Anime & Manga > Naruto
Segui la storia  |       
Autore: Sunako_7    18/10/2017    3 recensioni
Sasuke e Gaara si frequentano da qualche mese, nonostante abbiano un dialogo quasi inesistente. Basterà questo per riuscire ad andare avanti o lo scontro con i problemi della vita e i fantasmi di un passato mai dimenticato li schiaccerà, costringendoli a separarsi? E se quel passato tornasse più reale che mai? E se altre persone entrassero nella vita dei due protagonisti? Un viaggio complicato e irto di ostacoli nella vita di questi due ragazzi chiusi, diffidenti, incapaci di comunicare eppure bisognosi di affetto e amore.
Questa ff è il continuo della mia one-shot "If I had a heart" anche se non è indispensabile leggerla per seguire questa long, ma alcuni dettagli potranno essere più chiari.
[GaaraxSasuke][Itachix?][accenni HidanxDeidara]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Itachi, Sabaku no Gaara, Sasuke Uchiha, Shisui Uchiha
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Red bird

 

 

Gaara concluse la mail senza nemmeno i saluti formali tipici di questa comunicazione scritta e la inviò subito, così da non farsi prendere da eventuali ripensamenti.
Sapeva di essere stato maleducato, ma persino avere a che fare con Sasuke tramite un computer lo irritava. Non riusciva proprio a passare sopra a quanto era successo tra loro l’ultima volta in cui erano stati da soli, faccia a faccia, a come lo avesse fatto sentire una puttana; una puttana stronza per di più. Forse anche Gaara  a sua volta aveva oltrepassato la misura, non si era risparmiato nel ricambiare gli insulti, ma aveva perso la testa nel sentirsi offendere a quel modo, specialmente da quell’ipocrita patentato di Sasuke, poi!
Purtroppo non poteva tagliare del tutto i contatti con lui, doveva averci a che fare per lavoro e non poteva proprio evitarlo. Finora si erano scambiati mail riguardo il progetto, i preventivi e un’altra lunga serie di cose noiose, ma sicuramente presto si sarebbero anche dovuti rivedere e l’idea non gli piaceva, gli strizzava lo stomaco in una ferrea morsa di disagio.
Si dava dello stupido perché non riusciva a essere indifferente come avrebbe voluto: quello stronzo di un Uchiha nonostante tutto gli era entrato dentro più di quanto avesse creduto.
Cercò di togliersi dalla mente Sasuke e osservò Hinata mentre si affaccendava per decorare la loro stanza, finendo per fare un mezzo sorriso. Solitamente nel periodo natalizio appariva giusto qualche sparuta decorazione, ma quell’anno la ragazza si stava veramente impegnando per far diventare quel sobrio studio, tutto legno e professionalità, un tripudio di lucine colorate e roba verde di cui Gaara nemmeno sapeva il nome.
Si alzò vedendo che stava per usare la scala e, senza che gli venisse chiesto o dire nulla, andò a tenerla ferma mentre lei saliva.
“Oh, Gaara grazie. Sei molto gentile, non volevo disturbarti” rispose lei.
“Figurati, mica hai intenzione di passare il Natale in ospedale, sarebbe una vera tragedia per te, vero?”
“Vero, vero… – ridacchiò Hinata, fissando delle decorazioni sopra la porta – adoro questo periodo dell’anno, Naruto mi chiama la maniaca del Natale, ma anche a lui piace.” Sorrise dolcemente ripensando al suo fidanzato.
“Sono contento per te” rispose Gaara, asciutto.
“Scommetto che tu invece lo odi” replicò lei. Tuttavia, prima che il ragazzo rispondesse, si aprì il portone dell’appartamento e Itachi entrò nell’anticamera, rabbrividendo mentre li raggiungeva, in tempo per udire quell’ultima frase.
