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Autore: Red Owl    19/10/2017    1 recensioni
Vecchia versione non più aggiornata.
Genere: Avventura, Science-fiction, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
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Lidia non era mai stata una persona particolarmente religiosa e già da qualche anno si chiedeva se ci fossero davvero degli Dèi, nascosti negli angoli dei templi e nelle profondità dei boschi. In quel momento, quando si trovò ad abbassare il capo sotto lo sguardo del suo futuro marito, i suoi dubbi scomparvero definitivamente: gli Dèi non erano altro che una favola, altrimenti avrebbero ascoltato almeno in parte le sue preghiere e non l’avrebbero gettata in pasto a quello.

Se fino a un attimo prima gli occhi dell’uomo esprimevano disprezzo, ora il suo volto era carico di semplice, desolante e inequivocabile schifo. La donna accanto a lui, la stessa che l’aveva osservata con tanta insistenza, si stava mordendo con forza le labbra in un disperato tentativo di non scoppiare di nuovo a ridere, ora che l’attenzione di tutti era incentrata sulla persona al suo fianco. Osservando il colore di capelli e occhi, Lidia capì con un tremito che lei e il suo futuro sposo non erano semplici conoscenti.

A quanto pare mio marito mi odia già e mia cognata sembra una pessima persona, pensò la fanciulla, inorridita. Peggio di così non poteva andare.

La sua buona educazione le stava intimando di obbedire all’invito di Quinto e di andare a stringere la mano a quello, ma le sue gambe si rifiutarono di eseguire quell’ordine e la ragazza rimase inchiodata al terreno, attirando su di sé le occhiate scettiche dei presenti. Notando la sua reticenza e la tensione che iniziava a crescere tra gli astanti, il Legato le posò una mano sulla schiena e, con gentilezza, la sospinse verso il suo futuro marito. Lidia sobbalzò e quasi incespicò, ma poi si costrinse a riscuotersi.

Stai solo facendo la figura dell’idiota, si disse, mentre un velo di lacrime minacciava di appannarle gli occhi. Stringendo con forza le palpebre per dissiparlo, la fanciulla deglutì e poi, a piccoli passi, quasi strisciando i piedi sul terreno, coprì i pochi metri che la separavano da Ulf. Non riuscì a trovare il coraggio di alzare la testa e di guardarlo negli occhi; e così procedette quasi alla cieca, fermandosi solo quando una maglia di lana scura e un’alta cintura di pelle entrarono nel suo campo visivo. Eccoci, pensò. Il cuore le batteva talmente forte che la giovane era certa di essere sull’orlo dell’infarto.

Sapendo di non poter fare nulla di diverso, Lidia strinse i denti, desiderosa di concludere al più presto quell’esperienza così sgradevole, e sporse una mano, in attesa che l’uomo la stringesse. Quasi si aspettava che il suo fidanzato la rifiutasse, che si allontanasse ridendo di lei, ma dopo un attimo di indecisione la mano dell’uomo si strinse piano attorno alle sue dita sudate, come se anche lui desiderasse adempiere a quella formalità nel modo più rapido e indolore possibile. Quando il palmo caldo e ruvido del germanico sfiorò la sua pelle, Lidia si accorse di avere le mani gelate e, in un riflesso spontaneo, alzò lo sguardo fino a incrociare quello di Ulf: nei suoi occhi pallidi credette di leggere ostilità, ma anche qualcos’altro.

Compassione?

Davanti a quello sconosciuto così alto, così diverso dagli uomini che era solita frequentare, completamente alieno con i suoi capelli chiari e con la barba che, sebbene più corta di quella di altri uomini riuniti attorno a lei, celava parte del suo volto, Lidia si sentì piccola e impotente come una bambina e, colta da una nuova fitta di paura, ritirò la mano e se la strinse al petto, come per proteggerla. Quel gesto suscitò l’ilarità della donna bionda e del suo compagno dai capelli scuri e quelle risate sommesse ferirono la fanciulla come colpi di frusta.

Ma cosa ci faccio, io, qui?

