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Autore: nikita82roma    16/10/2017    5 recensioni
Non credevo che avrei mai scritto una storia Stanathan ma questa è uscita così, di getto, ispirata da alcune foto su instagram e dai miei ricordi di alcuni viaggi a Bali di tanti anni fa.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nathan Fillion, Stana Katic
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La musica del gamelan sospesa dell’aria, si perdeva tra le fronde degli alberi mossi dal vento, che la accompagnavano, la sospingevano e lasciavano che arrivasse come un suono mistico trasportato chissà da dove.
La vita scorreva lenta sotto la terrazza, il verde delle risaie era così intenso da essere quasi accecante, c’era una piccola statua di pietra ai margini del campo, vicino al tronco di un albero, raffigurante una qualche divinità locale della quale ignorava il nome ed il significato, ma ai suoi piedi c’erano tante offerte portate dai locali, piccoli cestini di bambù intrecciato con dentro chicchi di riso, fiori e frutta, per compiacere gli dei.
Il profumo dell’incenso che saliva dal basso si confondeva con quello della ciotola con gli oli essenziali e i frangipani appoggiata sul tavolo di tek intagliato in stile locale.
Silenzio. Il cigolio di una bicicletta in lontananza annunciava il prossimo passaggio lì sotto di un contadino che pedalava con le sue infradito. Da quella terrazza si dominava tutto protetti dall’altezza, dagli alberi e dalle tende svolazzanti che dondolavano giù dagli alti soffitti in legno e separavano l’interno e l’esterno in modo naturale, senza barriere.
Respirò profondamente cercando l’aria fresca: aveva piovuto quella notte, aveva appena percepito il picchiettare incessante dell’acqua sul legno della terrazza e del tetto ed ora le foglie più riparate dal sole ne avevano ancora i segni mostrando tante piccole perle bagnate, così come lo era ancora la balaustra di legno scuro. Si divertì a scriverci qualcosa sopra con il dito velocemente e poi subito lo cancellò con il palmo della mano. Sorrise. Una sorriso diverso, in pace con il proprio io, scoprendo di nuovo l’uso di muscoli facciali che pensava fossero spariti. Forse era quel posto, la musica, la natura, i profumi. Forse quell’isola era veramente magica. Cominciava a pensarlo sul serio.
Sentì una goccia d’acqua correre dietro l’orecchio, provò a girarsi ma subito dopo fu seguita da due dita che la rincorrevano facendole solletico. Rise. Una risata imbarazzata e dolce che diventò muta quando sentì le labbra di lui sul collo. Alzò una mano e si accorse che aveva preso uno dei fiori della ciotola e glielo aveva appuntato tra i capelli.


Era successo tutto in meno di ventiquattro ore. Aveva visto una foto, lo aveva chiamato non sapeva perché, convinta che non rispondesse ma lui, invece, senza sapere perché aveva risposto. Non lo faceva da oltre un anno e si era ripromesso che non lo avrebbe fatto più. Suo fratello aveva capito con chi lo aveva chiamato, da come gli tremava la voce e brillavano gli occhi. Ma la bocca che inizialmente era contratta si era aperta in un sorriso inconsapevole. Aveva preso uno dei foglietti dell’hotel scritto velocemente qualcosa sopra e lo aveva strappato. Aveva detto solo una parola, ok, poi aveva attaccato. “Non mi dire nulla, non voglio sapere niente” gli aveva detto suo fratello quando provò a giustificarsi. Mise qualcosa alla rinfusa in uno zaino e si fece chiamare un taxi. Era poco più di un’ora che gli sembrò una vita o forse un attimo.
Non si aspettava che gli rispondesse. Non aveva saputo cosa dirgli. Così gli disse solo che era lì, che avrebbe voluto vederlo o solo che avrebbe voluto lui, non si ricordava nemmeno. Non aveva parlato mai, aveva dubbi anche che la avesse ascoltata, temette per un momento che potesse prendersi gioco di lei facendo sentire agli altri quello che gli stava dicendo. Alle sue orecchie, invece, arrivò solo un flebile “ok”. Tirò un sospiro di sollievo quando attaccò il telefono eppure adesso sì che aveva paura.
Sapeva che sua sorella aveva ragione quando le diceva che si sarebbe fatta del male, che era sbagliato, non aveva senso. Aveva ragione lei, ma non poteva spiegargli il perché di qualcosa che non capiva nemmeno lei. Non discussero perché non c’era niente da discutere, ma aveva dubbi su chi tra loro due fosse la maggiore che doveva essere dotata di buon senso. Sapeva di non averne. La lasciò lì dicendole di chiamarla per farle sapere cosa avrebbero dovuto fare, dubitava che lo avrebbe fatto, ma non aveva idea di cosa sarebbe successo, di come l’avrebbe ritrovata, dopo. Perché dopo era sempre devastante e lasciava i segni di un uragano.