“Chi è che odia cosa?” domandò iniziando a togliersi cappotto e guanti.
“Il natale, io lo amo, ma stavo dicendo a Gaara che mi sembra uno di quelli che invece lo odia. Nevica ancora fuori?”
“No, ha smesso, ma è tutto imbiancato. Forse sarà il caso che tu esca prima se vuoi arrivare puntuale a quella cena – le rispose per poi rivolgersi all’altro ragazzo – allora, odio o amore?” sorrise.
Gaara osservò il suo viso arrossato dal freddo, un fiocco di neve che si stava sciogliendo tra i suoi capelli scuri e realizzò di fissarlo imbambolato senza rispondere.
“Beh, non so – mormorò, fingendo di pensarci ancora – forse indifferenza e basta.”
“Oh, ma è così bello stare con la famiglia e gli amici davanti al caminetto, a mangiare cose buone – disse Hinata sognante – persino mio padre si ammorbidisce, dovresti vederlo! Tu invece cosa fai con la tua famiglia?”
Gaara si irrigidì a quelle parole. Cosa poteva mai significare il Natale per uno come lui che una famiglia non ce l’aveva mai avuta? Cercò di dissimulare e si voltò per prendere dei chiodini che servivano alla ragazza.
“Direi niente, non siamo in buoni rapporti – disse soltanto e, per evitare che gli esprimessero una qualche forma di dispiacere o scuse, si affrettò ad aggiungere – credo che faremo la solita cena con il mio coinquilino e i suoi amici. E li ritroverò ancora ubriachi sul divano la mattina dopo.”
Rise appena ricordandosi dell’anno prima, in cui si era dovuto barricare in camera perché Yahiko, uno di quegli amici di Hidan, voleva che facesse da giudice in uno spogliarello integrale tra tutti loro. Alla fine aveva desistito, ma aveva fatto l’offeso tutto il resto della serata, salvo poi non ricordarsi assolutamente niente una volta passata la sbronza.
Nessuno degli altri due replicò e ci fu un momento di silenzio, superato però grazie a Itachi che disse:
“Noi quest’anno andremo a sciare, non vedo l’ora di rimettere i piedi sullo snowboard!”
“Oh, che bella cosa. Quindi sei bravo con la tavola?” domandò Hinata.
“Per niente – replicò – ma proprio per quello non voglio darmi per vinto, ci riuscirò ad ogni costo.” Era esaltante aver trovato qualcosa in cui non eccellesse al primo colpo, una bella sfida per uno come lui che solitamente riusciva in tutto senza dover fare troppi sforzi.
“Cerca solo di non tornare con le ossa rotte” scherzò Gaara.
“Non preoccuparti, non ho intenzione di lasciarvi soli – osservando Hinata scendere dalla scala e le sue decorazioni, sorrise malizioso – vischio, allora hai cattive intenzioni per caso?”
“Oh? N-no, no – si affrettò lei a replicare – è solo che è così carino con quelle bacche bianche.”
“Mh, farò finta di crederti” continuò a prenderla in giro Itachi.
“Che significato ha?” domandò Gaara incuriosito, dato che non capiva a cosa si stessero riferendo.
“Per tradizione se due persone si fermano sotto al vischio devono baciarsi, ma sul serio: l’ho usato solo perché lo trovo carino. Itachi, smettila di ridacchiare” disse lei facendosi rossa e parlando più velocemente del solito.
Gaara la osservò: con le sue guance colorate, l’espressione imbarazzata, le mani che non volevano saperne di stare ferme, Hinata era assolutamente adorabile, la quintessenza della normalità, di tutto ciò di buono e rassicurante poteva ancora esistere.
“Beh, allora dovrai stare attenta se non vuoi che Naruto si arrabbi” disse, unendosi a quella presa in giro. Per la prima volta dopo parecchio si sentiva bene, gli piacque ritrovarsi a scherzare e ridere in modo tanto naturale. Ogni pensiero negativo sembrava lontano, era forse quella la magia del Natale?

