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Autore: Gagiord    18/10/2017    2 recensioni
Il ragazzo s’illuminò, vedendo che mancava solo un pezzo, quello al centro; presto, però, l’espressione gioiosa tramutò in un cipiglio indispettito: l’ultimo pezzo non combaciava. E allora cosa avrebbe dovuto fare?
E, quando, invece, ormai l'unico appiglio alla vita sta cadendo a pezzi, cosa si dovrebbe fare?
«Tu non ti preoccupare» lo rassicurò, arruffandogli i capelli nerissimi, «suona e basta.»
{ musician!AU | tanto angst | KageHina | IwaOi }
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Questo capitolo è dedicato alla Lady, che mi supporta sempre in qualsiasi cosa, ma stavolta per un motivo particolare.

Spero che ti piaccia <3





Ⅳ Capitolo




Tokyo, 20 luglio 2016, 13:56


La luce del salone era sempre e comunque spenta, a differenza di quella della cucine, che si trovava anche al piano terra. Ormai aveva imparato a non porre più domande e a muoversi in quella sala immensa.

Shouyou si asciugò le mani su un panno di spugna rosso stinto, sospirando. «Kageyama, ho finito!» gridò tentando di farsi sentire dall’altro, che invece suonava al piano di sopra.

La musica del violino cessò come venne sovrastata dalla quella vocetta acuta.

«E allora sali, idiota!»

Sorrise e si slacciò il grembiule dietro il collo. «Arrivo!»

Non portava più il bentou da casa da quando, circa una settimana prima, lo aveva dimenticato. Tobio, di malavoglia, si era trovato costretto a cucinare anche per lui; peccato che fosse un totale disastro e Shouyou non si era fatto problemi a farglielo notare.

Lo aveva dimenticato anche il giorno successivo, e anche il giorno successivo ancora; allora il violinista gli aveva detto che poteva preparare ciò che voleva anche a casa sua. In un primo momento, aveva pensato che avesse voluto avvelenare gli ingredienti ‒ il che, dopotutto, non era troppo lontano dal suo modo di fare.

Tobio si era reso conto solo dopo di ciò che aveva compiuto, come sempre. Aveva sbattuto la testa al muro, quella sera: era colpa di quello stupido cervello che aveva mandato l’ordine alla sua bocca di parlare. Era per caso colpa di quello stupido cervello se si stava preoccupando per Shouyou? Non lo sapeva e non era sicuro di volerlo sapere. Perché sì, dopo il permesso di fare come se fosse stato a casa sua era risultato ovvio persino a lui che si stava preoccupando.

D’altronde, non era così poco intelligente. Aveva largamente compreso che Shouyou aveva problemi familiari: l’unico argomento su cui non aveva mai raccontato nulla era proprio la sua famiglia, al di fuori di sua sorella. Per non parlare della storia del pianoforte. Costava indubbiamente tanto, non lo poteva negare, ma dei genitori avrebbero fatto di tutto pur di accontentare il proprio figlio in una pratica così bella. Anche tutto, però, aveva dei limiti.

Lo spaventava più che altro il fatto che avesse tenuto in considerazione quella questione e che avesse ‒ inconsapevolmente ‒ cercato di alleggerire Shouyou di un peso che, lo sapeva, era in grado far cadere più volte.

Lo spaventava ancor più la possibilità di starsi affezionando a qualcuno. E se prima era relativamente facile smettere di pensarci ‒ tanto ci era abituato, cosa cambiava? ‒, ora non c’era una singola cosa che non gli ricordasse lo strambo ragazzo. Da quando mangiava riso con l’uovo, quello con cui l’altro voleva sempre pranzare, a quando suonava.

L’unica soluzione efficace era rimuginare su qualcosa che gli premeva di più, anche se faceva male.

Saltò un libro che stava davanti alla porta della camera di Tobio e spalancò la porta. «Eccomi!»

«Sei lento» non mancò di osservare il quindicenne che gli dava la schiena, chinato sul letto.

«Come mai prima stavi suonando Bach?» Saltellò un po’ per la stanza, evitando gli oggetti per terra come ormai era solito fare, per vedere cosa stesse combinando.

Chiuse la cerniera della custodia. «Prendi le tue cose. Andiamo a suonare fuori.»

Shouyou sgranò gli occhi, attonito, e si accigliò. «Scusa?»

«Sbrigati! Il taxi dovrebbe essere già giù.» Si mise la borsa in spalla e s’incamminò verso il corridoio.

Fece vagare lo sguardo per tutta l’area con atteggiamento concitato, fino a scorgere il suo cellulare che spiccava sulla scrivania chiara. Lo afferrò al volo e, sebbene non fosse a conoscenza delle sue intenzioni, lo seguì comunque.

«Kageyama!» esclamò mentre provava a non cadere per le scale. «Dove diamine stiamo andando?»

«All’aeroporto Haneda, dato che lì c’è un pianoforte e anche un bel po’ di gente» rispose annoiato, cercando nella tasca posteriore dei bermuda il mazzetto di chiavi.

Il rosso frenò improvvisamente proprio agli ultimi gradini, letteralmente impietrito. «E tu me lo dici così?» s’infuriò, la nocche sbiancate sul corrimano di legno. «Dovremmo suonare in mezzo a uno degli aeroporti più popolati del mondo?»

Tobio si strinse nelle spalle allo stesso modo di chi lo frequenta per hobby, per poi addentrarsi nell’oscurità del salone.

«Ma poi perché?» riprese a lamentarsi, raggiungendolo.

«Perché devi abituarti a suonare in pubblico, o ai concorsi andrai nel panico esattamente come ora.»

«Non sono nel panico, sono solo sorpreso!»

«Ne riparleremo quando ti riprenderai dalla sorpresa.»

Shouyou sbuffò, ma dovette abbandonare l’argomento e concentrarsi per non inciampare da nessuna parte. Nonostante percorresse quei pochi metri spessissimo, gli era ancora necessario prestare attenzione a non pestare niente e a non sbattere contro nessun mobile.

Non passò neanche un minuto, ma loro lo vissero come una vita intera: al di fuori di quella casa, nessuno li conosceva. La porta grande e massiccia lli aveva sempre protetti e, al tempo stesso, privati delle critiche degli altri: era impossibile crescere da soli, senza che qualcuno comunicasse loro in che aspetto migliorare, in quale rivedere le proprie convinzioni assolute. E mentre questa visione loro la limitavano al mondo della musica, nulla impediva che si potesse estendere anche a quello della vita.


Aeroporto di Tokyo, 20 luglio 2016, 14:42


Dopo aver ringraziato e salutato l’autista, entrambi scesero dall’autovettura bianca.

Shouyou diede una lieve spinta alla portiera, che si chiuse a stento. Deglutì un groppo in gola che aveva sentito formarsi mentre avevano iniziato a muoversi, e avanzò a testa bassa fino ad affiancare l’altro ragazzo.

Tobio gli rivolse un’occhiata perplessa. «Ohi, non mi dire che te la stai facendo sotto.»

Il pianista strinse i denti per istinto. «C’era davvero bisogno di un taxi?»

«Dato che volevamo arrivare in poco tempo, sì» chiarì, spiazzato per l’assenza di proteste.

«Quanto hai pagato?» mormorò con lo sguardo puntato a terra.

Il taxi ripartì e loro restarono fermi in mezzo al parcheggio esterno.

Lo scrutò attentamente per qualche secondo, per capire che sentimenti stesse provando: rabbia, senso di colpa, vergogna? Non ci riuscì, perciò si avviò verso le porte scorrevoli dell’ingresso, dando per scontato che l’altro lo seguisse. Aveva capito, però, cosa aveva causato quelle emozioni.