In preda allo sconforto e a un panico crescente, Lidia si guardò attorno, passando in rassegna a quella gente con cui non aveva nulla in comune. Si soffermò sul volto impassibile di suo padre e su quello angosciato di sua madre, poi tornò a quello del suo fidanzato, che si era ritratto di un passo e aveva di nuovo assunto un’espressione fredda, e a quello della donna bionda, i cui occhi brillavano di una luce selvaggia.

Tentando di scacciare le lacrime che si erano di nuovo fatte avanti, Lidia si portò una mano alla bocca. Che cosa ci faccio qui? Si chiese una seconda volta.

Stringendo i denti, la giovane si impose di non piangere: in quella circostanza lei rappresentava Roma e l’Imperatore e, sebbene in quel momento provasse ben poca simpatia per il Divino Cesare, non avrebbe disonorato se stessa e la sua città scoppiando in lacrime come una bambina impaurita. Non si sarebbe mostrata debole davanti a tutta quella gente che, ne era convinta, stava solo aspettando il momento più opportuno per approfittare della sua fragilità.

Nonostante i suoi buoni propositi, però, la fanciulla sentì gli occhi inumidirsi e stava per perdere la sua personale battaglia contro le lacrime quando una voce superò la barriera di angoscia e paura che la stava avvolgendo in spire sempre più strette.

«È adeguata», disse il vecchio sulla sedia, parlando con uno strano accento metallico, «ma è evidente che è provata dal viaggio. Discuteremo in privato dei dettagli del matrimonio.»

Lidia si voltò a guardarlo, mentre un’ondata di gratitudine le scaldava il petto e le faceva rotolare due grosse lacrime giù per le guance. Grazie, gli avrebbe detto, se ne avesse avuto il coraggio. Non sentendosi in grado di compiere un gesto tanto eclatante, si limitò a rivolgergli un debole sorriso, che il vecchio ricambiò con un piccolo cenno del capo.

«Credo che sia una buona idea, Gefrid» concordò Quinto. «Donna Lidia è appena arrivata a Erding e sono certo che apprezzerebbe un po’ più di tranquillità.»

Il vecchio – Gefrid, si corresse Lidia, cercando di ricordare il nome del suo inaspettato alleato – si alzò in piedi e subito il più giovane dei suoi figli corse al suo fianco, sostenendolo con discrezione. Nel far ciò, il ragazzo lanciò un’occhiata curiosa alla fanciulla e lei si trovò nuovamente a desiderare che fosse lui, l’uomo che avrebbe dovuto sposare.

«Lidia.»

La voce di Quinto la richiamò e la ragazza raggiunse il Legato all’ombra di un albero un po’ in disparte rispetto al resto della gente. «Com’è andata?» le chiese gentilmente l’uomo. La fanciulla scosse mestamente il capo. «Male» ammise, stringendosi nelle braccia. «Legato, io… io non voglio sposarlo.»

Lidia sapeva che la sua era una richiesta vana, dal momento che nessuno aveva il potere di opporsi a una decisione imperiale, tuttavia desiderava esprimere la propria insoddisfazione in tutti i modi possibili. Quinto parve sorpreso da quell’affermazione così diretta. «Come mai?» le chiese infatti.

Per mille ragioni, pensò la fanciulla, cercando di fare ordine nella sua testa. «È vecchio» esordì. Non era certo il motivo principale, ma era un punto di partenza. Quinto ridacchiò. «Non è vecchio, ha appena compiuto venticinque anni» le fece notare.

Quell’informazione la colse di sorpresa, a una prima occhiata gliene avrebbe dati dieci di più, ma la giovane non si lasciò scoraggiare. «Mi odia, ho visto come mi guarda» ribatté, rabbrividendo al ricordo dello sguardo apertamente ostile che le aveva rivolto l’uomo.

Il Legato sospirò. «Cosa dovrebbe dire di te, invece? Tremavi come di fronte a un mostro. Di certo non si sarà sentito particolarmente lusingato.»

