Lidia non era mai stata una persona
particolarmente religiosa e già da qualche anno si chiedeva
se ci fossero
davvero degli Dèi, nascosti negli angoli dei templi e nelle
profondità dei
boschi. In quel momento, quando si trovò ad abbassare il
capo sotto lo sguardo
del suo futuro marito, i suoi dubbi scomparvero definitivamente: gli
Dèi non
erano altro che una favola, altrimenti avrebbero ascoltato almeno in
parte le
sue preghiere e non l’avrebbero gettata in pasto a quello.
Se fino a un attimo prima gli occhi
dell’uomo esprimevano disprezzo, ora il suo volto era carico
di semplice,
desolante e inequivocabile schifo.
La
donna accanto a lui, la stessa che l’aveva osservata con
tanta insistenza, si
stava mordendo con forza le labbra in un disperato tentativo di non
scoppiare
di nuovo a ridere, ora che l’attenzione di tutti era
incentrata sulla persona al
suo fianco. Osservando il colore di capelli e occhi, Lidia
capì con un tremito
che lei e il suo futuro sposo non erano semplici conoscenti.
A
quanto pare mio marito mi odia già e mia cognata sembra una
pessima persona, pensò
la
fanciulla, inorridita. Peggio di
così non
poteva andare.
La sua buona educazione le stava intimando
di obbedire all’invito di Quinto e di andare a stringere la
mano a quello, ma le sue gambe si
rifiutarono
di eseguire quell’ordine e la ragazza rimase inchiodata al
terreno, attirando
su di sé le occhiate scettiche dei presenti. Notando la sua
reticenza e la
tensione che iniziava a crescere tra gli astanti, il Legato le
posò una mano
sulla schiena e, con gentilezza, la sospinse verso il suo futuro
marito. Lidia
sobbalzò e quasi incespicò, ma poi si costrinse a
riscuotersi.
Stai
solo facendo la figura dell’idiota, si disse, mentre un velo di lacrime
minacciava di appannarle gli occhi. Stringendo con forza le palpebre
per
dissiparlo, la fanciulla deglutì e poi, a piccoli passi,
quasi strisciando i
piedi sul terreno, coprì i pochi metri che la separavano da Ulf. Non riuscì a trovare il
coraggio di
alzare la testa e di guardarlo negli occhi; e così
procedette quasi alla cieca,
fermandosi solo quando una maglia di lana scura e un’alta
cintura di pelle
entrarono nel suo campo visivo. Eccoci,
pensò. Il cuore le batteva talmente forte che la giovane era
certa di essere
sull’orlo dell’infarto.
Sapendo di non poter fare nulla di
diverso, Lidia strinse i denti, desiderosa di concludere al
più presto
quell’esperienza così sgradevole, e sporse una
mano, in attesa che l’uomo la
stringesse. Quasi si aspettava che il suo fidanzato la rifiutasse, che
si
allontanasse ridendo di lei, ma dopo un attimo di indecisione la mano
dell’uomo
si strinse piano attorno alle sue dita sudate, come se anche lui
desiderasse
adempiere a quella formalità nel modo più rapido
e indolore possibile. Quando
il palmo caldo e ruvido del germanico sfiorò la sua pelle,
Lidia si accorse di
avere le mani gelate e, in un riflesso spontaneo, alzò lo
sguardo fino a
incrociare quello di Ulf: nei suoi occhi pallidi credette di leggere
ostilità,
ma anche qualcos’altro.
Compassione?
Davanti a quello sconosciuto così
alto, così diverso dagli uomini che era solita frequentare,
completamente
alieno con i suoi capelli chiari e con la barba che, sebbene
più corta di
quella di altri uomini riuniti attorno a lei, celava parte del suo
volto, Lidia
si sentì piccola e impotente come una bambina e, colta da
una nuova fitta di
paura, ritirò la mano e se la strinse al petto, come per
proteggerla. Quel
gesto suscitò l’ilarità della donna
bionda e del suo compagno dai capelli scuri
e quelle risate sommesse ferirono la fanciulla come colpi di frusta.
