Red
bird
Gaara
concluse la mail senza nemmeno i saluti formali tipici di questa
comunicazione
scritta e la inviò subito, così da non farsi
prendere da eventuali
ripensamenti.
Sapeva
di essere stato maleducato, ma persino avere a che fare con Sasuke
tramite un computer
lo irritava. Non riusciva proprio a passare sopra a quanto era successo
tra
loro l’ultima volta in cui erano stati da soli, faccia a
faccia, a come lo avesse
fatto sentire una puttana; una puttana stronza per di più.
Forse anche Gaara a
sua volta aveva oltrepassato la misura, non
si era risparmiato nel ricambiare gli insulti, ma aveva perso la testa
nel
sentirsi offendere a quel modo, specialmente da
quell’ipocrita patentato di Sasuke,
poi!
Purtroppo non poteva tagliare del
tutto i contatti con lui, doveva averci a che fare per lavoro e non
poteva
proprio evitarlo. Finora si erano scambiati mail riguardo il progetto,
i preventivi
e un’altra lunga serie di cose noiose, ma sicuramente presto
si sarebbero anche
dovuti rivedere e l’idea non gli piaceva, gli strizzava lo
stomaco in una
ferrea morsa di disagio.
Si
dava dello stupido perché non riusciva a essere indifferente
come avrebbe
voluto: quello stronzo di un Uchiha nonostante tutto gli era entrato
dentro più
di quanto avesse creduto.
Cercò
di togliersi dalla mente Sasuke e osservò Hinata mentre si
affaccendava per
decorare la loro stanza, finendo per fare un mezzo sorriso. Solitamente
nel
periodo natalizio appariva giusto qualche sparuta decorazione, ma
quell’anno la
ragazza si stava veramente impegnando per far diventare quel sobrio
studio,
tutto legno e professionalità, un tripudio di lucine
colorate e roba verde di
cui Gaara nemmeno sapeva il nome.
Si
alzò vedendo che stava per usare la scala e, senza che gli
venisse chiesto o
dire nulla, andò a tenerla ferma mentre lei saliva.
“Oh,
Gaara grazie. Sei molto gentile, non volevo disturbarti”
rispose lei.
“Figurati,
mica hai intenzione di passare il Natale in ospedale, sarebbe una vera
tragedia
per te, vero?”
“Vero,
vero… – ridacchiò Hinata, fissando
delle decorazioni sopra la porta – adoro
questo periodo dell’anno, Naruto mi chiama la maniaca del
Natale, ma anche a
lui piace.” Sorrise dolcemente ripensando al suo fidanzato.
“Sono
contento per te” rispose Gaara, asciutto.
“Scommetto
che tu invece lo odi” replicò lei. Tuttavia, prima
che il ragazzo rispondesse,
si aprì il portone dell’appartamento e Itachi
entrò nell’anticamera,
rabbrividendo mentre li raggiungeva, in tempo per udire
quell’ultima frase.
“Chi
è che odia cosa?” domandò iniziando a
togliersi cappotto e guanti.
“Il
natale, io lo amo, ma stavo dicendo a Gaara che mi sembra uno di quelli
che
invece lo odia. Nevica ancora fuori?”
“No,
ha smesso, ma è tutto imbiancato. Forse sarà il
caso che tu esca prima se vuoi
arrivare puntuale a quella cena – le rispose per poi
rivolgersi all’altro
ragazzo – allora, odio o amore?” sorrise.
Gaara
osservò il suo viso arrossato dal freddo, un fiocco di neve
che si stava
sciogliendo tra i suoi capelli scuri e realizzò di fissarlo
imbambolato senza
rispondere.
“Beh,
non so – mormorò, fingendo di pensarci ancora
– forse indifferenza e basta.”
“Oh,
ma è così bello stare con la famiglia e gli amici
davanti al caminetto, a
mangiare cose buone – disse Hinata sognante –
persino mio padre si
ammorbidisce, dovresti vederlo! Tu invece cosa fai con la tua
famiglia?”
Gaara
si irrigidì a quelle parole. Cosa poteva mai significare il
Natale per uno come
lui che una famiglia non ce l’aveva mai avuta?