 
Alla fine Hinata era uscita in anticipo e anche gli altri avvocati l’avevano imitata poco dopo. Quel giorno il tempo era veramente pessimo, ma Gaara, prima di poter dichiarare concluso il suo lavoro, doveva assolutamente finire un giro di telefonate e mail, oltre a preparare il materiale da dover spedire l’indomani. Anche Itachi sembrava piuttosto indaffarato nelle sue scadenze improrogabili, tanto che i due si ritrovarono ad uscire assieme dall’ufficio, forse gli ultimi di tutto il palazzo.
“Che programmi hai per la serata? O dovrei dire pomeriggio visto che sono solo le diciotto?” domandò Itachi mentre entravano nell’ascensore. Mai nessuno usciva tanto presto, ma quel giorno pareva tutto diverso, l’aria prometteva neve e una sottile elettricità pareva suggerire che sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa prima che spuntasse di nuovo l’alba; una tempesta era alle porte.
“Non so, suppongo che andrò a casa. Niente di speciale, tu?” chiese Gaara a sua volta, fissando perplesso uno sticker con il faccione di babbo natale attaccato persino lì dentro, vicino alla pulsantiera. Hinata non aveva davvero limiti, era certo che fosse stata lei.
“Credo che andrò a prendermi una cioccolata calda, è veramente il tempo ideale e non ho altri impegni – replicò guardando le sue ciocche rosse sfavillare in quello spazio ristretto sotto la luce artificiale – vuoi farmi compagnia?”
Gaara girò la testa di scatto, sorpreso da quella proposta inaspettata. Si domandò perché l’altro gliel’avesse fatta, non avevano mai passato del tempo seduti, rilassati a chiacchierare semplicemente del più e del meno. Ogni tanto si scambiavano qualche battuta o si ritagliavano un paio di minuti per scambiare due parole tra un lavoro e l’altro, ma nulla di più.
“Sì, mi farebbe piacere.”
La risposta era uscita con naturalezza e fu lui il primo a rimanerne sconcertato, però non se la rimangiò, bensì lo seguì fuori dall’ascensore e poi dal palazzo mentre Itachi gli sorrideva e gli raccontava di un posto lì vicino dove facevano un’ottima cioccolata calda, la sua preferita in effetti.
Non nevicava ancora, le strade e i marciapiedi erano stati ripuliti dalla nevicata della mattinata, ma ogni altra cosa era ammantata di bianco e l’aria era così gelida che spingeva ad alzare i baveri dei cappotti e a camminare velocemente per togliersi di lì. Tuttavia non fecero che pochi passi prima che Gaara si sentisse afferrare per un braccio e, voltandosi irritato pronto a inveire, rimase invece sconcertato vedendo Kankuro.
“Dobbiamo parlare” gli disse questi.
Gaara aprì la bocca e la richiuse un paio di volte prima di riuscire a emettere un fiato, aveva l’impressione che tutto quel freddo avesse creato un tappo di ghiaccio invisibile che era stato difficile scalzare.
“Credo che ci siamo già detti tutto” rispose infine, con la sua solita voce pacata che niente rivelava del suo turbamento interiore.
“No, proprio per niente. Non te ne saresti dovuto andare a quel modo l’ultima volta, né bloccare il mio numero.”
A quel punto Itachi non riuscì più a essere il solito spettatore impassibile e si fece avanti, preoccupato per quello sconosciuto che gli pareva un po’ troppo agitato. Si faceva infatti sempre più vicino a Gaara e non pareva intenzionato a lasciar andare la presa sul suo braccio, mentre lo fissava con uno sguardo acceso che proprio non piaceva a Itachi, come non gli piacevano l’aria scioccata e il pallore del segretario.
“E tu saresti? Se Gaara non vuole parlarti avrà le sue ragioni.”
Tentò di essere conciliante, quando in realtà avrebbe solo voluto prendere il collega per mano e trascinarlo via da lì, ma non conosceva la situazione e non voleva tirare conclusioni affrettate, sebbene raramente il suo istinto lo aveva tradito.
“Lui è…” iniziò a dire in effetti Gaara, interrotto però bruscamente da Kankuro.
“Sono suo fratello, chi sei tu piuttosto?”
“È un mio collega – rispose Gaara, strattonando via il braccio dalla presa finalmente – e vedi di darti una calmata. Quello incazzato dovrei essere io.”
I due fratelli si fissarono in silenzio, Kankuro con l’espressione più corrucciata che mai e l’altro capì che non avrebbe rinunciato tanto facilmente quella volta.
