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Autore: Alexa_02    17/10/2017    2 recensioni
Julianne ha tutto ciò che potrebbe mai desiderare, quando guarda la sua vita non c’è una virgola che cambierebbe. È così sicura che ogni cosa andrà nel giusto ordine ed esattamente come se lo aspetta, che quando si sveglia e trova la lettera di addio di sua madre non riesce a capacitarsene.
Qualcosa tra i suoi genitori si è incrinato irrimediabilmente e April ha deciso di scompare dalla vita dei figli e del marito senza lasciare traccia o la benché minima spiegazione.
Abbandonata, sola e ferita Julianne si rifugia in sé stessa, perdendosi. Una spirale scura e pericolosa la inghiotte e niente è più lo stesso. Julianne non è più la stessa.
Quando sua madre si rifà viva, è per stravolgere di nuovo la sua vita e trascinare lei e suo fratello nell'Utah, ad Orem, dalla sua nuova famiglia.Abbandonata la sua casa, suo padre e la sua migliore amica, Julianne è costretta a condividere il tetto con cinque estranei, tra cui l'irriverente e affascinante Aaron. Tra i due, da subito, detona qualcosa di intenso e di forte, che non gli da scampo.
Può l’amore soverchiare ogni cosa?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Julianne

L'ufficio della dottoressa Dawson è esattamente identico a tutti quelli in cui sono già stata.

Mi fa accomodare su un terrificante divano di finta pelle marrone, mentre lei fruga negli archivi dietro la sua scrivania in legno scuro e cristallo. Tutto in questo ufficio grida tranquillità e pace. Ci sono piante verdissime, mobili tondeggianti e colori rassicuranti ovunque. Neanche l'ombra di farmaci, spigoli o oggetti contundenti. Sulla parete alle mie spalle, vicino all'aquario con i pesci esotici, è appeso il suo famoso diploma. Sul tavolino davanti a me ci sono fazzoletti e riviste con gattini e cuccioli vari, dietro di esso c'è una poltrona in tinta con il divano.

“Scusa per l'arredamento, ma sono vincolata da alcune regole di design” mi raggiunge posizionandosi sulla poltrona e stringendo un fascicolo spesso due dita con su scritto il mio nome. Ho sempre odiato quell'ammasso di carta, era sempre in mano a qualche dottore e nessuno me lo faceva mai leggere.
Si sistema una ciocca dietro l'orecchio e spalanca la cartella “Julianne Jade Roux, diciassette anni, nata a Parigi il 18 febbraio. Ricoverata presso l'istituto di disintossicazione Blue Water, a San Diego, a maggio di quest'anno dopo un'overdose di eroina”. Alza lo sguardo e mi osserva attraverso le lenti degli occhiali da lettura “Sono quattro mesi che sei pulita?”.

“124 giorni, 2 ore e 15 minuti” preciso “Al centro ti fanno tenere il conto per ricordarti i miglioramenti”.

“Secondo quello che c'è scritto qui la tua riabilitazione è stata una delle più rapide e efficaci, secondo i tuoi esami non ci sei più ricaduta”.

“Facevo pipì in un barattolo ogni giorno e esami del sangue ogni settimana, quindi direi che non c'era modo di sgarrare. Volevo uscire e l'unico modo per farlo era seguendo le loro regole, perciò”.

“Anche gli esami successivi alla tua dimissione sono risultati puliti e perfetti, nemmeno l'ombra di un antidolorifico” la luce che le si riflette nello sguardo è stranamente impressionata.

“Ho fatto una promessa e mantengo sempre le promesse” mi raggomitolo contro i cuscini.

“Hai una forza di volontà davvero impressionante, Julianne”.

“Non si fermi alla prima pagina, quelle successive le faranno cambiare idea. Se non sbaglio mi definiscono terrorizzata all'idea del rifiuto, instabile nelle relazioni a lungo termine, piena di sé, impulsiva, rancorosa verso la figura materna, autodistruttiva e determinata ai limiti della sconsideratezza”. Conosco il contenuto di quelle pagine a memoria.

La dottoressa mi osserva “Ti hanno lasciato leggere la cartella clinica?”.

