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Autore: FridaMooney98    19/10/2017    1 recensioni
Aron e Damian sono Cacciatori. Le loro prede, le Bestie della Luna, sono tanto importanti quanto rare e a loro hanno dedicato una missione che si protrae da secoli. Safiria è malata, indifesa e ferita e, per un triste gioco del destino, si ritroverà sulla loro strada. Attraverso il tempo e viaggiando per l'Europa, i Cacciatori e la ragazza dovranno scoprire cosa si cela dietro la maledizione delle Bestie della Luna. Dal testo: "Damian seguì con lo sguardo la luce del sole, che passando dai fori della tapparella si proiettava sul muro opposto in fasci lucenti. Bisognava coprirli meglio quella notte, subito dopo essere tornati dal giro di perlustrazione. Le “sensazioni” di Damian avevano condotto i Cacciatori in quel paesino, alla ricerca di un nuovo esemplare. Sperando nella buona riuscita dell’indagine, Damian e suo fratello sorrisero, i loro denti brillanti che luccicavano nell'ombra. Al tramonto, l’unico suono nella stanza era l’eco dei loro cuori che acceleravano accogliendo il buio."
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Triangolo
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Safiria corse in camera e sbatté la porta, in lacrime. Isobel stava ancora urlando, al piano di sotto, tra le grida concitate di suo padre. Saf tentò invano di ignorarle, gettando i vestiti a terra ed entrando in bagno. “La malattia mi costringerà a rimanere segregata in questa casa per il resto della mia vita! Possibile che non volete capire?! Uccidetemi ora!” Aveva gridato poco prima e ancora quelle dolorose parole le rimbombavano in testa. Voleva morire. Non poteva vedere il mondo da dietro un vetro per tutta la vita, non poteva aspettare cha sua sorella Isobel tornasse da scuola tutte le sere per farsi raccontare cosa volesse dire vivere davvero. Aprì il rubinetto d’ottone della vasca da bagno con un gesto secco, aspettando che si riempisse, picchiettando con il piede sulla zampa di leone. Nel grande specchio di fronte a se, Safiria si scrutò a lungo il volto a cuore incorniciato da un groviglio di boccoli neri come la pece, che le ondeggiavano sui fianchi. “Non posso più vivere così, non voglio più vivere così!” Quelli erano i pensieri che spesso si affollavano nella sua mente. Ma guardandosi adesso negli occhi azzurri umidi di pianto e freddi come il ghiaccio, sentiva solo silenzio, il vuoto incolmabile che aveva riempito le sue giornate da quella primavera di tredici anni prima. Fermò il getto d’acqua calda prima che straripasse fuori dal bordo della vasca antica e vi si immerse. Quel tepore la rilassò per qualche minuto. Singhiozzò, lasciando che ogni muscolo si sciogliesse dalla tensione. Le grida al piano inferiore erano cessate e nella vecchia villa era calato un silenzio ovattato, sempre più opprimente; nemmeno le foglie del giardino emettevano il minimo rumore. Safiria non si dava pace, non sopportava quell’innaturale silenzio. Adesso, quanto desiderava uscire e passeggiare all’aria aperta. La sua malattia, che anni fa fu scambiata erroneamente per Malattia del Sole, sembrava invece l’unico caso al mondo: qualsiasi medico di altissimo livello l’avesse visitata in tutti quegli anni, non aveva saputo diagnosticarle una vera malattia. Era solo destinata a rimanere lontana dai raggi del sole o la sua pelle avrebbe preso fuoco. Letteralmente. Safiria alzò una mano, ammirando la leggera ombra rosata dell’ustione coperta di schiuma bianca, e si perse nei ricordi.