“Itachi, scusami. Sarà per una prossima volta, ok?”
L’Uchiha si sentì tagliato fuori in modo definitivo e ineluttabile, tuttavia non cedette subito nemmeno di fronte all’evidenza e sondò quegli occhi chiari; non gli piacque vedere l’agitazione che giaceva celata.
“Sicuro che sia tutto a posto?” Si era un po’ rilassato nell’apprendere che quello non era un amante rancoroso, bensì il fratello, però giusto qualche ora prima aveva anche sentito che non avevano un bel rapporto.
“Sì, scusami ancora. Ci vediamo domani, buona serata” tagliò corto Gaara, non badando più ai sentimenti o alle preoccupazioni di Itachi. Si incamminò nella direzione opposta alla sua, stando ben attento a non sfiorare Kankuro, né voltandosi per vedere se lo stesse seguendo.
Con gli occhi puntati a terra e le mani in tasca, camminò svelto fino ad entrare in un parchetto deserto; in fondo chi, sano di mente, ci si sarebbe mai avventurato in una sera come quella? Le siepi, i prati, le panchine, tutto era ammantato di neve candida, persino alcuni sentieri non erano sgombri e fu lì, in quel luogo quasi irreale dove ogni suono era attutito dalla bianca coltre spessa, che Gaara si voltò a fronteggiare il fratello, decisamente irritato.
“Si può sapere che diavolo vuoi ancora da me?”
“Accidenti Gaara, qui si gela e io sono stato un’ora ad aspettarti fuori dal portone, non possiamo andare in un locale?”
“No, se vuoi parlare possiamo farlo anche qui.”
Non voleva essere circondato da altra gente come l’altra volta, perché temeva che stavolta la loro discussione sarebbe stata ancora più delicata. “Come hai fatto a scoprire dove lavoro? No, aspetta non dirmelo… l’investigatore privato. Posso dirti che la cosa mi dà parecchio fastidio?”
L’idea che un estraneo frugasse tra le pagine della sua vita lo faceva sentire violato, specialmente se poi il risultato era ritrovarsi inaspettatamente di nuovo faccia a faccia col fratello. Non erano bastate le mail con Sasuke quel pomeriggio, non c’era proprio pace per il ragazzo, e lui che si era illuso di potersi rilassare almeno un attimo assieme a Itachi! Povero sciocco.
“Scusami, ma era l’unico modo di rintracciarti visto che non rispondevi alle mie chiamate.”
“Forse perché non volevo parlarti e non voglio ancora adesso, mi hai costretto in pratica!” tacque e serrò forte le labbra.
“Come ti ho costretto a fare certe cose in passato, è questo che vuoi dire?” ribatté Kankuro, stringendo le mani a pugno. E a Gaara sembrò di sentirselo in faccia quel pugno, tale era stata la violenza delle sue parole.
“No, no, aspetta… non mettermi in bocca cose che non ho mai nemmeno pensato. Di certo sei stato tu a infilarti nel mio letto e a incitarmi, ma io l’ho sempre fatto perché ti volevo bene, perché pensavo… – gli morì la voce e non riuscì a continuare – Ma perché stiamo parlando ancora di questa storia? Basta Kankuro, basta” mormorò.
Il fiato si congelava in bianche nuvolette davanti alla sua bocca prima di dissolversi e lui voleva che succedesse la stessa cosa coi suoi ricordi. Gli sarebbe piaciuto se avessero potuto svanire e lasciarlo come un uomo nuovo, ripulito dalle colpe e dai peccati del passato. Ma Kankuro non aveva intenzione di lasciar stare, continuava ad aggrapparsi a quella discussione come un cane con l’osso, in un’ossessiva e dannosa ricerca di una risposta.
“Ne parlo perché dobbiamo chiarire, io pensavo che lo fosse, invece tu l’altra volta mi hai sbattuto giustamente in faccia le mie colpe e le conseguenze delle mie azioni sconsiderate – gli posò una mano sulla spalla – cosa pensavi di noi Gaara?”
Il ragazzo lo guardò con gli occhi chiari, ma non quanto la neve che aveva ricominciato a scendere dal cielo. Osservò i suoi lineamenti da adulto confrontandoli con quelli dell’adolescente che lo aveva stretto tra le braccia, la persona che era stata tutto il suo mondo, e vide che era diverso; esattamente come diverse erano le sue convinzioni dalla realtà.
“Pensavo mi amassi, perché io ti amavo. Ti amavo e non perché eri mio fratello, ma mi sbagliavo a quanto pare.”
A quel punto tenere nascosta la verità non sarebbe servito più, doveva dirla ad alta voce, ascoltarla e accettare il suo fallimento, che tutto il suo mondo era crollato miseramente e ciò che gli rimanevano in mano erano solo cocci inutili.