«Rispondimi, Kageyama!» Voleva avere una voce sicura, e invece andò tremendamente vicina al tremolante. Tuttavia, non si mosse e alzò il capo per guardare direttamente il ragazzo.

Continuò a camminare e non si girò né lo degnò di un’occhiata. «Non ti preoccupare.»

Smarrito dal tono candido, quasi gentile, del corvino, tutto il disagio e l’imminente pianto gli scivolarono di dosso come acqua. Corse al suo fianco e si ostinò a tenere su di lui i suoi occhi, ancora incredulo.

Tobio odiava sentirsi osservato in quel modo, quasi gli stesse facendo una radiografia, e da quelle iridi che per i suoi gusti erano troppo grandi.

Shouyou non fece più domande. Si limitò a torturarsi l’interno delle guance e le pellicine sulle dita. Non smise mai di occhieggiare Tobio che, come lui, pareva star vivendo un dissidio interiore.

I motivi, ovviamente, non erano gli stessi.


Appena avvistò un enorme pianoforte a coda nero, lucidissimo, gli brillò lo sguardo e, nonostante ciò che era accaduto precedentemente, sorrise. Avvertì il petto gonfiarsi di meraviglia, poi si rivolse a Tobio: «Come facevi a sapere dov’era?»

Gli lanciò un’occhiata fuggevole, ma non era né di disprezzo né di irritazione. «Sono venuto tante volte in questo aeroporto» spiegò vago, alzando le spalle.

«Davvero? Hai mai preso un aereo?» chiese con stupore.

Il quindicenne sbatté le palpebre, non comprendendo tutta quella agitazione. «Sì…?» farfugliò, come se fosse ovvio.

«E com’è?»

«Tremendo» ammise con una smorfia. Gli venne in mente il volo che aveva preso insieme a suo padre, qualche anno prima, per l’Inghilterra, l’aria pesante, le orecchie perennemente tappate e le gambe che gli formicolavano per la posizione scomoda. Erano state dodici ore atroci.

Il volto del più basso si contrasse in un cipiglio deluso.

Tobio si bloccò e Shouyou, che stava dietro di lui, gli finì quasi addosso. A circa un metro da loro, il piano si estendeva nella sua elegante imponenza, strabiliando la gente anche più lontana.

«Dovremmo suonare qui?» sussurrò il pianista in seguito a un silenzio concorde. Girò attorno allo strumento, notando finalmente lo sgabello.

Quasi lo intimoriva. Si era sempre seduto davanti a pianoforti relativamente piccoli e si era illuso di poterli domare. Adesso, invece, provava l’ansia e l’adrenalina scorrergli nelle vene, allo stesso modo di un uomo rinchiuso in una gabbia insieme a un leone affamato.

«Sì.»

Tobio appariva così sicuro, stabile. Per un momento lo invidiò per il sangue freddo che stava ostentando: se anche era nervoso, lo celava perfettamente.

«Hinata,» proferì piano, artigliandolo per un braccio e avvicinandolo a sé, «sta’ calmo e non ti agitare. Fa’ come se fossimo a casa.»

Lo aveva detto con tono deciso ma non brusco; ancora lontano, tuttavia, dall’essere rassicurante.

Avrebbe voluto ribattere che non erano a casa, che tutte quelle persone li avrebbero ascoltati, studiati e criticati comunque, che non era possibile stare calmi. Il violinista, però, lo lasciò e si abbassò fino ad adagiare la borsa sul pavimento liscio, per poi procedere a schiudere la zip.

Shouyou si abbandonò sullo sgabello, il cuore che sembrava volergli sfondare lo sterno. Fissando insistentemente il colore scuro e lucente della cassa armonica, sollevò con lentezza e accortezza il coperchio. Espirò dal naso e chiuse gli occhi, tentando di raccogliere più concentrazione possibile. Percepiva già decine di sguardi confusi e basiti su di lui.

«Hinata» lo avvertì sommessamente, poiché la gente stava già iniziando ad adunarsi intorno a loro.

Gli gettò un’occhiata, scorgendolo alla sua destra e incontrando i suoi occhi: li avrebbe riconosciuti ovunque, soprattutto in quei momenti, in cui il ghiaccio si scioglieva per dar vita a un mare in tempesta. Lo vide portare il violino vicino al mento e, quando toccò la clavicola, cominciò a contare.

Un.

La prima volta era stata magica: sembrava davvero che ne fossero stati in grado grazie alla magia.

Due.

La seconda era stata un disastro e non erano nemmeno arrivati alla seconda pagina della partitura. Si erano arresi? Naturalmente no.

Tre.

Alla terza era stato palese che Shouyou fosse completamente fuso: aveva esordito con Cantabile, il brano di Paganini.

Quattro.

La quarta, qualche ora dopo, era stata mediocre: piena di errori di dinamica per la paura di scoordinarsi. Erano andati avanti a questo modo, come se la prima volta non fosse neppure esistita; se così fosse stato, però, loro non avrebbero saputo che potevano arrivarci, alla vetta. Dovevano solo fare più pratica.

Un.

Erano riusciti ad eliminare la maggior parte degli errori di dinamica soltanto dopo una settimana di lavoro portato quasi agli estremi. In quel momento, Shouyou aveva finalmente assistito alla parte più tenera, infantile di Tobio: aveva urlato, ma non contro qualcuno. Aveva urlato perché ne aveva sentito il bisogno, per dire a chiunque lo avesse udito che ce l’aveva fatta.

Due.

Non avevano potuto distinguere neanche col binocolo la stessa correttezza ed emotività per almeno le cento occasioni seguenti. C’era sempre qualcosa che non erano capaci di correggere, anche minima: il problema ‒ o la fortuna ‒ era che entrambi si imponevano di dare il meglio di sé, di ricercare la perfezione.

Tre.

Shouyou si era accorto piuttosto tardi che ciò che tentavano di fare da giorni consisteva in qualcosa di assurdamente complesso. Tobio era obbligato a volgere tutta la sua attenzione ai suoi stessi movimenti: appena il suo violino gli toccava la spalla, lui doveva iniziare a contare in una maniera a cui non era abituato. Inoltre, era fondamentale riporre in Shouyou tutta la sua fiducia; ma non era abituato neanche a questo. In generale, non era abituato a fidarsi di chiunque.

Se voleva vincere, però, doveva imparare.

Quattro.

Con tutta la forza di volontà che manifestavano arrivavano a fare quasi tutto, anche le cose che sarebbero potute apparire impossibili, e lo dimostrarono in quel momento.

Fu come la prima volta: magico.

D’un tratto, la pesantezza degli occhi della gente sparì, così come tutto ciò che li circondava: rimasero solo Shouyou e Tobio, il pianoforte e il violino.

Nemmeno gli annunci agli altoparlanti potevano distrarli: erano solo suoni robotici, distanti. A loro non interessavano, perché in quel momento esisteva la musica e basta, per quanto effimera e inafferabile fosse. Sembrava che stessero dentro a un castello costruito con delle carte, uno di quelli che i bambini si divertono a creare ma che poi è destinato a cedere, in un modo o nell’altro. Bastava un soffio, un dito a sfiorare una singola carta, e allora tutto cadeva sopra di loro. Forse era possibile rallentare il tempo, restare ancora un po’ così, nella propria immobilità serafica e talmente pericolosa da renderla ancora più elettrizzante. Forse era possibile resistere, sostenere il castello affinché non collassasse.

Il soffio, la mano sbadata arrivarono prima del previsto.

«Mamma, mamma! Cosa stanno suonando?»