Lidia provò un po’ di vergogna, ma la sua opinione non cambiò: per lei quell’uomo era un mostro, o per lo meno una persona con cui non voleva avere nulla a che fare. «Mi fa paura» confessò allora, cercando di spiegare il terrore che l’aveva colta qualche minuto prima. «Ho cercato di controllarmi, ma è così. Non posso resistere in questo posto, in questa situazione…»

La sua voce si stava di nuovo incrinando e il Legato le posò le mani sulle spalle. Per un attimo Lidia pensò che l’avrebbe abbracciata, dimostrandole un affetto superiore a quello mai dimostratole da suo padre, ma Quinto si limitò a stringere brevemente le dita.

«Devi essere forte, Lidia» le disse serio, piegandosi un po’ per guardarla negli occhi. «Tu sei romana, so che hai in te tutta l’energia che ti serve per affrontare questa situazione. Non conosco molto Ulf, è vero, ma conosco suo padre: Gefrid è un uomo giusto. Se sarai leale nei suoi confronti, avrai in lui un ottimo alleato.»

Lidia annuì, stringendo i pugni e cercando di trovare in sé quella forza che Quinto sembrava riconoscerle e di cui lei non aveva mai visto traccia. C’era però una cosa che la turbava, forse più di tutte le altre.

«E cerca di non badare troppo a Unna» continuò il Legato, leggendole nel pensiero. «Unna?» chiese Lidia, senza capire.

«La sorella di Ulf, quella ragazza bionda che stava accanto a lui. Non ho mai avuto veramente a che fare con lei, ma mi è giunta voce che, effettivamente, ha un caratteraccio. Ma tu non devi preoccupartene.» Notando il turbamento della fanciulla, Quinto strinse un po’ di più la presa. «Lei e Ulf sono gemelli e sono molto legati, ma anche lei sottostà al volere di suo padre. Fattelo amico e non avrai problemi nemmeno da lei.»

Quella notizia, che nelle intenzioni del Legato avrebbe evidentemente dovuto rassicurarla, non fece altro che aumentare l’inquietudine di Lidia: per un breve istante, prima di conoscere la famiglia del suo promesso, si era illusa di poter trovare nelle donne di casa delle compagne in grado di alleviare la sua solitudine. Ora che aveva visto Unna, quella speranza era evaporata come neve al sole. Le era infatti bastato poco per capire che non sarebbero mai state amiche; e ora Quinto le stava facendo intendere che, se non fosse stata attenta, la donna avrebbe anche potuto essere una sua nemica dichiarata.

«Forza, Lidia» riprese ancora il Legato. «Non è in gioco solo il tuo futuro, lo sai.»

La fanciulla avrebbe voluto ribattere che no, non sapeva nulla perché suo padre non le aveva mai rivelato i dettagli delle circostanze che l’avevano condotta in quel villaggio freddo e umido, tuttavia l’attenzione di Quinto si spostò improvvisamente su un uomo che si stava avvicinando a loro di buon passo. «Romano», esordì il germanico, un uomo con i lunghi capelli bianchi e il ventre prominente, «Gefrid vuole parlare con la donna e con suo padre. Adesso.»

«Li accompagno subito da lui» si offrì Quinto, ma il germanico scosse il capo.

«Solo la donna e suo padre» sottolineò, perentorio. Il Legato alzò le mani in segno di resa e fece cenno a Lidia di seguire lo sconosciuto con i capelli bianchi. A malincuore, la giovane obbedì e si incamminò alle spalle del suo accompagnatore, che attraversò rapido il giardino e si avvicinò al padre della fanciulla. «Senatore» esordì il germanico, utilizzando il titolo di cui suo padre andava tanto fiero, ma riuscendo in qualche modo a pronunciarlo in un tono che lo fece sembrare tutto fuorché un titolo onorifico. «Gefrid desidera discutere con te i termini del matrimonio.»

Il romano annuì, facendo cenno alla moglie di restare lì seduta ad aspettarlo. «Bene», sbuffò, «questa sceneggiata è durata fin troppo.»

«E tu», disse poi, rivolgendosi alla figlia, «cerca di comportarti come se in quella tua testa ci fosse qualcosa di diverso dalla segatura. Prima sei stata patetica.» Lidia chinò il capo, incassando in silenzio l’offesa, e per la prima volta si ritrovò a pensare che, forse, essere lontana dagli insulti di suo padre non sarebbe stato poi un grosso svantaggio.