Kankuro esalò un respiro profondo, non era stato facile sentirsi dire direttamente quelle parole che aveva solo immaginato, ma le sue orecchie per quanto gelate funzionavano e avevano udito quella confessione dal sapore di una condanna.
“Mi dispiace, io… è tutta colpa mia.”
“Perché mi sei venuto a cercare, solo per avermi al tuo matrimonio, solo per illuderti di avere davvero una famiglia? Ma così hai spezzato la mia di illusione, hai reso inutili e vani tutti i miei sacrifici, fatti solo perché ti amavo.” Gaara non riuscì più a trattenere un singhiozzo, parlare lo aveva lacerato, aveva generato un maremoto di tristezza che stava rapidamente mutando in rabbia, perché lui non aveva mai chiesto niente di tutto ciò, lui non aveva mai chiesto nulla fin dal principio. “Nonostante tutte le difficoltà ti pensavo e mi dicevo di aver fatto la scelta giusta, ma tu con le tue parole l’altra volta mi hai fatto capire che è stato tutto inutile, le mie azioni quanto i miei sentimenti – gliela urlò addosso quella rabbia, incapace ormai di contenersi – e ora vieni qui e ti addossi la colpa giusto per lavarti la coscienza, ma non serve a niente. A me non serve! Non lo volevo, io non volevo più niente da te!”
“Gaara aspetta, possiamo rimediare, possiamo aggiustare ogni cosa adesso…”
Kankuro non riuscì a finire la frase perché Gaara lo prese per il bavero del cappotto e lo strattonò a sé, baciandolo. Posò le labbra gelide sulle sue altrettanto fredde e gliele leccò con la lingua umida e calda; gli diede un vero e proprio bacio come quelli che si scambiavano in passato, quelli che lui gli aveva insegnato a dare, solo che stavolta il fratello lo ricambiò a malapena.
Gaara lo lasciò andare e, fissandolo negli occhi sorpresi, disse:
“No, non c’è niente da poter riparare, e questo è il motivo. Non siamo una famiglia, non siamo amanti, non siamo nemmeno amici; noi non siamo niente, Kankuro, se non due estranei che in passato hanno condiviso qualcosa che non avrebbe mai dovuto esserci tra due fratelli. Ora lasciami in pace, sposati, senti pure tua sorella, perché non hai altra famiglia all’infuori di lei, io non esisto.”
Lo lasciò andare e Kankuro mormorò solo un “Gaara” soffocato tra i denti, ma non lo fermò, lo osservò andare via, con i capelli striati di bianco, le spalle curve e la sua figura sottile si confuse con le ombre e la neve che aveva ripreso a scendere dal cielo. Lo osservò immobile finché quel fratello perduto non scomparve per sempre dalla sua vita, in modo definitivo, e di ciò poteva incolpare solo se stesso. Ma nessun biasimo o pena avrebbero mai potuto riportare indietro quel ragazzo, quel fratello che era svanito tra la neve.
Gaara camminò senza nemmeno vedere dove stesse andando, non c’era quasi nessuno per strada che potesse vedere le sue guance striate dalle lacrime che sembravano in grado di cristallizzarsi e rimanere lì, eterne. Intravide una cabina del telefono e vi ci si infilò.
Il telefono era fuori servizio, le pareti erano piene di scritte e c’era anche un vetro rotto, ma lui non notò niente di tutto questo. Si lasciò cadere seduto piegando le ginocchia, vi posò sopra la testa e pianse senza limitarsi, senza soffocare i singhiozzi che gli scuotevano il torace, perché… perché era troppo. Aveva giunto il suo limite, Kankuro aveva aggiunto l’ultima goccia a un vaso già colmo e pronto a straripare.
Maledisse lui, l’investigatore che aveva fatto il suo lavoro, se stesso per la propria stupidità, per essersi cullato nell’illusione che qualcuno lo avesse amato, di valere qualcosa per qualcuno, che ci fosse ancora qualcosa di bello in serbo per lui. A cosa erano serviti i suoi sforzi? A che pro ammazzarsi ancora di lavoro e studio? Tanto era tutto inutile.
A poco a poco si rese conto di riuscire a udire della musica in quella piccola cabina, c’era un locale lì vicino e stavano suonando qualcosa dal vivo.
A una ridicolmente piccola distanza c’era gente che stava assieme, c’erano risate, calore, amicizia, sentimenti dove invece lui era freddo e vuoto… e allora perché cantavano cose tanto tristi? Perché non erano felici loro che potevano? Che spreco…