Lo vide sulla porta. Con un sorriso tirato, una camicia a quadri stropicciata fuori dai pantaloncini ed uno zaino che sulla sua spalla sembrava decisamente piccolo. Non si salutarono, non si parlarono, gli fece spazio e lui entrò, chiudendosi alle spalle la porta ed il mondo.
Ogni parola era stupida e banale. Cosa potevano dirsi?
“Stai bene” le disse. Voleva essere un’affermazione, perché era veramente bella con quel vestito corto bianco di lino e i capelli sciolti, molto più corti di come la ricordava, ma lei la prese per una domanda.
“Non lo so” era dannatamente sincera.
“Nemmeno io lo so. Non dovevi essere alle Hawaii?”
“Come lo sai?”
“Certe voci arrivano...”
“Prima, sì. Nessuno però sapeva che sarei venuta qui. Non saresti venuto lo avessi saputo?”
“Forse no”
“Almeno sei sincero. Allora perché sei qui, ora?”
“Tu perché mi hai chiamato?”
“Pensavo che non avresti risposto. Come le altre volte”
“Però hai continuato a chiamare, sempre con lo stesso numero, potevi usarne uno che non avevo”
“Volevo che rispondessi a me, non ad un numero”
“L’ho fatto”

“È bello qui. Rilassante.” le disse staccando le labbra dal collo, lei annuì, era quello che aveva pensato quando lo aveva scelto per rigenerarsi e staccarsi da tutto per un po’. Ora però aveva tutto un altro senso.
“Te ne stai andando?” Gli chiese senza guardarlo.
“Vuoi che vada?”
Lei si voltò a guardarlo, aveva indossato solo un paio di boxer, invece si aspettava di trovarlo già vestito di tutto punto pronto a tornare sulla costa, da suo fratello alle sue immersioni.
“No, se non vuoi”
“Non voglio”

 

Aveva riassaporato le sue labbra. Lo aveva colto di sorpresa così come quando lo aveva chiamato. Si sorprese della sua timidezza, del non rispondere subito a quel bacio, ebbe paura di aver sbagliato tutto, di aver frainteso, ma quando stava per separarsi sentì il braccio di lui cingerla e avvicinarla a sè. Si lasciò andare ed era tutto quello di cui aveva bisogno da tanto, troppo tempo. Distanza di spazio e tempo non avevano cambiato nulla, avevano fatto solo male, ad entrambi. Avevano provato ad odiarsi, convincendosi di poterlo fare e si erano riscoperti illusi da loro stessi.
A quel bacio ne seguirono altri ed altri ancora, fino a quando lei, accarezzandogli le spalle si accorse che aveva ancora su il suo zaino che fece scivolare lungo il braccio e poi buttò su una poltrona di legno intrecciato coperta da cuscini in canapa.
“Rimani per cena?” Gli chiese quasi con paura di un rifiuto. Ma che senso avrebbe avuto essere arrivato fin lì per cosa? Un bacio? Per sapere di essere stati male entrambi? Non c’era bisogno di vedersi per questo, lo sapevano ogni volta che vedevano una foto, si conoscevano troppo bene per nasconderselo, avrebbero potuto ingannare il mondo, non loro stessi.
“Certo. Conosci qualcosa?”
“Ti fidi?”
“Credo che non ho scelta, no?”
Sorrisero entrambi più leggeri. Andarono fuori, percorrendo al contrario il viale che portava alla villa, camminarono per stradine secondarie un po’ dissestate, lontano dai turisti che affollavano le vie principali.
“Potrebbero vederci” disse lui preoccupandosi più per lei che per se stesso.
“Potrebbero...”
“Non sei preoccupata?”
“Sì” ma continuò a camminare e lui che faticava a tenere il suo passo molto più agile.
Arrivarono in un ristorante dove erano gli unici occidentali. Ordinò lei per entrambi qualcosa che lui non sapeva nemmeno cosa fosse: riso con carne, verdure ed altre cose di cui preferiva rimanere all’oscuro.
La osservò mangiare senza mettere cibo in bocca. Non sapeva cosa stesse facendo lì, sapeva solo che non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Non era cambiato nulla, il tempo non aveva cambiato nulla se non aumentare la percezione dell’assenza, la mancanza di lei.
“Non mangi?” Gli chiese fermandosi a guardarlo anche lei.
“Sì sì certo”. Mise in bocca una grande quantità di riso che mandò giù quasi senza masticare rimanendo senza fiato una volta che si era accorto di quanto fosse piccante.
“Una volta ti piacevano le cose piccanti!” Lo schernì lei quando tossì bevendo una grande quantità d’acqua.
“Mi piacciono sempre. Solo che non me lo aspettavo.”
“Il cibo o il resto?”
“Tutto. Soprattutto il resto.”