“Oh, no. L'ho rubata durante la riabilitazione, mentre il custode dormiva. Ho scassinato l'armadietto dei fascicoli e ho fotocopiato il mio, poi l'ho rimesso a posto. Nessuno si è accorto di nulla”.

“Non mi sorprende affatto” chiude la cartella e la posa sul tavolo “ Se vuoi guardarci ancora dentro fai pure, non mi interessa cosa dicono di te gli altri dottori, noi cominciamo da zero. Il tuo fascicolo per me è vuoto, niente precedenti e niente dipendenza. Verrai da me ogni settimana quante volte vuoi, una minimo, e parliamo di qualsiasi cosa tu voglia”.

“Qualsiasi?”. Sono sorpresa, di solito voglio parlare tutti dei perché e dei miei sentimenti a riguardo.

“Qualsiasi. Della musica, del tempo, del tuo gatto. Tutto ciò che vuoi” assicura.

“Come sa che ho un gatto?”.

“Sono un'ottima osservatrice. E poi hai il fondo della borsa pieno di peli” sorride. “Siamo d'accordo?”.

Mi stringo nelle spalle “Okay”.

“Vuoi sapere quali sono le altre condizioni della tua iscrizione? Immagino che nessuno te le abbia dette”. Ha perfettamente ragione, perciò annuisco.

“Tolto il nostro appuntamento settimanale, il preside perquisirà il tuo armadietto ogni settimana. Dovrai evitare qualsiasi coinvolgimento con la polizia, se finirai in punizione per più di tre volte in un mese verrai cacciata e dovrai consegnare un campione di urine su richiesta mia o del preside Richmond”. Sento letteralmente la mascella sbattere contro il parquet dello studio. Mamma non ha accennato a nessuna di queste assurde richieste in tre giorni in cui siamo state nello stesso stato. Neanche fossi una pregiudicata! Beh, tecnicamente ho dei precedenti, ma sono archiviati e secretati. È come essere tornata nel centro per disintossicarsi, almeno lì c'era la piscina e la compagnia era gradevole.

“E quando pensavano di condividere con me questi piccoli dettagli?” mi agito sul divano.

“Tua madre ha pensato che sarebbe stato meglio che fossi stata io a dirti delle condizioni” tenta di far sembrare April una madre decente.“ Senti, Julianne, ci sono solo tre scuole superiori ad Orem, se tua madre non avesse accettato questo compromesso non avresti potuto frequentare e so che ti avrebbe dato fastidio”. Vorrei contraddirla o sbuffare sonoramente come una bambina, ma ha perfettamente ragione. Devo solo ingoiare questa amara pillola e stare alle loro regole. “Sì, va bene” borbotto fissando il cielo oltre le sue spalle. Questo però non significa che non posso avercela con la donna che mi ha generata.

“Ci restano ancora quindici minuti, vuoi parlare di qualcosa in particolare?” domanda sistemandosi meglio sulla poltrona. Porto le ginocchia al petto e faccio l'unica cosa che so fare quando qualcosa mi turba, mi richiudo in me stessa. La Dawson prova a parlare di qualsiasi cosa, ma senza successo. Rimango incatenata al mio orgoglio e alla testardaggine, chiudendola fuori dalla mia testa. Allo scadere dei quindici minuti mi lascia andare con un sospiro, vorrei dirle che non è colpa sua se mia madre ha la capacità innata di deludermi.
Esco dalla stanza senza salutare e mi chiudo la porta alle spalle. Nel corridoio ancora vuoto cammino verso l'uscita, diretta al parcheggio. Aspetto Aaron alla sua macchina e conto i minuti che mi separano dal mio letto e dalla mia meritata solitudine. Quando gli studenti iniziano a sgorgare fuori dall'edificio, il cielo inizia a scurirsi e l'azzurro viene sostituito da una matassa di minacciose nuvole grigie.
Aaron, Henry e Andrew raggiungono la macchina e finalmente possiamo lasciare il complesso scolastico. Mio fratello mi tartassa di informazioni riguardanti il club di scienze e di matematica, mentre Aaron guida e Andrew riprende il cielo che si prepara ad un temporale. “Jules stai bene? Sei più silenziosa del solito” la mano di Henry mi sfiorala spalla e mi scalda la pelle. Annuisco silenziosamente e fisso la strada finché non vedo spuntare la nostra via. Parcheggiati, mi lancio fuori dalla macchina e mi rifugio in casa prima che la pioggia possa toccarmi. Entrando nel soggiorno c'è odore di biscotti appena sfornati e di biancheria pulita. Mamma balza in piedi dal divano e mi viene incontro “Amore! Com'è andato il primo giorno di scuola?”. È sporca di farina in faccia e porta il suo ridicolo grembiule da mamma-casalinga. Vorrei vomitare. La ignoro e punto alle scale. Sento la porta aprirsi alle mie spalle e la voce di Henry che si scusa da parte mia. Raggiungo la mia stanza e mi ci chiudo dentro, lasciando fuori tutto il resto. Mi raggomitolo sulla moquette e ascolto il rumore della pioggia, finché il cuore smette di rimbombarmi nel petto e il fiato non mi torna nei polmoni.

