da un richiamo irresistibile.
         Le luci si spegnevano nella stanza da lavoro, e si accendevano svelte e affaccendate in cucina: per Hansi era un sollievo, perché il buio che calava dai grandi armadi scuri lo inquietava non poco. Si sentiva alle spalle l’ombra del manichino con quello sguardo vacuo impalato su un piedistallo, e quell’impalcatura per gonfiare le gonne che più la si guardava, meno c’erano dubbi: era assolutamente uno strumento di tortura, e non sapere in che cosa consistesse il tormento, non faceva che accrescere il timore. Alla luce del giorno, protetto dall’energia della donna di città, dal suo lavoro concentrato e metodico, Hansi Wallemberg si sentiva al sicuro. Di sera, insieme con l’oscurità e il maggiore silenzio, la paura iniziava a salire su per la schiena come un alito freddo, finché arrivava al cervello e occupava tutto lo spazio: ed era la paura tipica dei bambini, quella che non si può raccontare a nessuno.
         L’unico modo che Hansi aveva per controllarla era far finta che non ci fosse: relegarla in un luogo isolato della mente, e intanto rifugiarsi in qualche stanza bene illuminata, possibilmente in compagnia di qualche adulto che fosse più forte dei brutti sogni. Per questo si aggrappava alla gonna della Iolanda mentre attraversavano il buio del corridoio, e riprendeva a respirare in profondità una volta arrivato, incolume, in cucina. La Iolanda sentiva sul fianco la stretta delle piccole nocche, e allora gli posava sul capo una carezza, gli scompigliava appena quella peluria bianca che erano i suoi capelli, rasati alla meno peggio e talmente splendenti che alla luce del sole facevano male agli occhi. Hansi si abbandonava, sentendo dal calore di quella mano scendere una tranquillità profonda, che durava fin quando il manichino da sarta non gli tornava in mente: ogni volta più grande, orribile e ghignante.
         Dentro di sé, Hansi Wallemberg sapeva di essere solo coi suoi terrori: provava a non pensarci - e anche quello sforzo, in realtà, era una forma di angoscia - mentre iniziavano i preparativi per la cena, e la cucina si riempiva della luce calda e rassicurante del lampadario, del tepore odoroso di umidità e di terra che veniva dal giardino, del cibo sul tagliere di legno chiaro, tagliato in forme sottili, impastato e condito dalle mani veloci, abili della Iolanda.
         Hansi osservava i gesti, rapito dai movimenti di quel polso sottile, e delle lunghe dita della padrona di casa: aveva dita lunghissime, la donna di città, capaci di infilarsi nei tragitti degli ingranaggi, e intercettare il guasto. Era come se quelle dita possedessero occhi nascosti sui polpastrelli: era così anche quando trafficava in cucina, e Hansi la guardava saggiare la consistenza della farina che scendeva ripida dal setaccio, modellare l’ombelico tondo dei tortellini, tagliare parallele e precise le tagliatelle.
         Quando tutto era pronto - la tavola apparecchiata col cestino del pane, le verdure condite sul piatto di portata, la minestra che terminava la cottura e riempiva la casa di odori a fuoco lento, s’inaugurava un altro momento memorabile nella giornata di Hansi Wallemberg: sempre tenendo stretta la mano alla Iolanda, percorreva a ritroso il corridoio nell’ultima luce del crepuscolo, fino alla stanza col baldacchino.
         La Iolanda sedeva al tavolo da toilette, davanti ad uno specchio così ampio e profondo che agli occhi di Hansi non sembrava nemmeno più una semplice lastra con un riflesso, ma l’ingresso a una nuova dimensione del mondo. Il bambino sedeva accanto alla donna di città, e dinanzi ai suoi occhi incominciava a svolgersi un complesso cerimoniale.
         Per prima cosa, la Iolanda sciacquava il viso e le mani, quelle sue lunghe dita nel grande catino bianco. Era come se volesse rimuovere ogni traccia del giorno, e rinnovare un’integrità misteriosa, non toccata da alcuna fatica o preoccupazione. Poi picchiettava l’acqua di rose sulle guance, con un buffo piumino color di carne e polvere cospargeva di cipria il viso, il collo e tutto quel che c’era intorno: si percepiva il palpito di una segreta emozione, in quelle nuvole brevi che spiccavano il volo attorno ai lineamenti del suo viso assorto. Sul tavolo da toilette si posava una sabbia fine, che ad Hansi ricordava la brina delle prime gelate nelle sue valli. Dopo la cipria, un poco di rosso sulle guance. Talvolta, la Iolanda anneriva il fondo di un piattino con un fiammifero, e con quel nero fumo si faceva gli occhi più grandi.
         Come la prima sera, Hansi osservava la treccia della donna di città sciogliersi sotto ai colpi decisi della spazzola, gonfiarsi in una massa di capelli ondulati che pareva quasi viva, simile al dorso di un animale selvatico. La Iolanda li spazzolava così a lungo, con gesti lenti e precisi, che quella chioma si gonfiava come la schiena di un gatto che fa le fusa, riempiendosi di bagliori lucenti. Con l’abilità delle sue dita rapide, la donna di città di nuovo la intrecciava, la raccoglieva in un nodo morbido sulla nuca, lasciava qualche ciocca perdersi lungo il collo. 
         Hansi era affascinato da quel rituale preparatorio: il risultato lo lasciava senza fiato, perché, complici la penombra e la magia dello specchio, la Iolanda appariva come una creatura di un altro mondo, di una bellezza impossibile.
         Più o meno in quel momento, scattava la serratura della porta di casa. Una traccia di rosso, che non era di trucco, passava allora rapida sul volto della Iolanda, illuminandola tutta: dalla punta dei capelli, fino alle lunghe dita con gli occhi sui polpastrelli. Lei allora si levava, avvolta in quella luce che la seguiva come uno strascico vorticoso da sposa. Prendeva la rincorsa rapida in corridoio, e andava a ricevere Arrigo che rincasava puntualmente a quell’ora.   
  
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