“Fa caldo: -Mamma, vieni a vedere che bel fiore ha raccolto Isobel!- Safiria ha sei anni e sta correndo incontro alla madre, una donna dal volto sfocato, indistinto. Anche il paesaggio è distorto, nebbioso, confuso nei suoi ricordi. Lei sa però che è semplicemente il giardino di casa sua, della vecchia villa. La piccola Safiria alza gli occhi al cielo e scorge il sole dietro le nuvole. È così caldo e piacevole che si ferma per assaporare il suo tepore sulla pelle. Una figura attira la sua attenzione: alta, completamente vestita di bianco, così candido da accecarla. Da dietro un albero le tende una mano chiara, la invita a raggiungerla. Il volto è sfocato anch’esso, ma si riconoscono due affascinanti occhi dorati. Sembra un elegante angelo. Ma Safiria esita, sopraffatta dall’inquietudine: la figura trema e si dissolve, non prima di rivolgerle un sorriso. Un brivido di freddo attraversa Safiria, scuotendola. Alza nuovamente gli occhi al cielo: la figura bianca non è sparita, è sopra di lei. Le cala addosso ad una spaventosa velocità, le mani protese, ma l’impatto non avviene. Safiria è invasa da una sensazione di terrore quando la figura, diventata incorporea e nebulosa, la avvolge in spire di fumo biancastro. Questa volta il sole sembra brillare più intensamente. Il fumo penetra nella pelle della bambina, fino ad avvolgerle il cuore. La nebbia si dissolve solo quando Safiria cade in ginocchio, piangendo. Poi accade tutto molto in fretta. Una fitta lancinante agli occhi costringe la piccola a chinarsi in avanti, i pugni premuti sulle palpebre serrate; urla dal dolore, le fa male guardare. Sua madre accorre ma la pelle inizia a bruciarle terribilmente, come divorata dalle fiamme. Poi il buio. La mattina dopo si risveglia in una stanza d’ospedale piccola e buia, solo lo spiraglio della porta socchiusa le permette di scorgere le bende candide che la avvolgono e la flebo accanto al lettino, nella penombra.”

Il pianto di quel giorno, Safiria non lo dimenticò mai. E nemmeno quello della notte, molti mesi dopo, in cui fu dimessa dall’ospedale: la notte in cui scoprì che sua madre era morta avvolta dalle fiamme che si erano innalzate dal suo stesso corpo. Era davvero crudele, il destino. Safiria si alzò dalla vasca, scrollandosi l’acqua dai capelli e avvolgendosi nell’asciugamano bianco. Seppur insolitamente lievi, sulle braccia, le gambe, la schiena, il collo, il viso, ovunque sul suo corpo si allargavano chiazze rosate, visibili sulla pelle pallida e inconfondibili. Quelle tracce di ustioni erano il ricordo indelebile di quell’episodio e ovunque scappasse, Safiria non poteva nascondersi da esse. Si stese sul letto dalla testiera in ferro battuto e dal baldacchino leggero, semplice come la stessa stanza, avvolta perennemente da un manto di ombre scure. Le grosse finestre erano coperte da pesantissime tende azzurre, l’unico sipario che la sfuggiva alla morte. -Safiria. Apri, ti prego.- La voce di Isobel la raggiunse da dietro la porta di legno scuro. Safiria non si mosse, la mano serrata in un pugno. Quasi le si spezzò un unghia. -Safiria parliamone! Ti ho portato il the che ti piace, aprimi!- Safiria spalancò la porta, lasciandola entrare. Isobel corse nella stanza, come se temesse un ripensamento da parte della sorella. -Posa il vassoio e vattene, Isobel.- Sibilò lei. -Non ho nessuna voglia di parlare, ora.- Guardò a lungo la sorella, in silenzio. Si somigliavano innegabilmente: i capelli neri di Isobel, anche se corti, erano le stesse onde di Safiria; le stesse mani, le stesse gambe dritte. Il viso di Isobel però, Safiria lo considerava di gran lunga il più bello della famiglia: gli occhi neri come il carbone, affascinanti e misteriosi, gli zigomi alti, le lunghe ciglia nere e le labbra perfette. -Safiria, penso che tu debba delle scuse a papà.- Cominciò Isobel, incrociando le braccia al petto. Safiria rise, una risata cattiva, senza allegria. -Io? Io non devo chiedere scusa a nessuno.-                                                                                                                                                                                               -L'hai ferito gridando quelle cose.- L’apostrofò la sorella. Safiria continuò a ridere. -L'avrei offeso pregandolo di ammazzarmi? Non dovrei essere io quella offesa? Nessuno ha voglia di assecondare il mio unico desiderio realizzabile!-  Poi puntò uno sguardo glaciale in quello di Isobel, che arretrò automaticamente di un passo. -Non voglio litigare con te Bel, vattene.- Una lacrima silenziosa scivolò sulla guancia della sorella e Safiria si sentì crudele. Non era Isobel che doveva piangere, non aveva nessun motivo per farlo. O almeno lei non voleva esserlo. -Scusami. Lo sai come sono fatta. Ho solo voglia di restare sola.- Le diede le spalle. Sentì l’altra aprire la porta: -Saf, parla con papà. Ascoltatevi, anche se è difficile.- E uscì. Poco prima che la porta si chiudesse Mirtillo sgattaiolò in camera, miagolando. Seguì Safiria nel bagno illuminato dal lampadario barocco che pendeva dal soffitto. Anche lì, la finestra era coperta da una spessa tenda rossa. La giovane afferrò la spazzola sedendosi alla specchiera di legno e iniziò a pettinare i capelli bagnati come meglio poteva, districando nodo per nodo. Quella villa così grande e singolare racchiudeva lo spirito barocco e variopinto della vecchia Alsazia, con la facciata a graticcio di pietra grezza. Ogni arredo possedeva un fascino ottocentesco che le ricordava la pomposa Francia del diciannovesimo secolo. Mirtillo miagolò piano, attirando l’attenzione di Safiria. -Aspetta, adesso ti do da mangiare. Fammi mettere qualcosa addosso.- Gli grattò sotto il mento, tra le sue fusa. L’armadio a parete della stanza era quasi vuoto, tranne qualche mensola dov’erano stipati i pochi vestiti di Safiria. Erano davvero pochi poiché, comunque fosse, non avrebbe avuto nessuno a cui mostrarli. Infilò la biancheria, un paio di calzettoni di lana e un lungo maglione bianco e uscì dalla stanza, seguita da Mirtillo che miagolava allegro. -Non c'è da essere tanto allegri Mirtillo. Mio padre darà di matto di nuovo, vedendomi scendere.- Invece nel salone non vi era nessuno. Scrutò la penombra, le finestre serrate da spesse persiane. -Papà non c'è.- Concesse un mezzo sorriso al gatto, quasi invisibile nel buio della sala. I suoi occhi gialli la fissavano, mentre lei raggiungeva l’interruttore e illuminava la stanza.