E allora l’aria intorno a Shouyou tornò a farsi opprimente, con tutti gli sguardi e il dito puntato su di loro. Non sapeva se li stessero giudicando negativamente, ma era comunque una distrazione; e per lui, essere distratto era la peggiore delle possibilità che potessero presentarsi.

E se avesse sbagliato? Tobio lo avrebbe abbandonato perché non era stato in grado di suonare in pubblico? No, del resto era invischiato anche lui in quella faccenda e desiderava con tutto se stesso partecipare al torneo. Però mancava ancora tanto tempo ai nazionali, e loro non avevano scelto il brano… Magari a quel punto lo avrebbe sul serio lasciato per trovare un pianista più competente. E poi, era davvero concesso dalle regole?

Anche la troppa energia esercitata dall’interno avrebbe saputo rovesciare il loro castello: non sempre erano il soffio o il dito esterni a rovinare ciò che si era costruito in tanto tempo.

Sotto quelle carte stavano in due, benché lo spazio fosse troppo ridotto; dovevano avvicinarsi sempre di più, conoscersi in tutto e per tutto. Tuttavia, Shouyou non conosceva quasi nulla di Tobio e Tobio voleva credere che gliene importasse ancora poco di Shouyou.

La fiducia non in tutti i casi si rivelava sufficiente. In quel caso serviva da base, ma le mura non si potevano fabbricare da sole.

La mano gli tremò a tal punto da fargli saltare una nota di un accordo: fu allora che andò nel panico. Le mani tremolanti faticavano ad arrancare dietro al suono raffinato e prestante del violino. Strinse le labbra e, dai movimenti fluidi in cui si era trascinato finora, passò a una sgradevole rigidità.

Tobio lo guardò allarmato da sopra la spalla, ma non si arrestò.

Perché tutti i castelli di carte sono destinati a cedere, in un modo o nell’altro. Ciò, però, non impediva loro di ricostruirne un altro.


Aeroporto di Tokyo, 20 luglio 2016, 15:03


«Ora mi spieghi perché.»

Shouyou abbassò lo sguardo, sotto pressione: probabilmente non gli avrebbe più permesso di mettere piede in casa sua, né di suonare insieme a lui nel torneo.

«Quella bambina ti ha deconcentrato? Te la sei davvero fatta sotto davanti a tutta quella gente?» Mosse un altro passo, ritrovandosi il sedicenne giusto a qualche centimetro da sé.

Gli indirizzò un’occhiata, rendendosi conto che l’espressione di Tobio era, sì, irata, ma non sembrava sul punto di picchiarlo ‒ non sul serio, almeno. Era sincero riguardo al voler capire il perché di quell’impazzimento.

«Rispondimi, deficiente!» Gli picchiettò l’indice sulla fronte pallida. «Dobbiamo tornare a casa, non ho intenzione di stare tutto il giorno qua!»

In realtà non gli sarebbe dispiaciuto troppo stare lì per un poco: su quel terrazzo tirava un gradevole vento fresco che emanava un senso di pace e benessere. Per loro fortuna, quello era un giorno feriale e, nonostante le terrazze dell’aeroporto Haneda vantassero di grande fama e un esorbitante numero di visitatori, non era neppure troppo popolata. Si trovavano in un angolo colmo di vasi con fiori di tutti i colori e le finestre che davano sull’interno a qualche metro da loro.

Il rosso mostrò un cipiglio confuso e alzò lo gli occhi su quelli del violinista. «Suoneremo ancora insieme?» bisbigliò, più rivolto a se stesso che all’altro. «Non vuoi cercare un altro accompagnatore?»

I suoi lineamenti si deformarono in una smorfia indignata, quasi avesse appena attentato alla sua intelligenza. «Sei proprio duro, allora» sbuffò, afferrando la custodia del violino che aveva adagiato contro il muretto grigio dopo aver trascinato Shouyou in quel luogo. «Non ho speso tutto questo tempo per nulla e non posso dire al primo che passa di partecipare a un torneo con me.» Prese a passeggiare verso l’ingresso a passo rilassato.

Il pianista corse davanti a lui e camminò all’indietro, incurante di poter colpire qualcuno. «Ma ti ho fatto fare una figuraccia davanti a un sacco di persone!» esclamò gesticolando. «Ho rovinato tutta l’esibizione!»

La bocca di Tobio, se possibile, si storse ancora di più. «Sei tu che hai fatto schifo, non io» rettificò, facendolo curvare verso destra con poco garbo. «E suono con te anche sapendo che sei una schiappa.» Lo spinse più forte. «Quindi muoviti, ché se fai così anche al concorso ti uccido!»


Tokyo, 25 luglio 2016, 10:31


Il trillo del campanello giunse lievemente attutito in bagno.

«Ma che cazzo...»

Si tirò su i pantaloncini frettolosamente, e nel processo il portascopino si rovesciò, lasciando fluire fuori l’acqua.

«Merda!»

Ancora con la cerniera dei bermuda aperta, si precipitò nella veranda, dove teneva scope e stracci usurati. Dopo aver riempito il secchio di acqua e averci versato dentro del detersivo per pavimenti, vi inzuppò il panno e lo strizzò. Si affrettò nuovamente al bagno dalle mattonelle azzurre, brandendo il bastone come se fosse una lancia, con le gocce d’acqua che cadevano dietro di lui e segnavano il suo percorso.

Dopo aver rimesso a posto il portascopino, iniziò a pulire e si dimenticò totalmente di avere qualcuno ad aspettarlo alla porta. Almeno finché quel qualcuno glielo ricordò in modo assordante e fastidioso.

Finì di fretta in furia di pulire, borbottando imprecazioni, per poi riportare lo straccio in veranda e scendere per le scale.

Saltellando tra i libri di cui ormai conosceva esattamente la posizione ‒ non li spostava da mesi, dopotutto ‒, arrivò all’entrata e l’aprì con veemenza.

Poteva essere solo lui, ovvio.

«Ma perché ci sei stato così tanto, Kageyama?» allungò le vocali del suo nome come in una cantilena. S’introfulò di sua spontanea volontà, cominciando a vagare per il salone.

Tobio lo raggiunse e gli prese il capo con una mano, stringendolo. «È sempre colpa tua, imbecille.» Lo usò come appoggio e lo superò impettito.

«Che ho fatto ora?» Massaggiandosi la nuca, si mise al suo passo e salì sul primo gradino delle scale per il secondo piano.

«Sei venuto» bofonchiò il più alto.

«Mi hai detto tu di venire ogni giorno alle dieci e mezza!» protestò Shouyou offeso.

Lo freddò con un’occhiataccia. «Ma non mentre sono in bagno, idiota.»

«E io mica posso sapere quando sei in bagno o no...»

«E allora fai in in modo di saperlo prima di rompere!»

«Blablabla» lo scimmiottò, le labbra ancora arricciate. «Ci hai messo comunque un sacco e non è colpa mia.»

Scavalcò gli ultimi due scalini in un sol movimento e, dopo avergli lanciato uno sguardo eloquente, prese a correre verso la sua stanza.

Il sedicenne stette fermo per un secondo, disorientato, ma subito dopo lo seguì seppure fosse indietro.

Quando piombò nella camera, trovò Tobio che lo guardava dall’alto in basso con un ghigno beffardo. Si raddrizzò e, fatto qualche passo, si mise a sedere sullo sgabello davanti al pianoforte, leggermente ansante.

«Hai barato, non è giusto.» S’immusonì nuovamente.

«Ma perché ci sei stato così tanto, Hinata?» lo imitò, ancora con quel sorrisetto schernitore che Shouyou gli avrebbe voluto togliere con tutto se stesso.

Sbuffò, voltandosi. «Antipatico come sempre» si lamentò.