Ma
cosa ci faccio, io, qui?
In preda allo sconforto e a un panico
crescente, Lidia si guardò attorno, passando in rassegna a
quella gente con cui
non aveva nulla in comune. Si soffermò sul volto impassibile
di suo padre e su
quello angosciato di sua madre, poi tornò a quello del suo
fidanzato, che si
era ritratto di un passo e aveva di nuovo assunto
un’espressione fredda, e a
quello della donna bionda, i cui occhi brillavano di una luce selvaggia.
Tentando di scacciare le lacrime che
si erano di nuovo fatte avanti, Lidia si portò una mano alla
bocca. Che cosa ci faccio qui? Si
chiese una
seconda volta.
Stringendo i denti, la giovane si
impose di non piangere: in quella circostanza lei rappresentava Roma e
l’Imperatore e, sebbene in quel momento provasse ben poca
simpatia per il Divino Cesare, non
avrebbe disonorato se
stessa e la sua città scoppiando in lacrime come una bambina
impaurita. Non si
sarebbe mostrata debole davanti a tutta quella gente che, ne era
convinta,
stava solo aspettando il momento più opportuno per
approfittare della sua
fragilità.
Nonostante i suoi buoni propositi,
però, la fanciulla sentì gli occhi inumidirsi e
stava per perdere la sua
personale battaglia contro le lacrime quando una voce superò
la barriera di
angoscia e paura che la stava avvolgendo in spire sempre più
strette.
«È adeguata», disse
il vecchio sulla
sedia, parlando con uno strano accento metallico, «ma
è evidente che è provata
dal viaggio. Discuteremo in privato dei dettagli del
matrimonio.»
Lidia si voltò a guardarlo, mentre
un’ondata di gratitudine le scaldava il petto e le faceva
rotolare due grosse
lacrime giù per le guance. Grazie,
gli
avrebbe detto, se ne avesse avuto il coraggio. Non sentendosi in grado
di
compiere un gesto tanto eclatante, si limitò a rivolgergli
un debole sorriso,
che il vecchio ricambiò con un piccolo cenno del capo.
«Credo che sia una buona idea,
Gefrid»
concordò Quinto. «Donna Lidia è appena
arrivata a Erding e sono certo che
apprezzerebbe un po’ più di
tranquillità.»
Il vecchio – Gefrid,
si corresse Lidia, cercando di ricordare il nome del suo
inaspettato alleato – si alzò in piedi e subito il
più giovane dei suoi figli
corse al suo fianco, sostenendolo con discrezione. Nel far
ciò, il ragazzo
lanciò un’occhiata curiosa alla fanciulla e lei si
trovò nuovamente a
desiderare che fosse lui, l’uomo che avrebbe dovuto sposare.
«Lidia.»
La voce di Quinto la richiamò e la
ragazza raggiunse il Legato all’ombra di un albero un
po’ in disparte rispetto
al resto della gente. «Com’è
andata?» le chiese gentilmente l’uomo. La
fanciulla scosse mestamente il capo. «Male» ammise,
stringendosi nelle braccia.
«Legato, io… io non voglio sposarlo.»
Lidia sapeva che la sua era una
richiesta vana, dal momento che nessuno aveva il potere di opporsi a
una
decisione imperiale, tuttavia desiderava esprimere la propria
insoddisfazione
in tutti i modi possibili. Quinto parve sorpreso da
quell’affermazione così
diretta. «Come mai?» le chiese infatti.
Per
mille ragioni,
pensò la fanciulla, cercando di fare ordine nella sua testa.
«È
vecchio» esordì. Non era certo il motivo
principale, ma era un punto di
partenza. Quinto ridacchiò. «Non è
vecchio, ha appena compiuto venticinque anni»
le fece notare.
Quell’informazione la colse di
sorpresa, a una prima occhiata gliene avrebbe dati dieci di
più, ma la giovane
non si lasciò scoraggiare. «Mi odia, ho visto come
mi guarda» ribatté,
rabbrividendo al ricordo dello sguardo apertamente ostile che le aveva
rivolto
l’uomo.