Il barbaro li condusse di nuovo in casa e, questa volta, la ragazza si guardò attorno, cercando di trovare qualcosa di piacevole in quell’ambiente tanto diverso dalla domus che aveva lasciato a Roma. Il bianco con cui erano dipinte le pareti non era sufficiente per far sembrare più grande l’unica stanza angusta, dal soffitto basso, arredata da semplici mobili di legno scuro e illuminata da finestre un po’ troppo piccole. Lidia notò come il muro accanto al camino acceso fosse nero di fuliggine e non riuscì a impedirsi di storcere il naso. Erano tutti così sciatti, da quelle parti?

«Di sopra» disse il loro accompagnatore, accennando con il capo alla ripida scala di legno che conduceva al piano superiore.

Il senatore Prisco non se lo fece ripetere e subito iniziò ad arrampicarsi su per i gradini, seguito da Lidia che, sebbene non avesse gradito l’insulto che l’uomo le aveva rivolto poco prima, non aveva intenzione di rimanere da sola in un ambiente potenzialmente ostile.

La stanza in cui sbucarono era sorprendentemente luminosa, la luce lattea del cielo nuovamente ingombro di nubi dipingeva tutto di bianco e ammorbidiva i lineamenti duri dell’uomo seduto sulla poltrona in pelle scura. Distrattamente, Lidia si chiese come avesse fatto a salire fin lassù con una gamba in quelle condizioni, ma poi l’attenzione della giovane venne inevitabilmente attratta dal secondo uomo, che sedeva accanto alla finestra, su una sorta di panca ricoperta da un cuscino rosso.

Trovarsi quasi a tu per tu con Ulf la mise in un imbarazzo ancora peggiore di quello provato giù in giardino.

«Prego, sedetevi» disse Gefried, accennando con una mano ai due posti liberi sulla stessa panca dove sedeva suo figlio.

Muovendosi con una rapidità insospettabile, il senatore si accomodò all’estremità opposta rispetto a quella in cui sedeva il suo futuro genero, non lasciando a Lidia altra possibilità che sedersi tra loro due. Avvampando, la ragazza cercò di farsi piccola piccola e di non toccare con nessuna parte del corpo il germanico.

«Tremila sesterzi» esordì a bruciapelo Gefrid.

Prisco lo fissò, sporgendosi in avanti come sempre faceva quando si concentrava nel suo lavoro. «Di dote?» chiese. «Sono troppi. Il Legato mi aveva parlato di milleottocento sesterzi, duemila al massimo.»

Il germanico non cedette. «La ragazza è completamente spaesata» disse, osservando brevemente Lidia. Sentendosi addosso il peso di quello sguardo indagatore, la giovane cercò di scomparire nel muro. «Avrà bisogno di assistenza continua, durante i primi tempi.»

Il senatore scosse il capo. «Mia figlia è abituata ad arrangiarsi», mentì, «non ci metterà molto ad ambientarsi.»

«È in grado di svolgere le faccende di casa?» insistette Gefrid. «Mio figlio lavora tutto il giorno, non ha il tempo di occuparsi di una moglie inesperta.»

«Sa fare il necessario» lo rassicurò il romano. «Il resto lo imparerà; e anche in fretta. Duemila sesterzi saranno più che sufficienti per lei, di più sarebbero un furto.»

Lidia assistette con orrore crescente alla contrattazione tra i due uomini che, per quanto legittima, la faceva sentire come una manzetta al mercato del bestiame. Sapendo di non aver alcuna voce in capitolo, la fanciulla cercò di estraniarsi da quella situazione, ma così facendo divenne lentamente consapevole di essere osservata.

Non avrebbe voluto voltarsi, ma ignorare quella sensazione che le faceva formicolare le orecchie divenne presto impossibile. Lentamente, quasi con circospezione, la fanciulla ruotò il capo fino a incontrare lo sguardo azzurro di Ulf. Vedendolo da vicino, la ragazza si accorse del proprio errore. L’uomo era chiaramente più giovane di quanto non le fosse sembrato a una prima occhiata furtiva, tuttavia non lo trovava meno inquietante, né la prospettiva di sposarlo le pareva più gradevole.