Quando la terra smette di tremarmi sotto i piedi, mi alzo e mi infilo nei vestiti più comodi che trovo, mi butto sul letto con Kafka e chiamo Scar su Skype.

“Ecco la migliore amica del mondo!” trilla non appena si apre il collegamento. “Com'è andata la giornata della mia piccola Julie?”.

“Come sei pimpante, cosa hai combinato?” ignoro la sua domanda e mi concentro su di lei.

“Oggi ho conosciuto un ragazzo bellissimo! Si è appena trasferito in California, dovresti vedere che figo! Gli ho scattato una foto di nascosto, ora te la mando!” trilla agitando la chioma porpora.

Sul cellulare mi compare la foto sgranata di un ragazzo biondo di spalle. “Scar non si vede nulla da questa foto”.

“L'ho fatta di fretta, domani gliene faccio altre. Comunque guarda che spalle” mi sbatte davanti il suo telefono “Si chiama Lucas, arriva da New York. Lo hanno messo in banco con me a storia!” sembra sull'orlo di una crisi emotiva.

“Ha davvero...” Non so che dire “...delle belle spalle” commento.

“Vero? Sono innamorata” esalata abbassando le palpebre. Scuoto la testa “Vi conosce da si e no un giorno!”.

“Quando è amore a prima vista lo sai. È una sensazione pazzesca che ti prende lo stomaco, il petto, la testa...” cinguetta fissando la foto sfuocata del suo nuovo amore.

“Sembrano terrificante”.

Scar sbuffa “Lascia perdere, è impossibile spiegare l'amore ad una che non ci crede neanche se lo vede”.

“Quando vedrò veramente l'amore, sarai la prima a saperlo”.

“Ottimo” sorride “Allora il tuo primo giorno?”.

Il buonumore è tornato e sono pronta per raccontarle tutto. Le faccio il resoconto della giornata e verso l'ora di cena ci salutiamo. Rimango sdraiata con Kafka finché la porta del bagno non cigola e una testolina scura fa capolino oltre lo stipite. “È pronta la cena” gracchia Liv stringendo il pomello.

“Non ho fame” brontolo nel tentativo di cacciarla. Aggrotta la fronte e zampetta incerta nella stanza. Lentamente si arrampica sul mio letto. La gonna a paillettes viola fruscia quando si siede difronte a me tra le coperte. Si china in avanti e allunga una manina sporca di pennarelli facendomi, indietreggiare. Mi posa le dita sulla fronte e mi fissa con i suoi occhioni azzurri. “Non sei calda, non hai la febbre”.

“Sono stanca, non ho voglia di mangiare” provo ad allontanarla, ma lei si avvicina ancora. Mi prende il viso tra le mani e mi scruta concentrata “Non hai l'aspetto da malata”.

“Esiste un aspetto classico da malata?” domando.

“Non sei pallida o verde, non sudi e non hai il naso che cola. No, non sei malata” afferma.

“Resta il fatto che non ho fame”.

“Bisogna sempre mangiare, se no finisci per ammalarti. April ha fatto la pizza” si lecca e baffi e sorride. Un miagolio indispettito di Kafka attira la sua attenzione, distraendola dal suo ruolo di medico. Lo guarda in adorazione e allunga una mano per accarezzarlo. “Posso dargli da mangiare?” chiede speranzosa. Il suo faccino dolce scalfisce la corazza da mostro indisponente e annuisco. “Fantastiglioso!” trilla, mi prende per mano tirandomi via dal letto. In qualche modo riesce a trascinarmi verso il piano terra e quando il mio naso avverte l'odore della pizza fatta in casa, è troppo tardi.