Il Legato sospirò. «Cosa
dovrebbe dire
di te, invece? Tremavi come di fronte a un mostro. Di certo non si
sarà sentito
particolarmente lusingato.»
Lidia provò un po’ di
vergogna, ma la
sua opinione non cambiò: per lei quell’uomo era
un mostro, o per lo meno una persona con cui non voleva avere
nulla a che
fare. «Mi fa paura» confessò allora,
cercando di spiegare il terrore che l’aveva
colta qualche minuto prima. «Ho cercato di controllarmi, ma
è così. Non posso
resistere in questo posto, in questa situazione…»
La sua voce si stava di nuovo
incrinando e il Legato le posò le mani sulle spalle. Per un
attimo Lidia pensò
che l’avrebbe abbracciata, dimostrandole un affetto superiore
a quello mai
dimostratole da suo padre, ma Quinto si limitò a stringere
brevemente le dita.
«Devi essere forte, Lidia» le
disse
serio, piegandosi un po’ per guardarla negli occhi.
«Tu sei romana, so che hai
in te tutta l’energia che ti serve per affrontare questa
situazione. Non
conosco molto Ulf, è vero, ma conosco suo padre: Gefrid
è un uomo giusto. Se
sarai leale nei suoi confronti, avrai in lui un ottimo
alleato.»
Lidia annuì, stringendo i pugni e
cercando di trovare in sé quella forza che Quinto sembrava
riconoscerle e di
cui lei non aveva mai visto traccia. C’era però
una cosa che la turbava, forse
più di tutte le altre.
«E cerca di non badare troppo a
Unna»
continuò il Legato, leggendole nel pensiero.
«Unna?» chiese Lidia, senza
capire.
«La sorella di Ulf, quella ragazza
bionda che stava accanto a lui. Non ho mai avuto veramente a che fare
con lei,
ma mi è giunta voce che, effettivamente, ha un
caratteraccio. Ma tu non devi
preoccupartene.» Notando il turbamento della fanciulla,
Quinto strinse un po’
di più la presa. «Lei e Ulf sono gemelli e sono
molto legati, ma anche lei
sottostà al volere di suo padre. Fattelo amico e non avrai
problemi nemmeno da
lei.»
Quella notizia, che nelle intenzioni
del Legato avrebbe evidentemente dovuto rassicurarla, non fece altro
che
aumentare l’inquietudine di Lidia: per un breve istante,
prima di conoscere la
famiglia del suo promesso, si era illusa di poter trovare nelle donne
di casa
delle compagne in grado di alleviare la sua solitudine. Ora che aveva
visto
Unna, quella speranza era evaporata come neve al sole. Le era infatti
bastato
poco per capire che non sarebbero mai state amiche; e ora Quinto le
stava
facendo intendere che, se non fosse stata attenta, la donna avrebbe
anche
potuto essere una sua nemica dichiarata.
«Forza, Lidia» riprese ancora
il Legato.
«Non è in gioco solo il tuo futuro, lo
sai.»
La fanciulla avrebbe voluto ribattere
che no, non sapeva nulla perché suo padre non le aveva mai
rivelato i dettagli
delle circostanze che l’avevano condotta in quel villaggio
freddo e umido,
tuttavia l’attenzione di Quinto si spostò
improvvisamente su un uomo che si
stava avvicinando a loro di buon passo. «Romano»,
esordì il germanico, un uomo
con i lunghi capelli bianchi e il ventre prominente, «Gefrid
vuole parlare con
la donna e con suo padre. Adesso.»
«Li accompagno subito da lui»
si offrì
Quinto, ma il germanico scosse il capo.
«Solo la donna e suo padre»
sottolineò,
perentorio. Il Legato alzò le mani in segno di resa e fece
cenno a Lidia di
seguire lo sconosciuto con i capelli bianchi. A malincuore, la giovane
obbedì e
si incamminò alle spalle del suo accompagnatore, che
attraversò rapido il
giardino e si avvicinò al padre della fanciulla.