Cercò di dissimulare e si voltò
per prendere dei chiodini che servivano alla ragazza.
“Direi
niente, non siamo in buoni rapporti – disse soltanto e, per
evitare che gli
esprimessero una qualche forma di dispiacere o scuse, si
affrettò ad aggiungere
– credo che faremo la solita cena con il mio coinquilino e i
suoi amici. E li
ritroverò ancora ubriachi sul divano la mattina
dopo.”
Rise
appena ricordandosi dell’anno prima, in cui si era dovuto
barricare in camera
perché Yahiko, uno di quegli amici di Hidan, voleva che
facesse da giudice in
uno spogliarello integrale tra tutti loro. Alla fine aveva desistito,
ma aveva
fatto l’offeso tutto il resto della serata, salvo poi non
ricordarsi
assolutamente niente una volta passata la sbronza.
Nessuno
degli altri due replicò e ci fu un momento di silenzio,
superato però grazie a
Itachi che disse:
“Noi
quest’anno andremo a sciare, non vedo l’ora di
rimettere i piedi sullo
snowboard!”
“Oh,
che bella cosa. Quindi sei bravo con la tavola?”
domandò Hinata.
“Per
niente – replicò – ma proprio per quello
non voglio darmi per vinto, ci
riuscirò ad ogni costo.” Era esaltante aver
trovato qualcosa in cui non
eccellesse al primo colpo, una bella sfida per uno come lui che
solitamente
riusciva in tutto senza dover fare troppi sforzi.
“Cerca
solo di non tornare con le ossa rotte” scherzò
Gaara.
“Non
preoccuparti, non ho intenzione di lasciarvi soli –
osservando Hinata scendere
dalla scala e le sue decorazioni, sorrise malizioso –
vischio, allora hai
cattive intenzioni per caso?”
“Oh?
N-no, no – si affrettò lei a replicare –
è solo che è così carino con quelle
bacche bianche.”
“Mh,
farò finta di crederti” continuò a
prenderla in giro Itachi.
“Che
significato ha?” domandò Gaara incuriosito, dato
che non capiva a cosa si
stessero riferendo.
“Per
tradizione se due persone si fermano sotto al vischio devono baciarsi,
ma sul
serio: l’ho usato solo perché lo trovo carino.
Itachi, smettila di ridacchiare”
disse lei facendosi rossa e parlando più velocemente del
solito.
Gaara
la osservò: con le sue guance colorate,
l’espressione imbarazzata, le mani che
non volevano saperne di stare ferme, Hinata era assolutamente
adorabile, la
quintessenza della normalità, di tutto ciò di
buono e rassicurante poteva
ancora esistere.
“Beh,
allora dovrai stare attenta se non vuoi che Naruto si
arrabbi” disse, unendosi
a quella presa in giro. Per la prima volta dopo parecchio si sentiva
bene, gli
piacque ritrovarsi a scherzare e ridere in modo tanto naturale. Ogni
pensiero
negativo sembrava lontano, era forse quella la magia del Natale?
Alla
fine Hinata era uscita in anticipo e anche gli altri avvocati
l’avevano imitata
poco dopo. Quel giorno il tempo era veramente pessimo, ma Gaara, prima
di poter
dichiarare concluso il suo lavoro, doveva assolutamente finire un giro
di
telefonate e mail, oltre a preparare il materiale da dover spedire
l’indomani.
Anche Itachi sembrava piuttosto indaffarato nelle sue scadenze
improrogabili,
tanto che i due si ritrovarono ad uscire assieme
dall’ufficio, forse gli ultimi
di tutto il palazzo.
“Che
programmi hai per la serata? O dovrei dire pomeriggio visto che sono
solo le
diciotto?” domandò Itachi mentre entravano
nell’ascensore. Mai nessuno usciva
tanto presto, ma quel giorno pareva tutto diverso, l’aria
prometteva neve e una
sottile elettricità pareva suggerire che sarebbe potuto
succedere qualsiasi
cosa prima che spuntasse di nuovo l’alba; una tempesta era
alle porte.