«Lento come sempre» rispose a tono, girandosi anche lui anche se per prendere il violino.

«Comunque» riprese circa un minuto dopo, con tono annoiato e apparentemente disinteressato, «da oggi ti metterò le chiavi sul davanzale della finestra, quella a destra della porta.»

Sbatté le palpebre un paio di volte. «E non ti spaventi?»

«Ovviamente le nascondo, stupido.» Pizzicò una corda con l’archetto per verificare che la quantità di colofonia che aveva usato fosse sufficiente. «E poi c’è sempre Hirashi-san a controllare chi entra nel residence.»

Il pianista lo guardò mentre armeggiava con il suo strumento. «Significa che potrò venire qua quando vorrò» rifletté, poggiando il gomito sulla coscia mentre si sosteneva il mento sul palmo.

Tobio lo fulminò con lo sguardo. «Guai a te se mi rompi alle due di notte solo perché non riesci a dormire o cose simili.»

Ridacchiò come se farlo davvero lo avrebbe divertito. «No, intendevo...» Fissò i suoi occhi d’ambra in quelli blu notte dell’altro e sorrise allo stesso modo di chi sorride nel vedere delle tenere sciocchezze compiute da un bambino. «Ti devi fidare tanto di me se mi dai la possibilità di entrare a mio piacimento.»

Sentì il cuore saltargli in gola e le guance riscaldarsi, e strinse la bocca nell’inutile tentativo di far cessare quello strano tepore che si stava espandendo nel petto. «Che cavolate...» Volse la testa di lato imbarazzato. «È che sei troppo stupido per fare qualcosa di cattivo» masticò stentatamente.

Allargò il sorriso, quasi non avesse udito l’ultimo insulto. Si mise in piedi e immediatamente si buttò di schiena sul letto, vicino alla custodia del violino. «Ormai ti conosco, Kageyama-kun!»


Tokyo, 28 luglio 2016, 17:16


Si passò una mano sulla fronte grondante, mentre con l’altra continuava a strofinare il panno bianco sulla cassa armonica del pianoforte. Lo aveva chiesto tempo fa a Tobio e lui, in seguito a una lunga occhiata, non aveva obiettato. Pulirlo lo faceva diventare un po’ più suo, lo aiutava a conoscere ogni dettaglio e a entrarvi in sintonia.

Sentì il cigolio delle doghe dietro di lui e si girò, ancora piegato sulla tastiera.

«Sei tornato...» osservò a bassa voce, tornando a spolverare e lucidare il piano. «Con chi parlavi?»

«Con mio zio.» Versò qualche goccia su un pezzo di stoffa blu e prese anche lui a sfregarlo sul suo strumento. «Domenica suoneremo per la sua scuola» aggiunse poi, calmissimo.

Shouyou trasalì e si voltò di scatto verso il corvino, strabuzzando gli occhi e mettendosi diritto. «La sua scuola?» s’informò stupito.

Il quindicenne annuì, non distogliendo l’attenzione dal violino. «È il fratello di mia madre. Porta avanti una scuola privata da un po’ di anni… Diciamo che dalla parte materna sono quasi tutti musicisti.» Parlò sempre con quel tono distaccato, freddo, come se non stesse raccontando della sua famiglia ma di qualche estraneo.

«E perché dovremmo andare a suonare noi in una scuola privata?» Storse le labbra, perplesso. «L’unica cosa buona è che non me l’hai detto all’ultimo minuto come sempre...»

Se doveva essere onesto, sì, avrebbe detto di avere decisamente qualcosa contro le istituzioni private ‒ a parte il liceo e le scuole medie, dato che nel loro paese era impossibile trovare una scuola pubblica vicino casa che impartisse una formazione decente. Durante i suoi primi anni alle elementari aveva desiderato come non mai seguire un qualsiasi corso, che fosse di sport o di musica. D’altronde, se i suoi compagni potevano seguirli, perché lui non poteva fare lo stesso?

Ora, invece, andava estremamente fiero del suo essere autodidatta, del sudore e dell’impegno che ci aveva buttato, poiché se ora si trovava lì lo doveva soltanto a se stesso ‒ e in parte a Tobio, ma non avrebbe ringraziato quell’antipatico più del dovuto.

Scrollò le spalle. «L’avevo chiamato ieri sera per chiedergli se ci fosse qualche possibilità di suonare in pubblico, e oggi mi ha detto che ha tenuto occupato un posto verso l’inizio dell’esibizione per gli ospiti.» Lo fissò intensamente, smettendo di dedicarsi al suo violino. «Non dobbiamo pagare nulla. Durerà pochi minuti, ce ne andremo subito dopo e non ci sarà nessuna premiazione, quindi non andare nel panico. Capito, stupido?»

Shouyou calò lo sguardo sul marmo riscaldato dal sole del pomeriggio. «Sarò nervoso...»

«È normale essere nervosi» ribatté Tobio con nonchalance, ponendo il panno blu e il detergente sul comodino accanto alla testiera del letto. «Se non lo sei vuol dire che non te ne frega niente.»

Il ragazzo dei capelli rossi lo osservò. Era tranquillo e lo era stato anche prima di intervenire nell’aeroporto. Strano: non si sforzava nemmeno per infuriarsi così spesso e a mostrarlo, tuttavia nel momento in cui sarebbe potuto apparire debole agli occhi degli altri, tratteneva tutto dentro. Preferiva risolvere i problemi da sé, non accogliendo il sostegno di nessuno.

Gli rivolse un sorriso dolce, come se gli avesse confessato una sua preoccupazione. «Facciamolo, Kageyama!» lo sfidò allungando un braccio verso di lui, il pugno serrato.

Il violinista batté le ciglia scure un paio di volte, sbigottito. Qualche istante dopo, tese anch’egli l’arto con esitazione e chiuse la mano.

Benché in modo inavvertibile, un sorriso sghembo era apparso a rilassargli i lineamenti.


Tokyo, 31 luglio 2016, 9:46


Espirò piano dalla bocca, appoggiando la testa al muro e calando le palpebre. Continuò a respirare in modo lento, quasi simulato, provando a placare il cuore che gli batteva impazzito nel petto.

«Tutto bene?»

Il timbro lo riconobbe subito, ma non era squillante come sempre. Gli parve più basso, un po’ tremolante. Aveva ragione: era teso.

Schiuse pigramente un occhio. «Lo faccio sempre prima di esibirmi.»

Shouyou gli sedette a fianco, alzandosi la giacca nera e gessata che gli stava lievemente lunga. «Perché?»

Il violinista lo richiuse. «Perché mi aiuta a calmarmi.»

Annuì debolmente, volgendo il capo verso il muro opposto del corridoio. Alla loro destra c’erano alcuni assistenti che chiamavano i partecipanti, mentre questi ultimi erano rinchiusi nei propri camerini.

Naturalmente, loro due non ne avevano: era solo due ospiti che in pochi, là fuori sugli spalti, conoscevano. Siccome era un saggio che determinava la sospensione dei corsi fino all’inizio dell’autunno, la maggior parte delle persone riunite erano parenti degli alunni stessi. Magari, chi faceva già parte del mondo della musica era a conoscenza del talento che Tobio incarnava, ma Shouyou era un completo sconosciuto a tutti.

Quella poteva essere anche una fortuna: non doveva soddisfare nessuna aspettativa. Essere un prodigio, forse, portava con sé un fardello non indifferente.

Ogni brano eseguito male rappresentava una sconfitta, anche in un evento privo di antagonismo. E loro non avevano alcuna intenzione di perdere.

«Tobio Kageyama-san» gli occhi dell’uomo guizzarono di nuovo sul foglio di carta che teneva in mano, «Shouyou Hinata-san, è il vostro turno.»