 There's a black bird perched outside my window
I hear him calling
He sees all my sins
He reads my soul

Come join the murder
Come fly with black
We'll give you freedom
From the human trap
Come join the murder

Sì, Gaara avrebbe voluto unirsi, avrebbe voluto davvero che lo liberassero dal peso dei suoi peccati, dalla trappola della vita da cui lui stesso non riusciva a districarsi; troppo codardo. Voleva essere libero e finalmente volare come quell’uccellino nero, anche se le sue piume sarebbero state rosse per i capelli e il sangue.
“Basta, basta così” mormorò in una gelida e squallida cabina abbandonata, dove nessuno lo avrebbe mai udito, dove nessuno avrebbe mai asciugato le sue lacrime.

Come join the murder
Come fly with black

 

***

 

Sasuke si guardava le mani, quasi affascinato. Era incredibile quante cose si potessero fare grazie a uno stupido pollice messo in una posizione diversa dalle altre dita. Si afferravano oggetti, si poteva cucinare, disegnare, dipingere, carezzare, ma anche stringere un coltello e ferire, sebbene non fossero sempre necessari oggetti per fare del male, bastavano anche solo delle parole.
“Allora Sasuke, di cosa mi vuoi parlare oggi?”
Lo psicologo lo strappò dalle sue elucubrazioni e lui alzò lo sguardo dalle proprie mani curate, posate elegantemente in grembo.
“Non lo so, niente di particolare.”
Non era la sua prima seduta, ma ogni volta iniziava allo stesso modo, con il terapeuta che doveva incitarlo e ricordargli di avere una lingua capace di articolare parole e frasi di senso compiuto. Sasuke si era ritrovato a raccontargli più di quanto avesse preventivato e la cosa non era stata poi così difficile, una volta superato il primo scoglio. Anzi, era stata quasi liberatoria, peccato che appena uscito da lì calzasse di nuovo la propria maschera e vanificava il lavoro fatto, come se non fosse veramente lui a partecipare a quelle sedute, bensì un altro se stesso, come era un altro quello a cui piacevano gli uomini e un altro ancora quello che sapeva fare l’architetto.
Il problema era che si era perso tra tutti questi se stesso e non sapeva più quale fosse l’originale, il primo che aveva generato gli altri.
“Ti piacciono le frittelle?” domandò l’uomo.
“Frittelle? – domandò Sasuke perplesso – Che c’entrano?”
“Niente, ma è un argomento come un altro di cui parlare.”
Il ragazzo sospirò, forse non si sarebbe mai abituato alle uscite strambe dell’uomo, tra i due sembrava lui quello pazzo.
“Quelle salate sì, non mi piacciono i dolci” lo assecondò, curioso di vedere fin dove sarebbero arrivati.
“Proprio per niente? Nemmeno da piccolo?”
“Da piccolo sì, anzi ne mangiavo parecchi con mio fratello, poi…” si interruppe, assorto.
“Poi?”
“Poi niente, non mi sono più piaciuti.”
“Così, all’improvviso? C’è stata un’indigestione, qualche cosa che ti ha dato fastidio?”
“Che c’è? A una persona non possono all’improvviso stare sul cazzo i dolci?” sbottò Sasuke, irritato.
Li aveva sempre adorati quei maledetti dolci e, ancora di più, quelle rare volte in cui sul divano con Itachi facevano sparire una scatola intera di biscotti. Però un giorno aveva sentito il padre rifiutare un dessert a una cena formale, dicendo che non era da uomini e in effetti Fugaku non ne mangiava mai. Aveva notato che anche il fratello se li concedeva quando lui non era in casa, quindi aveva concluso che in effetti era una cosa deprecabile per un uomo e aveva iniziato a rifiutarli, nonostante il desiderio.