“Non
so, suppongo che andrò a casa. Niente di speciale,
tu?” chiese Gaara a sua
volta, fissando perplesso uno sticker con il faccione di babbo natale
attaccato
persino lì dentro, vicino alla pulsantiera. Hinata non aveva
davvero limiti,
era certo che fosse stata lei.
“Credo
che andrò a prendermi una cioccolata calda, è
veramente il tempo ideale e non
ho altri impegni – replicò guardando le sue
ciocche rosse sfavillare in quello
spazio ristretto sotto la luce artificiale – vuoi farmi
compagnia?”
Gaara
girò la testa di scatto, sorpreso da quella proposta
inaspettata. Si domandò
perché l’altro gliel’avesse fatta, non
avevano mai passato del tempo seduti,
rilassati a chiacchierare semplicemente del più e del meno.
Ogni tanto si
scambiavano qualche battuta o si ritagliavano un paio di minuti per
scambiare
due parole tra un lavoro e l’altro, ma nulla di
più.
“Sì,
mi farebbe piacere.”
La
risposta era uscita con naturalezza e fu lui il primo a rimanerne
sconcertato,
però non se la rimangiò, bensì lo
seguì fuori dall’ascensore e poi dal palazzo
mentre Itachi gli sorrideva e gli raccontava di un posto lì
vicino dove
facevano un’ottima cioccolata calda, la sua preferita in
effetti.
Non
nevicava ancora, le strade e i marciapiedi erano stati ripuliti dalla
nevicata
della mattinata, ma ogni altra cosa era ammantata di bianco e
l’aria era così
gelida che spingeva ad alzare i baveri dei cappotti e a camminare
velocemente
per togliersi di lì. Tuttavia non fecero che pochi passi
prima che Gaara si
sentisse afferrare per un braccio e, voltandosi irritato pronto a
inveire,
rimase invece sconcertato vedendo Kankuro.
“Dobbiamo
parlare” gli disse questi.
Gaara
aprì la bocca e la richiuse un paio di volte prima di
riuscire a emettere un
fiato, aveva l’impressione che tutto quel freddo avesse
creato un tappo di
ghiaccio invisibile che era stato difficile scalzare.
“Credo
che ci siamo già detti tutto” rispose infine, con
la sua solita voce pacata che
niente rivelava del suo turbamento interiore.
“No,
proprio per niente. Non te ne saresti dovuto andare a quel modo
l’ultima volta,
né bloccare il mio numero.”
A
quel punto Itachi non riuscì più a essere il
solito spettatore impassibile e si
fece avanti, preoccupato per quello sconosciuto che gli pareva un
po’ troppo
agitato. Si faceva infatti sempre più vicino a Gaara e non
pareva intenzionato
a lasciar andare la presa sul suo braccio, mentre lo fissava con uno
sguardo
acceso che proprio non piaceva a Itachi, come non gli piacevano
l’aria
scioccata e il pallore del segretario.
“E
tu saresti? Se Gaara non vuole parlarti avrà le sue
ragioni.”
Tentò
di essere conciliante, quando in realtà avrebbe solo voluto
prendere il collega
per mano e trascinarlo via da lì, ma non conosceva la
situazione e non voleva
tirare conclusioni affrettate, sebbene raramente il suo istinto lo
aveva
tradito.
“Lui
è…” iniziò a dire in effetti
Gaara, interrotto però bruscamente da Kankuro.
“Sono
suo fratello, chi sei tu piuttosto?”
“È
un mio collega – rispose Gaara, strattonando via il braccio
dalla presa
finalmente – e vedi di darti una calmata. Quello incazzato
dovrei essere io.”
I
due fratelli si fissarono in silenzio, Kankuro con
l’espressione più corrucciata
che mai e l’altro capì che non avrebbe rinunciato
tanto facilmente quella
volta.
“Itachi,
scusami. Sarà per una prossima volta, ok?”
L’Uchiha
si sentì tagliato fuori in modo definitivo e ineluttabile,
tuttavia non cedette
subito nemmeno di fronte all’evidenza e sondò
quegli occhi chiari; non gli
piacque vedere l’agitazione che giaceva celata.