Il rosso lo guardò profondamente; ormai, tuttavia, non gli dava più troppo fastidio. Prese il violino appoggiato alle sue gambe piegate e, facendo poco gentilmente leva sulla spalla dell’altro, fu dritto sui piedi, per poi procedere in silenzio sino all’entrata del palco. Prima di addentrarsi nell’oscurità, però, si voltò: Shouyou stava salendo sull’ultimo scalino, a poco meno da un metro da lui.

Sollevò lo sguardo sul violinista. «Che vuoi?» borbottò ancora imbronciato per lo sfruttamento della sua spalla.

Tobio non rispose finché non mise piede sulle travi di legno scuro dell’impalcatura, emulato all’istante dal sedicenne.

Gli lanciò un’occhiata penetrante. «Fa’ del tuo meglio, idiota.»


Tokyo, 31 luglio 2016, 9:54


Abbassò il violino e la prima cosa che fece fu volgersi alla sua sinistra. Incontrò gli occhi del pianista, brillanti e lucidi come sempre quando suonava, e notò il suo smagliante sorriso. Assentì minimamente, per poi dare di nuovo la sua attenzione alla folla, da cui si levavano scroscianti applausi.

Shouyou si alzò dallo sgabello e raggiunse la sua destra con andatura quasi posata. Scrutò un’altra volta il ragazzo accanto a lui, per scorgere qualsiasi emozione che trasparisse dal suo volto: aveva le guance rosse ‒ poteva però essere anche lo sforzo ‒ e la bocca gli tremva lievemente, anche se non ne capì la ragione.

Gli diede una pacca sulla schiena, una specie di complimento, e allora quell’espressione che per lui era decisamente eccitata mutò in un cipiglio indispettito. Durò solo per un attimo, poi si piegò in un inchino per non darlo a vedere, e allora anche il pianista s’inchinò, grato a tutte quelle lodi.

Dopo qualche secondo, si drizzarono e, apprezzati gli applausi ancora un po’, camminarono verso l’uscita.

Tobio riusciva a sentire il fiato corto dell’altro accanto a sé, che quasi sovrastava il rumore del battito del suo cuore ‒ lo sentiva martellare follemente, il sangue pompato rimbombare nelle orecchie. Ingoiò un grumo di saliva, scoprendosi con la bocca secca, e si alienò un attimo dal mondo.

Gli era piaciuto suonare con qualcun altro, su un palco davanti a un pubblico. Gli era piaciuto condividere i suoi sentimenti, per quanto negativi fossero, con la musica di qualcun altro. Pensò che probabilmente stava impazzendo anche lui, insieme al suo cuore.

Come Shouyou gli rivolse quel sorriso così irritante e accecante, si riscosse. Dietro le quinte, poco prima di scendere per la breve scalinata, rispose alla pacca sulle spalle precedente ‒ ma con molta più potenza.

Il sedicenne quasi cadde in avanti e, tossicchiando, esclamò un «Ahi!».

Il violinista proseguì impettito, contento di essersi prese la sua rivincita.

«Ma sei pazzo?» strillò, non preoccupandosi di moderare i toni nonostante fossero ancora sul palco.

Il moro si accigliò, girandosi appena e guardandolo torvo. «L’hai fatto anche tu, imbecille!»

Il cooperatore, vestito di tutto punto con un frac nero, lo osservò sconcertato sfilare davanti a sé proprio mentre insultava il pianista.

«La mia era amichevole!» si aggiunse quest’ultimo, contrariato, scendendo giù per le scale di corsa. «Qualcosa tipo: “bravo”!»

Tobio schiuse e richiuse le labbra innumerevoli volte, colto di sorpresa. Era un gesto comune tra loro ragazzi? Non lo sapeva, nessuno lo aveva mai fatto a lui e lui non lo aveva mai fatto a nessuno.

La prima che gli venne in mente la farfugliò goffamente: «Be’, la mia no!»

Il viso di Shouyou divenne una maschera di delusione e stizza. «Il solito insopportabile!» Saltò l’ultimo gradino sotto lo sguardo frastornato dell’assistente, che si fermava un momento su di lui un momento su Tobio.

A dir la verità, non poteva negare che avesse eseguito il tutto più che bene. Stavolta, aveva contribuito a costruire il loro castello di carte, sebbene alcune di esse non fossero posizionate perfettamente, e ne aveva avuto un valido controllo.

Ovviamente, avevano deciso nello stesso momento. Avevano imparato insieme che ogni castello di carte, prima o poi, deve collassare, affinché uno più bello e stabile venga realizzato. Allora tanto valeva scegliere quando, no?


Tokyo, 14 agosto 2016, 15:28


Come faceva ormai da settimane, si diresse alla finestra e, dietro un piatto con del cibo per gatti, scovò la chiave dell’appartamento. La afferrò frettolosamente e con la stessa agitazione spalancò l’ingresso dopo aver fatto scattare la serratura.

Uno spiraglio di luce strisciò lungo il pavimento del salone come un serpente, ma Shouyou serrò la porta dietro di lui appena entrato. Se Tobio voleva che quel posto restasse nell’oscurità, allora avrebbe rispettato la sua decisione, pur essendo terribilmente curioso.

«Kageyama, sbrigati!» strepitò più forte che poté, giocando con il portachiavi. Avvertì qualcosa tastare la sua testa e subito dopo attanagliarla.

«Sono qui, idiota, non c’è bisogno di spaccarmi i timpani» sibilò il quindicenne, ma levò la mano dai suoi capelli impossibili comunque.

Il ragazzo dagli occhi del colore del tramonto sorrise, elettrizzato. «Su, andiamo!» Lo sospinse con entrambe le mani sulla borsa del violino, mentre l’altro calava la maniglia d’ottone.

Fece una smorfia indignata e gli schiaffeggiò gli avambracci. «Tocca ancora la mia custodia e ti faccio cadere le mani, deficiente!»

Allora Shouyou lo spinse ancora, stavolta dalle spalle, rischiando di farlo cadere mentre andava giù per i gradini dell’uscita. Come il corvino emise un suono strozzato, scoppiò a ridere e lo superò, saltellando per il viottolo dell’abitazione.

Si raddrizzò, e dire che il suo sguardo sarebbe stato capace di incendiare un’intera città era un eufemismo. «Hinata, idiota!» urlò in una specie di dichiarazione di guerra.

L’appellato si voltò e sbarrò per un secondo gli occhi nel vedere l’espressione furente del violinista.

Tobio ebbe appena il tempo di notare un ghignetto furbo sul suo viso che l’altro prese a correre nella direzione opposta. «Torna qui!» gridò ancora, seguendolo a ruota.

Shouyou continuò a correre, ridente come non mai.


Tokyo, 14 agosto 2016, 17:32


«Dove vai?»

«A sedermi.»

Lo vide indugiare un po’ sul limite della stanza, come se volesse aspettarlo.

«Come la scorsa volta?» s’informò interessato. Il 31, seduti l’uno di fianco a l’altro, non avevano più proferito parola: Shouyou, però, non aveva provato il bisogno di rompere quel silenzio, il che rasentava l’insensato per lui.

Il moro annuì e si fermò definitivamente, ma non si voltò. «Resti qua?»

«Io...» esitò. Gli sarebbe piaciuto assistere alle tre esibizioni antecedenti alla loro, in quella piccola sala con qualche sedia e due schermi. Poi rammentò la sensazione piacevole che Tobio accanto a lui gli aveva procurato. «Arrivo.» Gli indirizzò un sorriso di scuse, quasi gli stesse facendo un torto. «Solo un attimo.»