Sognava che suo padre se ne accorgesse e lo lodasse per la sua bravura, perché era più bravo di Itachi, nemmeno quando era solo a casa andava a cercarli nella dispensa. Ma Fugaku non si era mai accorto di nulla, ovviamente, e lui si era ritrovato ad odiare le cose zuccherate, senza più ricordare il motivo originale, almeno fino a quel momento.
Osservò irritato lo psicologo, sapendo che a lui non importava che gli raccontasse i ricordi che venivano a galla durante le sedute, quelle cose che Sasuke aveva sepolto profondamente dentro di sé. Per lui era sufficiente che il ragazzo ne prendesse coscienza.
“Ho fatto un sogno, vuole sentirlo?” propose per cambiare argomento e per punzecchiarlo, ovviamente.
“Perché no?”
“Ma come? Non aveva denigrato Freud e le sue interpretazioni dei sogni, definendole anacronistiche e semplicistiche?” disse Sasuke non senza una punta di compiacimento, certo di averlo colto in fallo.
“E non lo nego – rispose l’uomo – infatti a me non interessa il sogno, quanto l’effetto che il sogno ha avuto su di te, il motivo per cui ti ha colpito e ti ha spinto a parlarmene.”
Sasuke fece una smorfia, sentendo in bocca un gusto acre, quello della polvere dopo essere stato sbattuto in terra dal suo piedistallo. Aveva sempre guardato tutti dall’alto in basso, compiacendosi della propria capacità di dare risposte argute, dei suoi silenzi che sconcertavano gli interlocutori e della superiorità che ne conseguiva, ma con quell’uomo non funzionava nessuna delle sue tattiche.
Sasuke era consapevole di essere in guerra, peccato che lui fosse sia il nemico da distruggere che gli eroi che andavano in soccorso a baionette spianate.
Sarebbe stato tutto più semplice se avesse deposto le armi, sventolato bandiera bianca e si fosse deciso ad aprire quella bocca solo per lasciare uscire i pensieri più profondi invece di battutine sarcastiche e frecciatine inutili. Eppure proprio non ci riusciva, non riusciva a darsi tregua e abbattere così facilmente le trincee in cui si era sempre riparato e protetto negli anni.
“Ho sognato di andare al cinema con Gaara” si risolse a dire finalmente. Aveva già accennato in altre sedute del ragazzo, così come della propria omosessualità, ma non aveva sviscerato nessuno dei due argomenti e lo psicologo non lo aveva forzato.
“Fammi ricordare, quel Gaara che hai trattato di merda più di una volta?” gli domandò.
“Ehi, ma non dovrebbe essere dalla mia parte?” protestò Sasuke.
“Lo sono, ma oltre all’inutilità dell’interpretazione dei sogni sono anche convinto del bisogno di dire le cose come stanno, specialmente con te. Quindi… cosa facevate nel sogno?”
Sasuke fece uno sbuffo a metà tra l’irritato e lo scocciato e guardò fuori dalla finestra un paio di minuti prima di parlare di nuovo.
“Andavamo a vedere un film e basta, compravamo anche i pop-corn.”
“E ti è piaciuto andare al cinema con lui?” domandò lo psicologo, cambiando il registro della conversazione, adesso più calma e cauta.