Il germanico la osservò con calma, passando in rassegna al suo viso, ma senza scendere con gli occhi sul suo corpo, cosa che, in un certo senso, glielo fece apprezzare un pochino.

Sempre che non abbia già guardato prima, ovviamente, pensò, con un cinismo che non si riconosceva.

In quella strana bolla fatta di occhiate scambiate all’oscuro dei rispettivi padri, Lidia si sentì libera di studiarlo a sua volta. Anche se a lei erano sempre piaciuti gli occhi scuri, dovette ammettere che aveva dei begli occhi, azzurri come il cielo del mattino e più scuri all’esterno e, se guardava bene, poteva scorgere delle lentiggini sul naso e sulle guance. Quel particolare la fece quasi sorridere: era abituata ad accostare le lentiggini ai volti dei bambini e ritrovarle su quelle di un uomo adulto le pareva una cosa singolare. Non era oggettivamente brutto, dovette riconoscere, ma non era nemmeno il genere di uomo che avrebbe scelto. Non era Tito e, soprattutto, non era romano. E tanto bastava a non farglielo piacere. Senza contare che quei capelli così chiari e così lunghi le sembravano assolutamente fuori posto.

I capelli di Tito erano belli da accarezzare. I suoi sono troppo lunghi, mi parrebbe di accarezzare Lucilla! Quel pensiero sbucato da chissà dove la fece avvampare e la cosa non sfuggì a Ulf, che corrugò leggermente le sopracciglia, evidentemente confuso dalla causa del rossore improvviso della fanciulla. Il germanico inclinò leggermente il capo, come per studiare un enigma, e Lidia non trovò di meglio da fare che fissarlo con gli occhi spalancati, pregando che non le chiedesse nulla. Aveva appena trovato il coraggio di guardarlo, parlare con lui sarebbe stato decisamente troppo!

La voce di Gefrid la riscosse e fece esplodere quello strano momento di tranquillità. «Duemila e trecento sesterzi, senatore!» sbottò il vecchio. «Se tutti i romani fossero avari come te, il tuo glorioso impero non avrebbe certo tutti i debiti che ha adesso!»

«È un prezzo più che adeguato per la ragazza», sostenne il romano, «e non si può dire che tu sia stato generoso con le forniture di pelli, germanico, per cui ritieniti soddisfatto!»

Lidia non aveva seguito la conversazione, ma evidentemente il suo prezzo era stato fissato. Duemila e trecento sesterzi. Suo padre aveva falconi da caccia che valevano di più.

La dote non era però l’unica cosa che era stata fissata. «Tra tre giorni, allora» disse infatti Gefrid, mentre il senatore e Ulf si alzavano in piedi. «Chiedi al Legato di condurre la ragazza dalla sacerdotessa, voglio che sia pronta e che non ci siano sorprese.»

Che sorprese? Si chiese Lidia, sentendo il panico tornare ad assalirla. E poi, tre giorni? Mi sposo tra tre giorni?

La data le sembrava improvvisamente troppo vicina. La fanciulla alzò gli occhi su Ulf, ma l’uomo non incontrò il suo sguardo e il suo volto pareva essersi incupito nell’udire le parole dei due uomini. Improvvisamente Lidia capì quello che avrebbe dovuto esserle evidente già da tempo: nemmeno lui voleva sposarla.

Quella rivelazione non fece altro che accrescere il suo sconforto: un marito insoddisfatto sin dall’inizio sarebbe stato certo peggiore di uno che accettava di sposarla di buon grado, e, forse anche più difficile da tenere a bada in attesa che arrivassero i rinforzi da Roma. «Certamente» disse il senatore, rispondendo al germanico. «Mi atterrò al nostro accordo. Lidia, muoviti.»

Ignorando il pallore della figlia, l’uomo sparì giù per le scale e, dopo aver incontrato per un’ultima volta lo sguardo assorto di Gefrid, la ragazza lo seguì, rischiando di inciampare sul primo gradino a causa della nebbia che le aveva improvvisamente riempito la mente e gli occhi.

 ***



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