Alzò un po’ le spalle, borbottando un «Va bene», e appena uscito chiuse a metà la porta scorrevole della stanza.

Il corridoio, tranne per qualche insegnante e dei concorrenti che parlottavano sommessamente tra di loro, era vuoto. Mosse qualche passo, virò a sinistra e, giunto in un punto impreciso che gli sembrava abbastanza lontano da quel gruppetto, si lasciò scivolare contro il muro bianco. Forse la giacca nera dello smoking si stava anche sporcando di intonaco, ma non ci pensò troppo.

Appoggiò con garbo il violino e l’archetto accanto alla sua spalla. Si portò le ginocchia al petto e, dopo averle abbracciate, ci affondò il volto.

Apprezzava particolarmente quella parte del suo riscaldamento: non era fisico, bensì psicologico. Lo aiutava a fare mente locale di tutte le esperienze più intense che aveva vissuto, perché tutto ciò che percepiva in quei momenti lo traduceva in musica. Lo psicologo che gli avevano rifilato anni fa gli aveva detto che i traumi o delle vicende cariche di sentimenti dannosi sono più facili da dimenticare, dopo tanto tempo. Il subconscio li elimina, li relega nel dimenticatoio del nostro cervello, affinché essi non facciano soffrire.

Però, tolti quelli, a lui cosa rimaneva?

Dato che vedeva nero a prescindere, compresse forte gli occhi.

Li riaprì, in seguito a dei pensieri che erano solo nocivi, come si accorse che qualcosa era vicino a lui. Volse fiaccamente il capo, ritrovandosi lo sguardo e i denti luminosi di Shouyou a circa un metro da lui. Tornò alla postura di prima, ma non riuscì più a rievocare tutti gli avvenimenti degli ultimi cinque anni.

Pensò a sua madre che suonava la Gioia di amare di Kreisler, mentre lui si nascondeva sotto il pianoforte orizzontale, per poi vagare in tutti quei brani della sua infanzia che aveva ascoltato, in mezzo a tanti anziani giudici e intenditori, grazie all’orchestra di cui faceva parte quella spettacolare pianista.

E riavvertì la pelle d’oca sulle braccia, l’amore per la musica ‒ e soprattutto per il violino ‒ che si allargava nel suo petto come una bolla di sapone.

Non sapeva cosa, ma qualche cosa sicuramente gli restava.


Appena sentì il suo nome, la sua testa scattò in alto. Non era stato distolto dalle sue stesse riflessioni, al contrario: era ancora più concentrato su ciò che doveva e voleva fare.

Guardò l’altro e fu soddisfatto di aver previsto correttamente: anche Shouyou era vigile. Si stava già rimettendo in piedi, ma la luce dei suoi occhi non sfuggì a Tobio. Era più scura, ma non per qesto meno viva.

Una volta dritto, gli offrì la mano, ma lui si girò dalla parte opposta e prese il suo strumento. Poi si ripresentò alla sua altezza naturale, in un atteggiamento tanto sicuro da risultare quasi imponente.

Il ragazzo dai capelli rossicci gli fece la linguaccia, risentito, ma attese che facesse il primo passo verso l’entrata con lui.

Si rivolsero uno sguardo serissimo, per sfidarsi a modo loro, quasi si sarebbero dovuti sorpassare a vicenda per vincere, solo quando si trovarono al varco per i loro sogni.


Tokyo, 14 agosto 2016, 17:59


«Mi raccomando: calmo.»

«Lo stai dicendo a te, Kageyama-kun?»

Sembravano dire quello le occhiate che si lanciarono poco prima che la spalla di Tobio sfiorasse il legno del violino.

Un, due, tre, quattro.

Eccole, le prime due carte, pronte a congiungersi. Senza di esse, sarebbe stato impossibile costruire tutto il castello. Necessitavano di concentrazione, tranquillità, o sarebbero cadute subito. Esisteva un solo tentativo: se fossero crollate la prima volta li avrebbero schiacciati come dei macigni.

Un, due, tre.

Mancava un millimetro. Uno solo, e allora avrebbero sicuramente continuato.

Quattro.

Un tasto si abbassò, pressato dalla mano sinistra di Shouyou; il bicordo del violino vibrò nell’aria statica, cristallino come acqua di un ruscello.

Le prime due carte erano lì, inclinate fino a toccarsi e a sorreggersi a vicenda, e loro erano sottodi esse: decisero entrambi che era troppo presto per distruggerlo. Un po’ più di carte, una struttura più sofisticata, più gente meravigliata da quella costruzione. Allora si sarebbero accorti anche dei suoi artefici e non li avrebbero più dimenticati.

Un.

Accorse anche la mano destra, mentre la sinistra si spostava già sul prossimo tasto; il Sol del violino, però, sovrastò tutto.

Tobio occhieggiò il ragazzo che era ormai ufficialmente diventato il suo accompagnatore, sorprendendosi di trovare gli occhi d’ambra indirizzati a lui. Era la prima volta che i loro sguardi si incontravano durante un’esecuzione.

Mentre proseguivano con il pezzo, una gara tutta loro ebbe inizio. Se non riuscivano ad oltreppassare i propri limiti, come avrebbero potuto vincere contro gli altri? Se desideravano competere a livello nazionale, era indispensabile superare se stessi, perché qualcuno migliore di loro ci sarebbe stato indubbiamente.

Dunque, avrebbero combattuto per spodestare quel qualcuno e persino le loro stesse persone, per ripresentarsi sempre più in alto, anche solo di un posto per volta.


Strinse le mani e il tappo della biro nera gli graffiò superficialmente un dito. «Che cosa assurda...»

Non stava neppure annotando i vari errori, che seppur pochi c’erano. Gli pareva di star assistendo a un’esibizione libera da ogni gara e che solo la deformazione professionale gli stesse impedendo di godersi appieno l’emotività riversata in quel brano.

L’assurdità stava nel totale contrasto tra le emozioni del violino e del pianoforte. Entrambi estremamente coinvolti, così concentrati nella loro impresa di trasmettere qualcosa che la musica appariva quasi palpabile e visibile. Forse lo era. Forse, chiudendo gli occhi, si poteva davvero osservare tutti quei sentimenti di ogni genere prendere vita insieme alla miriade di note. Non era neanche corretto parlare di miriade: le note sono sette, e considerando i semitoni dodici. La bravura di un compositore sta anche nel creare delle armonie mai sentite prima e che, contemporaneamente, siano orecchiabili; la bravura di coloro che le suonano sta anche nell’interpretarle, nell’imprimervi altre armonie: le proprie esperienze, pensieri e sensazioni.

E Shouyou e Tobio erano bravi: nonostante la discordanza, c’era un equilibrio. Come se stessero giocando al tiro alla fune in due, con la stessa forza ed intensità. Qualche volta, poi, il violinista tirava un po’ di più, e allora un treno di rabbia e angoscia investiva lo stomaco di tutti gli spettatori; quando era il pianista a trascinare la corda verso di sé, sembrava di andare al parco divertimenti con il proprio migliore amico dopo uno sfogo sfiancante.

Tuttavia, anche se raramente, Shouyou era certo di udire della gioia nella melodia, così come a Tobio sembrava che tutta quella felicità travolgente in certi punti si affievolisse.

Non si rendevano conto, però, del fatto che, tirando perennemente in direzioni opposte, si stavano avvicininando. Magari sarebbero arrivati in un punto d’incontro in cui sarebbero stati capaci di suonare tutta la lunghezza e le sfaccettature di quei sentimenti, di comprendere anche quelli dell’altro.

Ora, in ogni caso, un equilibrio esisteva. Se così non fosse stato, le bocche del pubblico sarebbero state aperte solo per parlare.