“Sì” ammise e quella semplice sillaba fece fatica a uscire fuori, pareva volersi aggrappare a tutti i costi a qualche sporgenza, forse alla trachea, all’ugola o ai denti, a qualsiasi cosa pur di impedirgli di pronunciarla. “Sì, mi è piaciuto. Eravamo tranquilli e ci siamo divertiti.”
“Lo hai più visto o sentito nella realtà?”
“Per mail, mi occupo di un progetto per conto dello studio in cui lavora. Dopo… dopo l’ultima volta ci siamo sentiti unicamente per mail per discutere del progetto, nient’altro.”
“E perché?” domandò lo psicologo e Sasuke pensò che fosse proprio scemo.
“Ma come perché? Secondo lei come diavolo faccio a parlargli dopo quanto è successo?”
“Prendere il telefono e fare il suo numero è un inizio. Non mi hai raccontato bene cos’è successo tra voi, ma se senti di aver sbagliato qualcosa puoi scusarti e ripartire da lì. O magari lui ti chiuderà la chiamata in faccia; è un’opzione – ammise giocherellando con un bottone del maglione – ma se non ci provi, come fai a sapere qual è quella giusta?”
Sasuke rimase interdetto e si chinò per poggiare gli avambracci sulle ginocchia, riflettendo.
“Non è così semplice ammettere di avere sbagliato.”
“Mai detto che lo fosse, infatti. E non devi farlo se non te la senti, semplicemente tieni presente che è un’opzione, non devi scartarla per forza a priori come fai sempre.”
Sasuke fece un respiro profondo, un po’ più sollevato perché l’uomo non lo costringeva a fare nulla, solo a pensare che fosse possibile cambiare le proprie abitudini, uscire dal seminario in cui si era confinato. C’era sempre un’alternativa, doveva solo imparare a vederla.
“Ci penserò” rispose semplicemente.
“Bene, Sasuke e ora dimmi, a che punto sei coi regali di Natale? Io devo ancora farli!”
“Cosa? – esclamò stupito – Ma mancano solo pochi giorni!” Lui li aveva pronti da settimane, accuratamente ricercati, pensati e impacchettati in attesa di essere consegnati. Non avrebbe mai affrontato il caos degli ultimi giorni, tra gente che pareva pazza e si accaparrava qualsiasi cosa pur di non presentarsi a mani vuote, quando invece sarebbe stata la cosa migliore invece di elargire regali inadatti e tristi.
“Forse sono un po’ masochista” ridacchiò l’uomo.
“No, è pazzo. Lei è pazzo” sospirò Sasuke guardando il soffitto, però poi guardò di nuovo lui e gli sorrise. Semplicemente perché gli andava di farlo.

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Scrivere questo capitolo mi ha quasi ucciso, mentre descrivevo Gaara e la sua disperazione stavo male per lui, eppure non riuscivo a smettere, volevo sviscerare quel momento, il suo rapporto assurdo con Kankuro, il crollo delle sue convinzioni e fino a che punto un animo umano può reggere. Immagino di aver trovato una risposta, quel Come join the murder della canzone non si riferisce ad un assassinio generico, e il desiderio di Gaara di essere libero è molto chiaro. La canzone è questa, ascoltatela Come Join The Murder - The White Buffalo & The Forest Rangers
Stavolta la chiudo qui perché, davvero, non sono in grado di aggiungere molto altro a parte che in contrasto con la scena disperata di prima è stato bello descrivere questo Sasuke che inizia a muovere i primi passi e ad aprirsi.
Alla prossima.

 

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: Sunako_7