Mangio la mia fetta ignorando qualsiasi voce e tentativo di conversazione, specialmente quelli della mamma. A cena finita, Liv riempie la ciotola di Kafka di tonno in scatola e, con mio incredibile piacere, scopro che Henry ed io siamo ufficialmente integrati nel giro dei lavori domestici. Il turno di stasera dei lavapiatti è diviso tra me e Aaron.
Mi vengono porti dei guanti di plastica fucsia e una spugna da cucina a forma di coniglietto. Fisso il lavabo carico di stoviglie nella speranza che si smaterializzino e mentalmente maledico l'ideatore delle faccende. La spalla di Aaron mi sfiora quando mi si piazza vicino con uno strofinaccio arancione sulla spalla. “Che dici principessa, tu lavi e io asciugo?”. Ottimo.

 

Mi ritrovo così con l'acqua fino ai gomiti e a scrostare residui di cibo dai piatti con una spugnetta per bambini.

“Avanti, principessa, perché quel muso lungo?” ridacchia Aaron appoggiato al bancone alle nostre spalle. Per il momento ho lavorato solo io, lui sta lì in tutta la tua bellezza a fissarmi mentre strofino nell'acqua putrida.

“Potresti anche fare finta di fare qualcosa. Lo strofinaccio che hai sulla spalla lo hai intenzione di usare o è solo una nuova moda che stai provando a lanciare?” gracchio grattando una teglia.

“Perché? Sta funzionando?” ride di gusto e si sistema la chioma scura come un modello. Sbuffo sbattendo con un po' troppa forza una scodella. Mi infila un dito tra le costole facendomi contorcere “Sto scherzando, dolcezza, rilassati”.

“Mi rilasserò quando vedrò il fondo del lavandino”.

“Lo stai facendo male, non riuscirai a finire velocemente se usi la spugnetta dal lato sbagliato” afferma l'esperto di piatti. In un nano-secondo si sistema dietro di me, la sua mano mi scivola lungo il braccio verso il guanto e posiziona il coniglietto nel verso giusto. La sua figura possente domina il mio spazio personale. Il suo corpo aderisce perfettamente al mio. Il mento mi sfiora i capelli, procurandomi brividi lungo tutta la spina dorsale. Sento ogni suo singolo muscolo appoggiato contro di me e il suo profumo mi avvolge, interferendo con il collegamento dei miei neuroni. Il cuore mi galoppa nel petto senza controllo, chiudo la bocca nel tentativo di celare l'iperventilazione. La sua mano sinistra mi si posa sul fianco e attraverso la maglietta sento la pressione dei suoi polpastrelli contro la pelle.
“Devi grattare contro il senso della pentola...” mormora roco, guidandomi nel movimento corretto. Non avevo idea che il lavaggio dei piatti potesse essere così eccitante. L'aria intorno a noi si condensa, caricandosi elettricamente. C'è una strana attrazione, quasi magnetica. È forte, bollente e impossibile da contrastare, come se fossimo fatti per essere attaccati.
Molliamo contemporaneamente la spugnetta e Aaron mi fa voltare, spingendomi contro il lavabo. Devo indietreggiare, ma non posso, sono bloccata senza vie di fuga. Non riesco a sfuggire alla carica che si è instaurata tra noi.
Scorgo ogni singolo muscolo sotto la t-shirt bianca, vorrei infilarci sotto le mani e toccare ogni curva e avvallamento. I suoi occhi incatenato i miei e non riesco più a guardare altrove. So che tutto questo non va bene, ma non riesco a resistere.
China la testa, concentrato sulle mie labbra, la bocca a pochi millimetri dalla mia.

Sono ipnotizzata.

Dal velo di barba che gli ricopre il mento.

Dalle labbra carnose.

Dalla sfumatura verde dei suoi occhi.

Un bacio non è poi la fine del mondo, vero? Insomma, non mi sto arrendendo ai suoi poteri da essere super sexy, è una mia decisione. Sono io che controllo la situazione.
Solleva una mano e la posa sulla mia guancia. Rabbrividisco.