Tokyo, 14 agosto 2016, 18:03


Il nuovo silenzio della sala venne subito spezzato dagli applausi.

Shouyou si era asciugato le lacrime prima di alzarsi e affiancarsi al ragazzo che aveva già abbassato il violino e stava guardando l’uditorio con occhi sgranati e leggermente lucidi. Ma, quando la folla li acclamò con inaspettato vigore, altre lacrime corsero sul suo immenso sorriso. S’inchinò, nascondendole, immediatamente seguito da Tobio.

In quel momento, un altro paio di mani batterono, anche se solo tre volte. Sebbene loro non l’avessero notato, quell’applauso valeva almeno il triplo di quello del resto delle persone nel teatro.


Non se lo sarebbe mai aspettato: stava sorridendo. Lievemente, i denti non si vedevano neppure, ma non era né un ghigno derisorio né un sorriso inquietante: era sereno. Probabilmente era la prima volta che lo vedeva con un’espressione così tranquilla in volto.

«Tutto bene, Kageyama?» fece con voce allarmata, mentre si dirigevano agli spogliatoi.

Il piccolo sorriso scomparve come era arrivato. «Perché?»

Shouyou sbatté le ciglia un paio di volte, stringendosi nelle spalle. «Stavi sorridendo...»

A quelle parole, i suoi lineamenti s’indurirono nuovamente. «E allora?» grugnì e si bloccò, prendendogli il capo con una mano e stringendogli la ribelle zazzerra rossiccia.

«Lasciami!» si lagnò invece il pianista con voce strascicata, cercando invano di raggiungere il petto di Tobio e colpirlo.

Dopo aver stretto un altro po’, lo abbandonò sul posto e procedette verso i camerini. «Prima mi dici di sorridere e poi ti lamenti pure, idiota!»

«Ma non mi stavo lamentando!» protestò e lo accostò di nuovo. «Era una constatazione, dato che non sorridi mai, ma non ho mai detto che mi dispiace.» Stavolta fu lui a rivolgergli il suo sorriso gentile, uno di quelli che gli riservava solo quando non lo criticava brutalmente per la sua perfomance al piano ‒ ovvero quasi mai.

Il quindicenne storse le labbra, bofonchiando qualcosa di incomprensibile. Non gli poteva dare torto: la risata non faceva esattamente parte del suo repertorio di espressioni frequenti.

Tuttavia, qualcuno gli aveva detto che non gli dispiaceva. E non una persona qualsiasi: era il suo accompagnatore.


Tokyo, 14 agosto 2016, 19:17


«Smettila di dondolare quelle dannate gambe, Cristo!»

Era da più di mezz’ora ‒ da quando tutti i concorrenti si erano esibiti ‒ che si trovavano nella sala principale, dove sarebbero stati esposti i risultati. Avevano ascoltato e guardato tutte le esibizioni e in seguito avevano corso per dieci minuti nel cortile esterno, rientrando per l’afa insostenibile, completamente sudati.

Si erano messi a vagare per tutto il salone, ma, quando un impiegato dello staff li aveva richiamati, erano stati costretti a sedersi.

«Tu ti stai dondolando con tutto il corpo!» ribatté Shouyou, continuando a oscillare le gambe avanti e indietro, scomposto su una panca imbottita accanto all’altro.

«È diverso!» rettificò il violinista, ondeggiando con il busto come un orologio a pendolo. «Mi fai venire il mal di mare.»

S’immusonì, offeso, e voltò la testa di lato. «E allora non mi guardare, stupido!»

Tobio sbuffò con sdegno e si volse a sua volta dal lato opposto. «E chi ti guarda!»

Alcuni secondi dopo videro dei ragazzi, tutti sopra i quattordici anni, accorrere davanti ai quattro schermi che scendevano dal tetto, posti al centro.

Si girarono di scatto e, un’occhiata velocissima dopo, si ritrovavano già a correre verso tutti quei liceali. Alzarono lo sguardo sui risultati.

L’ansia li aveva corrosi per una lunga ora, a entrambi. Tobio era convinto di essere passato insieme al pianista, ma a lui non bastava. Credeva non bastasse nemmeno a Shouyou: erano troppo ambiziosi perché la semplice qualificazione andasse loro bene. Quasi certamente, anche posizionandosi secondi si sarebbero disperati, arrabbiati e avrebbero reclamato rivincita.

Però, almeno per quanto riguardava quel concorso, non sarebbero mai riusciti a reclamarla.

Avvertì un fremito in tutto il corpo, dal petto fino alle mani, che non cessarono di tremare neppure dopo. Guardò il suo compagno solo quando sentì un urlo provenire dalla sua sinistra.

Aveva un pugno chiuso e il gomito piegato in segno di vittoria, le guance arrossate e le labbra che formavano smorfie diverse ogni istante a causa dell’emozione.

Tutti si sbagliavano sul conto di Tobio; si era sbagliato anche lui, tempo addietro. All’inizio gli era apparso come un ragazzo freddo, cinico, insensibile e, in realtà, tremendamente saggio. Shouyou si era ricreduto su tutto. Forse poteva sembrare freddo per via del suo aspetto spaventoso, mentre probabilmente era l’unico di sua conoscenza la cui passione equiparava la sua. Non era né cinico né insensibile: al contrario, forse dentro di lui bruciavano troppe emozioni, nonostante avesse difficoltà a mostrarle.

Che fosse un genio della musica era indubbio, ma Shouyou avrebbe riso fino alla morte se gli avessero chiesto della sua maturità e saggezza. Le aspettative degli altri sulla sua persona erano troppo grandi, disumane. Tobio Kageyama era pur sempre un ragazzo di quindici anni, non un dio.

A lui, ad ogni modo, non sembravano neanche interessare. Si allenava comunque, nonostante tutte le voci che giravano sul suo conto nel mondo della musica. Lui diceva che lo faceva solo per sé, per nessun altro, ma realizzare qualcosa per una persona cara fa sempre sì che l’impegno e il risultato siano migliori, più sentiti. E Shouyou poteva giurare che, se proprio un qualcosa di Tobio era sentito, quel qualcosa era sicuramente la musica.

Sollevò le mani per farsi dare il batti cinque, ma inizialmente l’altro non comprese. Quando gliele premette praticamente in faccia, il violinista si decise ad alzare anche le sue e il ragazzo dagli occhi d’ambra gli diede il primo batti cinque della sua vita ‒ o almeno, quello che avrebbe sempre ricordato.

Come notò che aveva sorriso solo per un momento effimero, si allarmò. Lo prese per una spalla, trascinandolo di peso mentre lui gli gridava: «So camminare da solo, Kageyama!», poiché dalla folla di ragazzi si stava levando sempre più confusione.

«Che hai?» lo interrogò, con tono più stizzito che interessato, piantandolo vicino all’uscita.

Il pianista aggrottò lievemente la fronte e, dopo essere sfuggito al suo sguardo indagatore per un attimo, lo fissò. «Potremo suonare di nuovo?» disse infine, la voce incredula.

Il moro sbatté le palpebre un paio di volte. «Sì…?» Che c’era di strano?

Si erano classificati primi, dopotutto.

«Sempre qui? Ci saranno più partecipanti?»

Ci stette un po’ a replicare anche stavolta. Studiando il volto leggermente sconvolto del giovane, capì. «Sì» confermò sicuro. «E per questo non puoi permetterti di fare idiozie.»

Shouyou espirò lentamente dalla bocca, senza far rumore, e le sue spalle si rilassarono, come se fossero state tenute in alto da un burattinaio per tutto quel tempo. Sorrise come solo lui sapeva fare: raggiante, incontenibile, travolgente.