“Sicuro
che sia tutto a posto?” Si era un po’ rilassato
nell’apprendere che quello non
era un amante rancoroso, bensì il fratello, però
giusto qualche ora prima aveva
anche sentito che non avevano un bel rapporto.
“Sì,
scusami ancora. Ci vediamo domani, buona serata”
tagliò corto Gaara, non
badando più ai sentimenti o alle preoccupazioni di Itachi.
Si incamminò nella
direzione opposta alla sua, stando ben attento a non sfiorare Kankuro,
né
voltandosi per vedere se lo stesse seguendo.
Con
gli occhi puntati a terra e le mani in tasca, camminò svelto
fino ad entrare in
un parchetto deserto; in fondo chi, sano di mente, ci si sarebbe mai
avventurato in una sera come quella? Le siepi, i prati, le panchine,
tutto era
ammantato di neve candida, persino alcuni sentieri non erano sgombri e
fu lì,
in quel luogo quasi irreale dove ogni suono era attutito dalla bianca
coltre
spessa, che Gaara si voltò a fronteggiare il fratello,
decisamente irritato.
“Si
può sapere che diavolo vuoi ancora da me?”
“Accidenti
Gaara, qui si gela e io sono stato un’ora ad aspettarti fuori
dal portone, non
possiamo andare in un locale?”
“No,
se vuoi parlare possiamo farlo anche qui.”
Non voleva essere circondato
da altra gente
come l’altra volta, perché temeva che stavolta la
loro discussione sarebbe
stata ancora più delicata. “Come hai fatto a
scoprire dove lavoro? No, aspetta non
dirmelo… l’investigatore privato. Posso dirti che
la cosa mi dà parecchio
fastidio?”
L’idea
che un estraneo frugasse tra le pagine della sua vita lo faceva sentire
violato, specialmente se poi il risultato era ritrovarsi
inaspettatamente di
nuovo faccia a faccia col fratello. Non erano bastate le mail con
Sasuke quel pomeriggio,
non c’era proprio pace per il ragazzo, e lui che si era
illuso di potersi
rilassare almeno un attimo assieme a Itachi! Povero sciocco.
“Scusami,
ma era l’unico modo di rintracciarti visto che non rispondevi
alle mie chiamate.”
“Forse
perché non volevo parlarti e non voglio ancora adesso, mi
hai costretto in
pratica!” tacque e serrò forte le labbra.
“Come
ti ho costretto a fare certe cose in passato, è questo che
vuoi dire?” ribatté
Kankuro, stringendo le mani a pugno. E a Gaara sembrò di
sentirselo in faccia
quel pugno, tale era stata la violenza delle sue parole.
“No,
no, aspetta… non mettermi in bocca cose che non ho mai
nemmeno pensato. Di
certo sei stato tu a infilarti nel mio letto e a incitarmi, ma io
l’ho sempre
fatto perché ti volevo bene, perché
pensavo… – gli morì la voce e non
riuscì a
continuare – Ma perché stiamo parlando ancora di
questa storia? Basta Kankuro,
basta” mormorò.
Il
fiato si congelava in bianche nuvolette davanti alla sua bocca prima di
dissolversi e lui voleva che succedesse la stessa cosa coi suoi
ricordi. Gli
sarebbe piaciuto se avessero potuto svanire e lasciarlo come un uomo
nuovo,
ripulito dalle colpe e dai peccati del passato. Ma Kankuro non aveva
intenzione
di lasciar stare, continuava ad aggrapparsi a quella discussione come
un cane
con l’osso, in un’ossessiva e dannosa ricerca di
una risposta.
“Ne
parlo perché dobbiamo chiarire, io pensavo che lo fosse,
invece tu l’altra
volta mi hai sbattuto giustamente in faccia le mie colpe e le
conseguenze delle
mie azioni sconsiderate – gli posò una mano sulla
spalla – cosa pensavi di noi Gaara?”
Il
ragazzo lo guardò con gli occhi chiari, ma non quanto la
neve che aveva
ricominciato a scendere dal cielo. Osservò i suoi lineamenti
da adulto
confrontandoli con quelli dell’adolescente che lo aveva
stretto tra le braccia,
la persona che era stata tutto il suo mondo, e vide che era diverso;
esattamente come diverse erano le sue convinzioni dalla
realtà.