“Julianne...” ringhia. È la prima volta che lo sento dire il mio nome e mi piace da impazzire.

Gli afferro il viso e spingo le sue labbra sulle mie, baciandolo come se fossi posseduta. Geme contro la mia bocca e mi fa scivolare le mani lungo i fianchi, afferrandomi il sedere. Non riesco a pensare ad altro che al suo corpo premuto contro il mio e al battito incontrollabile del mio cuore.

Con un movimento fluido mi tira su e mi fa sedere sul bordo del lavabo, posizionandosi in mezzo alle mie gambe.

Sposa l'attenzione della sua bocca sul mio collo e infila lentamente le mani sotto il bordo della t-shirt, bruciandomi la pelle. Mi aggrappo alle sue spalle larghe, incapace di fermare tutto questo.

Risale con i baci fino alle mie labbra e ci si rituffa, facendomi gemere. Lo desidero così tanto che fa male, e lui lo sa. Vorrei che non smettesse mai, ma naturalmente non vai mai nulla nel verso giusto.

“Anderson!” abbaia una voce dall'ingresso della casa. Aaron si scosta così velocemente che mi sorprende che non lasci i segni sul pavimento. Si allontana il più possibile da me, lasciandomi infreddolita e con le labbra socchiuse. Scendo dal lavabo, ricaccio in gola un lamento e mi rimetto a lavare i piatti. Gli amici di Aaron entrano in cucina con la solita sicurezza e portando rumore. Nascondo il viso arrossato dietro i capelli e fisso l'acqua cercando di sparire.
“Aaron” ruggisce Lip, dandogli una pacca sulla schiena “Sei pronto per le prove?”. La sua attenzione si catalizza successivamente su di me, come sempre. “Ehi, bambola, sempre in cucina ti trovo”. Sono ancora sottosopra e non gli do retta, fisso l'acqua in cerca di una scialuppa di salvataggio. Matt si avvicina e mi bacia sulla tempia “Hai bisogno d'aiuto con i piatti, Julie?”. Sorpresa, sobbalzo leggermente di lato.
Prima che possa dargli una risposta sensata, Aaron si intromette. “No, Matt, non ha bisogno del tuo aiuto. Andiamo a provare”.
Matt aspetta comunque una mia risposta, perciò mi costringo a far uscire qualche sillaba dalla gola “No, vai pure” bofonchio roca. Loro spariscono in garage, lasciandomi sola con il miscuglio di eccitazione e delusione che mi si rimescola nell'addome.

Finito il lavaggio dei piatti, mi nascondo in camera sperando che la notte arrivi presto e che porti consiglio. Mi sdraio sotto la finestra e ascolto Aaron cantare,immaginando cosa sarebbe potuto succedere se non fossimo stati interrotti.

 

 

La mattina seguente mi ritrovo sdraiata nello stesso punto e nella stessa pozione. Prevedibilmente, la notte non ha aiutato a capire nulla, pertanto mi alzo e mi trascino nel bagno. Mi rendo presentabile e scendo a in cerca di caffeina e cibo. Il rifornimento di energia procede senza intoppi, incontro solo Cole seduto al bancone della cucina che divora ciambelle glassate. Henry entra in cucina quando sono ormai sazia. “Buongiorno a tutti” cinguetta. Cole lo saluta con una cenno della mano e poi sparisce verso camera sua. Henry si versa una tazza di tè e poi mi guarda radioso. Mi scruta attentamente e si acciglia “Cosa hai fatto?” chiede sospettoso.
Infilo il naso nel caffè, guadagnando tempo. Lui presumibilmente se ne accorge “Stai tergiversando! Jules! Cosa hai combinato?”.

“Smettila!” gli tiro la carta del muffin “In camera mia, tra cinque minuti”.

Invece di aspettare, mi segue con la sua tazza di tè e una ciambella, si siede sul letto e aspetta. Inizio ad andare avanti e indietro lungo il perimetro della stanza e a mordicchiarmi il mignolo.
Lui sbuffa “Hai intenzione di creare un tracciato, oppure mi dici quello che succede? Se per caso sei ricaduta...”