Tornarono alla villa, camminando più velocemente di quanto avessero fatto per andare lì. Una volta che furono dentro ci fu tempo solo di togliersi velocemente vi vestiti e raggiungere il letto nella stanza opposta all’entrata. Ritrovarsi fu più naturale di quanto pensassero, le mani riconobbero i corpi, i profumi, la pelle.
Si toccavano con la frenesia di chi ha bisogno dell’altro più dell’ossigeno ed era così. Si respiravano mentre i loro corpi ritrovavano il giusto posto in quello dell’altro, mentre la passione bruciava talmente forte da consumarli ed essere quasi dolorosa, disperata, nei baci possessivi, nelle mani esigenti, nella voglia di loro che non si era mai sopita, nonostante si fossero imposti di odiarsi trascinati dall’emotività del non potersi avere.

Aveva temuto che si sarebbe allontanato, dopo. Dopo che aveva ottenuto quello che voleva lui, che voleva lei. Temeva di staccarsi da quell’abbraccio, che finisse tutto come era cominciato, troppo velocemente, bruciando come un fiammifero troppo in fretta da scottarsi le dita.
Invece lui si voltò dall’altra parte del letto e rimase fermo, in silenzio. Sapeva che non stava dormendo e si appoggiò alla sua spalla, mentre con le mani gli accarezzava il petto. Appoggiò le labbra sulla pelle accaldata e le lasciò lì. Lui non si mosse ancora e lei tornò a sdraiarsi guardando le pale del soffitto che ruotavano lentamente muovendo l’aria satura di loro. Le veniva da piangere. Per tutto quello che era stato in quelle ore e per quello che non era stato più e forse non sarebbe stato mai.
Nella penombra lui sentì il suo respiro rotto. Si spostò appoggiando la testa sul petto di lei, la baciò tra i seni mentre con una mano le accarezzava il volto. Sentì il suo respiro tornare calmo ed il battito del cuore rallentare mentre gli passava una mano tra i capelli.
Lui pensò che sarebbe potuto essere sempre così.

“Le mie camice ti stanno sempre bene.” Le disse avvicinandosi e alzandole il colletto mentre lei abbassò la testa lasciando che la punta del collo le sfiorasse il naso sentendo il suo profumo più intenso.
“Sempre le stesse camice a quadri”
“Non cambio facilmente idea su quello che mi piace” le alzò il viso sollevandole il mento. La voleva guardare negli occhi, ma lei sfuggiva rifugiandosi nel disegno del legno del pavimento.
“Nemmeno io”.
Si piegò cercando le labbra di lei alle quali rubò un bacio che fu subito ricambiato.
Lei gli accarezzò le spalle e poi poggiò le mani sul suo petto picchiettandolo con le dita in attesa di non sapeva nemmeno lei cosa.
“Sei venuta da sola?”
“Con mia sorella. È andata nella villa qui vicino”
“Mi odierà”
“Non puoi piacere a tutti”
“Mi basta piacere alle persone che piacciono a me”
“Tuo fratello?”
“Sa come divertirsi anche da solo”
“Fino a quando ti fermerai?”
“Un’altra settimana”
“Rimani qui. Rimani con me”.

Gli aveva scattato una foto l’ultima volta che avevano pranzato insieme. Lui si sforzava di sorridere, era venuta fuori un’espressione assurda con lo sfondo controluce. Si salutarono con un bacio che sembrava non finire mai, si rincorreva per continuare ancora qualche istante, solo qualche istante in più. Non ci furono promesse e nemmeno addii. Si lasciarono così come si erano ritrovati. All’improvviso.
Qualche minuto dopo le arrivò una notifica sul cellulare. Aveva pubblicato quella foto. “Non sono ancora andato via già e mi manca questo posto”. E lei sperava che il posto fosse proprio quello dove era lei in quel momento, dove avevano passato la maggior parte del tempo dell’ultima settimana, dove sul cuscino c’era ancora il suo profumo.

   
 
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