“Pensavo
mi amassi, perché io ti amavo. Ti amavo e non
perché eri mio fratello, ma mi
sbagliavo a quanto pare.”
A
quel punto tenere nascosta la verità non sarebbe servito
più, doveva dirla ad
alta voce, ascoltarla e accettare il suo fallimento, che tutto il suo
mondo era
crollato miseramente e ciò che gli rimanevano in mano erano
solo cocci inutili.
Kankuro
esalò un respiro profondo, non era stato facile sentirsi
dire direttamente
quelle parole che aveva solo immaginato, ma le sue orecchie per quanto
gelate funzionavano
e avevano udito quella confessione dal sapore di una condanna.
“Mi
dispiace, io… è tutta colpa mia.”
“Perché
mi sei venuto a cercare, solo per avermi al tuo matrimonio, solo per
illuderti
di avere davvero una famiglia? Ma così hai spezzato la mia
di illusione, hai
reso inutili e vani tutti i miei sacrifici, fatti solo
perché ti amavo.” Gaara
non riuscì più a trattenere un singhiozzo,
parlare lo aveva lacerato, aveva
generato un maremoto di tristezza che stava rapidamente mutando in
rabbia,
perché lui non aveva mai chiesto niente di tutto
ciò, lui non aveva mai chiesto
nulla fin dal principio. “Nonostante tutte le
difficoltà ti pensavo e mi dicevo
di aver fatto la scelta giusta, ma tu con le tue parole
l’altra volta mi hai
fatto capire che è stato tutto inutile, le mie azioni quanto
i miei sentimenti
– gliela urlò addosso quella rabbia, incapace
ormai di contenersi – e ora vieni
qui e ti addossi la colpa giusto per lavarti la coscienza, ma non serve
a
niente. A me non serve! Non lo volevo, io non volevo più
niente da te!”
“Gaara
aspetta, possiamo rimediare, possiamo aggiustare ogni cosa
adesso…”
Kankuro
non riuscì a finire la frase perché Gaara lo
prese per il bavero del cappotto e
lo strattonò a sé, baciandolo. Posò le
labbra gelide sulle sue altrettanto
fredde e gliele leccò con la lingua umida e calda; gli diede
un vero e proprio
bacio come quelli che si scambiavano in passato, quelli che lui gli
aveva
insegnato a dare, solo che stavolta il fratello lo ricambiò
a malapena.
Gaara
lo lasciò andare e, fissandolo negli occhi sorpresi, disse:
“No,
non c’è niente da poter riparare, e questo
è il motivo. Non siamo una famiglia,
non siamo amanti, non siamo nemmeno amici; noi non siamo niente,
Kankuro, se
non due estranei che in passato hanno condiviso qualcosa che non
avrebbe mai
dovuto esserci tra due fratelli. Ora lasciami in pace, sposati, senti
pure tua
sorella, perché non hai altra famiglia all’infuori
di lei, io non esisto.”
Lo
lasciò andare e Kankuro mormorò solo un
“Gaara” soffocato tra i denti, ma non
lo fermò, lo osservò andare via, con i capelli
striati di bianco, le spalle
curve e la sua figura sottile si confuse con le ombre e la neve che
aveva
ripreso a scendere dal cielo. Lo osservò immobile
finché quel fratello perduto
non scomparve per sempre dalla sua vita, in modo definitivo, e di
ciò poteva
incolpare solo se stesso. Ma nessun biasimo o pena avrebbero mai potuto
riportare indietro quel ragazzo, quel fratello che era svanito tra la
neve.
Gaara
camminò senza nemmeno vedere dove stesse andando, non
c’era quasi nessuno per
strada che potesse vedere le sue guance striate dalle lacrime che
sembravano in
grado di cristallizzarsi e rimanere lì, eterne. Intravide
una cabina del
telefono e vi ci si infilò.