“No! Mio Dio, quanto sei noioso, non gira tutto intorno alla droga” brontolo.

“Allora cosa hai fatto?” addenta la ciambella.

“Ieri sera stavo lavando i piatti con Aaron...” comincio.

“Si...?” mi imbecca.

“E secondo lui lo stavo facendo nel modo sbagliato, allora mi ha afferrata e mi ha toccata. In qualche modo mi sono ritrovata schiacciata tra il suo corpo e il bancone, e lui...”.
Il sorriso sulla faccia di Henry si allarga “Sì?”.

“E lui si è chinato come per baciarmi e io volevo che mi baciasse, non hai idea di quanto lo volessi in quel momento...”.

“Si!” strilla.

“Allora l'ho baciato e lui ha ricambiato, e mi sono ritrovata seduta sul lavandino con lui tra le gambe mentre mi baciava il collo...”.

“Si!”.

“E quando tutto stava andando nel verso giusto, sono arrivati i suoi amici e ci siamo allontanati”.

“No!” guaisce. “E poi?”.

“E poi se ne è andato e io sono rimasta lì come una scema. Poi però mi sono resa conto che sarebbe stato un'errore madornale e che la situazione si sarebbe complicata. E non ho bisogno di ulteriori complicazioni nella mia vita”.

“No!” strilla facendo ondeggiare il tè “Non è un errore madornale! Sarebbe una cosa meravigliosa! Una storia alla Romeo e Giulietta ai tempi moderni. Sareste così belli insieme” mugola.

Gli schiocco le dita davanti al naso “Pronto? Cerco mio fratello, quello coscienzioso e rispettoso delle regole. Quello che sa sempre cosa è giusto e cosa no. Sai dove posso trovarlo?”.

“Smettila con le regole, non le hai mai seguite in vita tua, perché cominciare adesso?”.

“Guarda dove mi ha portata quello stile di vita! Vengo ammessa in una scuola solo se sono disposta a dare la mia pipì ogni volta che qualcuno lo chiede”.

Henry scuote la testa “Cosa?”.
Gli faccio un veloce reso conto del colloquio con la dottoressa Dawson. Henry vuota la sua tazza e sospira “Ecco perché eri così strana ieri” si gratta il mento “Era scontato che ci sarebbero state delle condizioni, in fin dei conti sei schedata negli archivi della polizia”.

“Sono schedata come minore e come testimone collaborativo” preciso.

“In ogni caso, era ovvio che in qualche modo ti avrebbero tenuta d'occhio. Però alla fine non mi sembrano delle condizioni impraticabili, devi solo restare pulita e fuori dai guai” finisce la sua ciambella e posa la tazza vuota sul mio comodino. Si pulisce il mento con il dorso della mano “Aspetta un secondo. È per la storia di Aaron che sei vestita così carina?”.

Abbasso lo sguardo sugli abiti che indosso. Una gonna di jeans, una maglia nera dei Guns 'N Roses e una camicia extra-large a quadretti rossi. Il mio abbigliamento è normale.

“Sono vestita come tutti i giorni” mi difendo. Non mi vesto carina per un ragazzo, non esiste.

“Lo sai di indossare una gonna, vero?” ridacchia.

“Sai che c'è? Ora me la tolgo” infilo le dita nei passanti della cintura.

Henry balza in piedi, bloccandomi “Non se ne parla, stai benissimo. Ignorami e andiamo a scuola, forza”.
Mi spintona fuori dalla stanza e contro il corpo statuario della mamma. Ci fissa entrambi leggermente rossa in viso, ma perfettamente vestita e truccata. “Ecco i miei adorati figli”.

“Cosa fai ora origli le nostre conversazioni attraverso il buco della serratura?” domando velenosa. Henry mi molla una gomitata “Puoi dire ad Aaron che siamo pronti per uscire”.

April aggrotta la fronte, completamente priva di rughe “Oh, non vi ha avvisati? Oggi è dovuto uscire prima per qualche progetto scolastico, vi porto io a scuola”.

La scuola è cominciata da un giorno. Non hanno assegnato nessun progetto scolastico. È un modo per evitarmi? Si capisce lontano un miglio che è una balla enorme, ma lei sembra convinta e sicura. “Non siete contenti?”.