-Due notti che perlustrate il villaggio, Damian, e ancora niente!-
Rodolf si aggirava inquieto per la stanza. La vecchia canonica della chiesa di Turckeheim era il loro rifugio da solo un giorno, eppure Damian già la sentiva propria. -Pazienta, vecchio mio. Damian non si è mai sbagliato in fatto di presentimenti.- Sollevò lo sguardo, Aaron. Damian lo guardò negli occhi scuri, massaggiandosi il mento. -Invece di tediarti per questo, trovami un rasoio, caro zio Rodolf. Devo farmi la barba. E compra del vino! Siamo nella capitale del vino alsaziano o mi sbaglio?- Sentenziò. -Voi due siete troppo sicuri di voi stessi!- Scrollò la testa, lo zio. -Accidenti a voi... Ma perchè mai vi ho seguito?!- Nella stanza buia cadde il silenzio. Rodolf Lancaster appoggiava la ricerca dei due singolari nipoti per dovere, più che per affetto, ma non si era dimostrato un viaggio semplice per un essere umano come lui. Accampandosi dove trovavano rifugio o alloggiando in poveri motel, i tre erano giunti in Alsazia, spinti solo dall’importanza delle ricerche. Damian seguì con lo sguardo la luce del sole, che passando dai fori della tapparella si proiettava sul muro opposto in fasci lucenti. Bisognava coprirli meglio quella notte, subito dopo essere tornati dal giro di perlustrazione. Le “sensazioni” di Damian li avevano condotti in quel paesino, alla ricerca di un nuovo esemplare. Sperando nella buona riuscita dell’indagine, Damian e suo fratello sorrisero, i loro denti brillanti che luccicavano nel buio. Al tramonto, l’unico suono nella stanza era l’eco dei loro cuori che acceleravano accogliendo il buio.

ANGOLO AUTRICE: Salve! Sono Frida :) Grazie di essere arrivati fino a qui! Spero che Saf vi abbia incuriositi tanto quanto continua ad incuriosire me! Ci vediamo al prossimo capitolo, che pubblicherò il prossimo giovedì. Tanti baci, Ciao!
   
 
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