Il
telefono era fuori servizio, le pareti erano piene di scritte e
c’era anche un
vetro rotto, ma lui non notò niente di tutto questo. Si
lasciò cadere seduto piegando
le ginocchia, vi posò sopra la testa e pianse senza
limitarsi, senza soffocare
i singhiozzi che gli scuotevano il torace,
perché… perché era troppo. Aveva
giunto il suo limite, Kankuro aveva aggiunto l’ultima goccia
a un vaso già
colmo e pronto a straripare.
Maledisse
lui, l’investigatore che aveva fatto il suo lavoro, se stesso
per la propria
stupidità, per essersi cullato nell’illusione che
qualcuno lo avesse amato, di
valere qualcosa per qualcuno, che ci fosse ancora qualcosa di bello in
serbo
per lui. A cosa erano serviti i suoi sforzi? A che pro ammazzarsi
ancora di
lavoro e studio? Tanto era tutto inutile.
A
poco a poco si rese conto di riuscire a udire della musica in quella
piccola
cabina, c’era un locale lì vicino e stavano
suonando qualcosa dal vivo.
A
una ridicolmente piccola distanza c’era gente che stava
assieme, c’erano
risate, calore, amicizia, sentimenti dove invece lui era freddo e
vuoto… e
allora perché cantavano cose tanto tristi? Perché
non erano felici loro che
potevano? Che spreco…
I hear him calling
He sees all my sins
He reads my soul
Come
join the murder
Come
fly with black
We'll
give you freedom
From
the human trap
Come
join the murder
Sì,
Gaara
avrebbe voluto unirsi, avrebbe voluto davvero che lo liberassero dal
peso dei
suoi peccati, dalla trappola della vita da cui lui stesso non riusciva
a
districarsi; troppo codardo. Voleva essere libero e finalmente volare
come
quell’uccellino nero, anche se le sue piume sarebbero state
rosse per i capelli
e il sangue.
“Basta,
basta così” mormorò in una gelida e
squallida cabina abbandonata, dove nessuno
lo avrebbe mai udito, dove nessuno avrebbe mai asciugato le sue lacrime.
Come
fly with black
***
Sasuke si
guardava le mani, quasi affascinato. Era incredibile quante cose si
potessero
fare grazie a uno stupido pollice messo in una posizione diversa dalle
altre
dita. Si afferravano oggetti, si poteva cucinare, disegnare, dipingere,
carezzare, ma anche stringere un coltello e ferire, sebbene non fossero
sempre
necessari oggetti per fare del male, bastavano anche solo delle parole.
“Allora
Sasuke, di cosa mi vuoi parlare oggi?”
Lo
psicologo lo strappò dalle sue elucubrazioni e lui
alzò lo sguardo dalle
proprie mani curate, posate elegantemente in grembo.
“Non
lo
so, niente di particolare.”
Non era
la sua prima seduta, ma ogni volta iniziava allo stesso modo, con il
terapeuta
che doveva incitarlo e ricordargli di avere una lingua capace di
articolare
parole e frasi di senso compiuto. Sasuke si era ritrovato a
raccontargli più di
quanto avesse preventivato e la cosa non era stata poi così
difficile, una
volta superato il primo scoglio. Anzi, era stata quasi liberatoria,
peccato che
appena uscito da lì calzasse di nuovo la propria maschera e
vanificava il
lavoro fatto, come se non fosse veramente lui a partecipare a quelle
sedute,
bensì un altro se stesso, come era un altro quello a cui
piacevano gli uomini e
un altro ancora quello che sapeva fare l’architetto.
Il
problema era che si era perso tra tutti questi se stesso e non sapeva
più quale
fosse l’originale, il primo che aveva generato gli altri.
“Ti
piacciono le frittelle?” domandò l’uomo.
“Frittelle?
– domandò Sasuke perplesso – Che
c’entrano?”
“Niente,
ma è un argomento come un altro di cui parlare.”
Il
ragazzo sospirò, forse non si sarebbe mai abituato alle
uscite strambe
dell’uomo, tra i due sembrava lui quello pazzo.
“Quelle
salate sì, non mi piacciono i dolci” lo
assecondò, curioso di vedere fin dove
sarebbero arrivati.
“Proprio
per niente? Nemmeno da piccolo?”