“Estasiati” mugugno.

 

Il viaggio in macchina con April è anche più patetico e ridicolo di quanto potessi aspettarmi. Henry mi ha incastrata per farmi sedere davanti e la mamma continua a straparlare e a cercare di sfiorarmi.

Vorrei incollarle le mani al volante con la super colla. È ovvio che avrei preferito un'imbarazzante viaggio in macchina con Aaron, piuttosto che ascoltare i vaneggiamenti di una finta madre. Almeno avrei potuto osservarlo guidare attraverso lo specchietto retrovisore.

“Zuccherino” mi appoggia la mano sul gomito e io mi ritraggo di scatto “Hai avuto modo di parlare con la signorina Dawson?” chiede titubante.

Mi sorprende che abbia sollevato lei l'argomento, stavo aspettando il momento giusto per farle una scenata. La macchina non è il posto migliore, non ho testimoni e nessuna via di fuga.

“Intendi la strizzacervelli della scuola?”.

“È una consulente scolastica...”.

“No, è una psichiatra. È diverso”. Immagino le piaccia soffrire, perché sta punzecchiando la bestia che sto cercando di far assopire. “Comunque sì, madre, l'ho conosciuta. Abbiamo parlato di una sacco di dettagli interessanti”.

“Davvero? E quali?” sterza a sinistra e sorride radiosa, come se non notasse minimamente il mio sarcasmo. Appoggio un dito sul mento “Mmmh vediamo...Oh, sì, magari il fatto che devo andare da lei ogni settimana, oppure che devo subire perquisizioni nel mio armadietto più di ogni altro studente della scuola, oppure la mia preferita: il fatto che devo fare pipì a comando ogni volta che qualcuno ha solo il sentore che io abbia ricominciato a farmi”. Frena al semaforo rosso.

Per la prima volta, la sua espressione solare si incrina “È solo una precauzione temporanea, amore. Una volta che la dottoressa sarà sicura che sei completamente...”.

“Sono completamente pulita!” strillo, facendola sbandare leggermente lungo la carreggiata. “Quattro mesi! Neanche un fottutissimo antidolorifico per i dolori da ciclo. Nemmeno un'aspirina per l'influenza! Ma tu non lo puoi sapere perché non eri lì. Non hai la più vaga idea di cosa io abbia passato durante la disintossicazione. Il vomito, l'insonnia, il dolore ovunque, le allucinazioni e i tremori. Non ci sei stata e non hai nemmeno le palle per dirmi le cose come stanno!”. Spalanco la portiera e salto giù dalla sua stupida macchina, allontanandomi da lei e dalla sua raccapricciante espressione ferita. Sento la voce di Henry alle mie spalle, ma continuo a camminare lungo la strada sotto il leggero velo di pioggia. Le goccioline si condensano sui capelli inumidendoli e l'aria fredda mi vibra attraverso le ossa. Vedo il profilo dell'edificio scolastico in lontananza e gli corro incontro finché non mi ritrovo ansimante nel parcheggio. Sento i passi di Henry alle spalle, boccheggia e cerca di riprendere fiato. “Jules...” esala. Tra le macchine già parcheggiate scorgo la Boss di Aaron e gli vado incontro, non sicura della ragione. Non so cosa voglio da lui o cosa mi aspetto di trovare, ma l'unica cosa che voglio in questo momento è distrarmi.
Raggiungo il lunotto posteriore e intravedo due figure sedute sui sedili anteriori. Il sistema di bloccaggio delle mie gambe mi inchioda le vans sull'asfalto. Vorrei non poter vedere attraverso le gocce della pioggia. Vorrei non poter vedere attraverso il vetro leggermente oscurato. Vorrei non essermi diretta da questa parte. Perché allora non mi sentire così delusa da vedere Aaron con Savannah sulle ginocchia, intenta a frugargli tra le tonsille con la lingua.
La delusione è un sentimento a cui ormai ho fatto il callo, perciò perché mi brucia ancora così tanto?

Giusto. Ho scordato la prima regola. Non abbassare mai la guardia.
Henry mi circonda con un braccio “Jules...”.
Me lo scrollo di dosso e parto diretta verso l'ingresso della scuola. “Andiamo in classe”.

   
 
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