Doveva aspettarselo, ma prima d’ora non ci aveva mai fatto troppo caso. Quella era solamente la sua seconda gara, la sua prima vittoria e qualificazione. Era ovvio che non fosse neanche capace di credervi.

Quasi per inerzia, gli angoli della sua bocca si piegarono in su.

Poi si voltò: Tobio non sopportava quelle situazioni imbarazzanti. Non sapeva mai come reagire. Tuttavia, fu impossibilitato a fare un passo in più.

«Invece hai trovato proprio un bel pianista, Tobio-chan.»

Raggelò sul posto. Restò con gli occhi sgranati inchiodati in un punto indefinito, il suo corpo che si rifiutava di rivolgerli altrove.

Il sedicenne gli si avvicinò non troppo cautamente e, sulle punte, gli sussurrò di rispondere, o sarebbe parso un maleducato. In seguito si girò verso quell’uomo che stava davanti a loro, lontando dalla folla. Non gli avrebbe dato più di venticinque anni, ma appariva molto più maturo, grande e virile di lui.

«Scusi...» bisbigliò con una nota di curiosità a ravvivargli il timbro. «Lei chi è?»

L’uomo gli sorrise in un modo che sul suo viso calzava benissimo, ma che su qualcun altro sarebbe sembrato terribilmente simulato, quasi sgradevole. «Uno dei giudici di questo torneo.»

Shouyou aprì e richiuse le labbra più volte, stupefatto. Guardò ora il violinista ora il giudice, chiedendosi come potessero conoscersi. Gli pizzicò poi un fianco, incalzandolo impazientemente a intervenire e a non lasciarlo lì come un pesce lesso.

Tobio sussultò, riscuotendosi solo allora. Fu finalmente in grado di spostare lo sguardo sull’uomo dai capelli castani, più alto di lui di circa cinque centimetri, ma nessuna scintilla scattò in lui.

Il suo sorriso, invece, man mano che i secondi passavano, diveniva sempre più forzato, simile a una smorfia indignata. Alzò un sopracciglio, incitandolo a dire qualcosa.

Il corvino arricciò le labbra. «Non la ricordo...» Non era di certo per la persona in sé che era stravolto.

Il sorriso svanì completamente e la sua espressione perse ogni traccia di gentilezza per un singolo secondo, ma si corresse subito. «Conoscevo tua mamma e ti vedevo spesso quando eri piccolo» lo informò, riprendendo a ridere come prima. «E sono stato nella giuria ai tornei under fourteen degli ultimi due anni.»

Tobio aveva un vago ricordo di quel viso delicato e bello, così come della voce allegra e un po’ troppo acuta per i suoi gusti. Ma era, per l’appunto, vago: niente che fosse capace di rievocare. «Ah» fece soltanto.

Persino quel cipiglio annoiato appena affacciatosi stava bene su di lui. «Comunque» si mise le mani sui fianchi, rivolgendosi a Shouyou, «mi chiamo Oikawa Tooru. Piacere di conoscerti, piccoletto.» Sorrise e gli porse una mano.

Il rosso arricciò il naso, risentito, mentre gliela stringeva. «Non sono un piccoletto, ho sedici anni...» farfugliò con tono offeso ma comunque basso, tentando di non farsi sentire.

Tooru rise divertito. «Sì, sì, lo so» lo liquidò con una mano. «Piuttosto, ti volevo chiedere: partecipi a qualche corso?»

Tobio corrugò le sopracciglia, in contemporanea al suo accompagnatore, e lo guardò.

«No.» Stralunò appena gli occhi. «Perché?»

L’uomo parve sorpreso. «So riconoscere quando qualcuno migliora anche nelle basi, come battere il tempo o il solfeggio.» Si portò un dito al mento, come se stesse meditando. «L’anno scorso non contavi per niente e si vedeva, invece quest’anno sei molto più preciso.» Studiò entrambi con fare sornione, quasi gli stessero nascondendo qualche segreto; il che, dopotutto, non era falso, dal momento che non lo conoscevano. «Che è successo in questi mesi?»

Il viso di entrambi era una maschera di confusione. Il pianista consultò il compagno con lo sguardo, ma lui scosse la testa, smarrito almeno quanto lui.

Tooru aprì la bocca sottile per continuare a parlare, ma venne bloccato da un grido che non poteva essere altro che furioso. E conteneva il suo cognome. O almeno, una parte del suo cognome. Si pietrificò, gli occhi color nocciola sgranati e le spalle rigide.

Shittykawa.

Un altro uomo, poco più basso del giudice, comparve alle sue spalle, mentre gli sguardi dei due musicisti seguivano attenti e ancora attoniti la scena.

«Brutto idiota!» Con quell’esclamazione, lo prese per il retro del colletto della t-shirt azzurra. «È da mezz’ora che aspetto in quella merda di macchina e tu ti metti a molestare i ragazzini!»

All’ultima frase, se avessero potuto, le mascelle dei ragazzini avrebbero toccato il pavimento.

«Devo ancora chiudere il negozio per colpa tua!» sbraitò ancora, cominciando a trascinarlo verso l’uscio. «Ma secondo te che cazzo sono, un cameriere?»

«Ahia! Aspetta! Iwa-chan, mi fai male!» si lagnò Tooru con voce lamentosa e capricciosa.

Shouyou si voltò verso il moro, domandandogli silenziosamente se ciò che avevano appena visto fosse solo frutto della sua fantasia.

Poteva darsi: l’espressione di Tobio suggeriva che lui avesse vissuto tutt’un’altra esperienza.

Iwa-chan.

Iwa-chan lo ricordava. Era sempre accanto a Tooru, anche se probabilmente aveva assistito più alle sue sgridate nei confronti del castano che a delle discussioni con sua madre.

Si trovava quando era successo. E la sua attenzione, per una volta, si era distolta dal giudice ed era volata su di lui, che non aveva neppure dieci anni.

Tuttavia, non ricordava il motivo. Perché ‒ glielo aveva detto anche il suo psicologo ‒ i traumi o le vicende cariche di sentimenti dannosi sono più facili da dimenticare.




一 Salve a tutti! Stavolta il capitolo ve lo beccate prima della scorso. BD In realtà avrei voluto aggiornare già lunedì, ma purtroppo il tempo mi manca sempre, sigh. Ma comunque, finalmente ce l’ho fatta!

Allora, partiamo dalla fine: ve lo aspettavate? Spero di no. :’) Però almeno ora posso andare a mettere il tag IwaOi nella descrizione, perché volevo che fosse una sorpresa (anche se, se qualcuno la leggerà dopo, non la sarà più, ma vabb). Da qui in poi, questi altri due idioti si uniranno alla compagnia, dato che, come avrete ben capito, hanno un determinato ruolo in tutti i problemi di Tobio (non vi preoccupate, nemmeno a loro mancherà del buon angst :’D).

E niente, non ho tanto da dire, se non una cosa: ho scritto questo capitolo ascoltando S O L T A N T O questa canzone (House of Cards dei BTS) che, davvero, amo con tutto il mio cuore. L’ho trasportata in tutt’altro contesto, lo so, ma, dato che è molto calma e che le parole che volevo usare erano proprio quelle,  mi ha aiutato un sacco. Un giorno farò la playlist di tutte le canzoni che associo ai capitoli, prometto!

Infine, ringrazio come sempre Maiko_chan e _Lady di inchiostro_ per recensire (e sclerare insieme a me), siete davvero fantastiche. <3

E niente, ora mi dileguo, anche perché vado di fretta, sob. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e sappiate che un parere anche piccolissimo è sempre ben accetto! :3 Allora ci vediamo al prossimo capitolo! ~


Baci
Shizuha
  
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