“Da
piccolo sì, anzi ne mangiavo parecchi con mio fratello,
poi…” si interruppe,
assorto.
“Poi?”
“Poi
niente, non mi sono più piaciuti.”
“Così,
all’improvviso? C’è stata
un’indigestione, qualche cosa che ti ha dato
fastidio?”
“Che
c’è?
A una persona non possono all’improvviso stare sul cazzo i
dolci?” sbottò
Sasuke, irritato.
Li aveva
sempre adorati quei maledetti dolci e, ancora di più, quelle
rare volte in cui
sul divano con Itachi facevano sparire una scatola intera di biscotti.
Però un
giorno aveva sentito il padre rifiutare un dessert a una cena formale,
dicendo
che non era da uomini e in effetti Fugaku non ne mangiava mai. Aveva
notato che
anche il fratello se li concedeva quando lui non era in casa, quindi
aveva
concluso che in effetti era una cosa deprecabile per un uomo e aveva
iniziato a
rifiutarli, nonostante il desiderio.
Sognava
che suo padre se ne accorgesse e lo lodasse per la sua bravura,
perché era più
bravo di Itachi, nemmeno quando era solo a casa andava a cercarli nella
dispensa. Ma Fugaku non si era mai accorto di nulla, ovviamente, e lui
si era
ritrovato ad odiare le cose zuccherate, senza più ricordare
il motivo
originale, almeno fino a quel momento.
Osservò
irritato lo psicologo, sapendo che a lui non importava che gli
raccontasse i
ricordi che venivano a galla durante le sedute, quelle cose che Sasuke
aveva
sepolto profondamente dentro di sé. Per lui era sufficiente
che il ragazzo ne
prendesse coscienza.
“Ho
fatto
un sogno, vuole sentirlo?” propose per cambiare argomento e
per punzecchiarlo,
ovviamente.
“Perché
no?”
“Ma
come?
Non aveva denigrato Freud e le sue interpretazioni dei sogni,
definendole
anacronistiche e semplicistiche?” disse Sasuke non senza una
punta di
compiacimento, certo di averlo colto in fallo.
“E
non lo
nego – rispose l’uomo – infatti a me non
interessa il sogno, quanto l’effetto
che il sogno ha avuto su di te, il motivo per cui ti ha colpito e ti ha
spinto
a parlarmene.”
Sasuke
fece una smorfia, sentendo in bocca un gusto acre, quello della polvere
dopo
essere stato sbattuto in terra dal suo piedistallo. Aveva sempre
guardato tutti
dall’alto in basso, compiacendosi della propria
capacità di dare risposte
argute, dei suoi silenzi che sconcertavano gli interlocutori e della
superiorità che ne conseguiva, ma con quell’uomo
non funzionava nessuna delle
sue tattiche.
Sasuke
era consapevole di essere in guerra, peccato che lui fosse sia il
nemico da
distruggere che gli eroi che andavano in soccorso a baionette spianate.
Sarebbe
stato tutto più semplice se avesse deposto le armi,
sventolato bandiera bianca
e si fosse deciso ad aprire quella bocca solo per lasciare uscire i
pensieri
più profondi invece di battutine sarcastiche e frecciatine
inutili. Eppure
proprio non ci riusciva, non riusciva a darsi tregua e abbattere
così
facilmente le trincee in cui si era sempre riparato e protetto negli
anni.
“Ho
sognato di andare al cinema con Gaara” si risolse a dire
finalmente. Aveva già
accennato in altre sedute del ragazzo, così come della
propria omosessualità,
ma non aveva sviscerato nessuno dei due argomenti e lo psicologo non lo
aveva
forzato.
“Fammi
ricordare, quel Gaara che hai trattato di merda più di una
volta?” gli domandò.
“Ehi,
ma
non dovrebbe essere dalla mia parte?” protestò
Sasuke.
“Lo
sono,
ma oltre all’inutilità
dell’interpretazione dei sogni sono anche convinto del
bisogno di dire le cose come stanno, specialmente con te.
Quindi… cosa facevate
nel sogno?”
Sasuke
fece uno sbuffo a metà tra l’irritato e lo
scocciato e guardò fuori dalla
finestra un paio di minuti prima di parlare di nuovo.
“Andavamo
a vedere un film e basta, compravamo anche i pop-corn.”
“E
ti è
piaciuto andare al cinema con lui?” domandò lo
psicologo, cambiando il registro
della conversazione, adesso più calma e cauta.
“Sì”
ammise e quella semplice sillaba fece fatica a uscire fuori, pareva
volersi
aggrappare a tutti i costi a qualche sporgenza, forse alla trachea,
all’ugola o
ai denti, a qualsiasi cosa pur di impedirgli di pronunciarla.
“Sì, mi è
piaciuto. Eravamo tranquilli e ci siamo divertiti.”
“Lo
hai
più visto o sentito nella realtà?”
“Per
mail, mi occupo di un progetto per conto dello studio in cui lavora.
Dopo… dopo
l’ultima volta ci siamo sentiti unicamente per mail per
discutere del progetto,
nient’altro.”
“E
perché?” domandò lo psicologo e Sasuke
pensò che fosse proprio scemo.
“Ma
come
perché? Secondo lei come diavolo faccio a parlargli dopo
quanto è successo?”
“Prendere
il telefono e fare il suo numero è un inizio. Non mi hai
raccontato bene cos’è
successo tra voi, ma se senti di aver sbagliato qualcosa puoi scusarti
e
ripartire da lì. O magari lui ti chiuderà la
chiamata in faccia; è un’opzione –
ammise giocherellando con un bottone del maglione – ma se non
ci provi, come
fai a sapere qual è quella giusta?”
Sasuke
rimase interdetto e si chinò per poggiare gli avambracci
sulle ginocchia,
riflettendo.
“Non
è
così semplice ammettere di avere sbagliato.”
“Mai
detto che lo fosse, infatti. E non devi farlo se non te la senti,
semplicemente
tieni presente che è un’opzione, non devi
scartarla per forza a priori come fai
sempre.”
Sasuke
fece un respiro profondo, un po’ più sollevato
perché l’uomo non lo costringeva
a fare nulla, solo a pensare che fosse possibile cambiare le proprie
abitudini,
uscire dal seminario in cui si era confinato. C’era sempre
un’alternativa,
doveva solo imparare a vederla.
“Ci
penserò” rispose semplicemente.
“Bene,
Sasuke e ora dimmi, a che punto sei coi regali di Natale? Io devo
ancora
farli!”
“Cosa?
–
esclamò stupito – Ma mancano solo pochi
giorni!” Lui li aveva pronti da
settimane, accuratamente ricercati, pensati e impacchettati in attesa
di essere
consegnati. Non avrebbe mai affrontato il caos degli ultimi giorni, tra
gente
che pareva pazza e si accaparrava qualsiasi cosa pur di non presentarsi
a mani
vuote, quando invece sarebbe stata la cosa migliore invece di elargire
regali
inadatti e tristi.
“Forse
sono un po’ masochista” ridacchiò
l’uomo.
“No,
è
pazzo. Lei è pazzo” sospirò Sasuke
guardando il soffitto, però poi guardò di
nuovo lui e gli sorrise. Semplicemente perché gli andava di
farlo.
L’angolino
oscuro:
Scrivere questo capitolo mi ha quasi ucciso,
mentre descrivevo Gaara e la sua disperazione stavo male per lui,
eppure non
riuscivo a smettere, volevo sviscerare quel momento, il suo rapporto
assurdo
con Kankuro, il crollo delle sue convinzioni e fino a che punto un
animo umano
può reggere. Immagino di aver trovato una risposta, quel Come join the murder della canzone non
si riferisce ad un
assassinio generico, e il desiderio di Gaara di essere libero
è molto chiaro. La canzone è questa, ascoltatela Come Join
The Murder - The White Buffalo & The Forest Rangers
Stavolta
la chiudo qui perché, davvero, non sono in grado di
aggiungere molto altro a
parte che in contrasto con la scena disperata di prima è
stato bello descrivere
questo Sasuke che inizia a muovere i primi passi e ad aprirsi.
Alla
prossima.