«Senatore» esordì il
germanico, utilizzando il titolo di cui suo padre andava tanto fiero,
ma riuscendo
in qualche modo a pronunciarlo in un tono che lo fece sembrare tutto
fuorché un
titolo onorifico. «Gefrid desidera discutere con te i termini
del matrimonio.»
Il romano annuì, facendo cenno alla
moglie di restare lì seduta ad aspettarlo.
«Bene», sbuffò, «questa
sceneggiata
è durata fin troppo.»
«E tu», disse poi, rivolgendosi
alla
figlia, «cerca di comportarti come se in quella tua testa ci
fosse qualcosa di
diverso dalla segatura. Prima sei stata patetica.» Lidia
chinò il capo,
incassando in silenzio l’offesa, e per la prima volta si
ritrovò a pensare che,
forse, essere lontana dagli insulti di suo padre non sarebbe stato poi
un
grosso svantaggio.
Il barbaro li condusse di nuovo in
casa e, questa volta, la ragazza si guardò attorno, cercando
di trovare
qualcosa di piacevole in quell’ambiente tanto diverso dalla domus che aveva lasciato a Roma. Il
bianco con cui erano dipinte le pareti non era sufficiente per far
sembrare più
grande l’unica stanza angusta, dal soffitto basso, arredata
da semplici mobili
di legno scuro e illuminata da finestre un po’ troppo
piccole. Lidia notò come
il muro accanto al camino acceso fosse nero di fuliggine e non
riuscì a
impedirsi di storcere il naso. Erano tutti così sciatti, da
quelle parti?
«Di sopra» disse il loro
accompagnatore, accennando con il capo alla ripida scala di legno che
conduceva
al piano superiore.
Il senatore Prisco non se lo fece
ripetere e subito iniziò ad arrampicarsi su per i gradini,
seguito da Lidia che,
sebbene non avesse gradito l’insulto che l’uomo le
aveva rivolto poco prima,
non aveva intenzione di rimanere da sola in un ambiente potenzialmente
ostile.
La stanza in cui sbucarono era
sorprendentemente luminosa, la luce lattea del cielo nuovamente
ingombro di
nubi dipingeva tutto di bianco e ammorbidiva i lineamenti duri
dell’uomo seduto
sulla poltrona in pelle scura. Distrattamente, Lidia si chiese come
avesse
fatto a salire fin lassù con una gamba in quelle condizioni,
ma poi
l’attenzione della giovane venne inevitabilmente attratta dal
secondo uomo, che
sedeva accanto alla finestra, su una sorta di panca ricoperta da un
cuscino
rosso.
Trovarsi quasi a tu per tu con Ulf la
mise in un imbarazzo ancora peggiore di quello provato giù
in giardino.
«Prego, sedetevi» disse
Gefried,
accennando con una mano ai due posti liberi sulla stessa panca dove
sedeva suo
figlio.
Muovendosi con una rapidità
insospettabile,
il senatore si accomodò all’estremità
opposta rispetto a quella in cui sedeva
il suo futuro genero, non lasciando a Lidia altra
possibilità che sedersi tra
loro due. Avvampando, la ragazza cercò di farsi piccola
piccola e di non toccare
con nessuna parte del corpo il germanico.
«Tremila sesterzi»
esordì a bruciapelo
Gefrid.
Prisco lo fissò, sporgendosi in avanti
come sempre faceva quando si concentrava nel suo lavoro. «Di
dote?» chiese. «Sono
troppi. Il Legato mi aveva parlato di milleottocento sesterzi, duemila
al
massimo.»
Il germanico non cedette. «La ragazza
è completamente spaesata» disse, osservando
brevemente Lidia. Sentendosi
addosso il peso di quello sguardo indagatore, la giovane
cercò di scomparire
nel muro. «Avrà bisogno di assistenza continua,
durante i primi tempi.»
Il senatore scosse il capo. «Mia
figlia è abituata ad arrangiarsi»,
mentì, «non ci metterà molto ad
ambientarsi.»
«È in grado di svolgere le
faccende di
casa?» insistette Gefrid. «Mio figlio lavora tutto
il giorno, non ha il tempo
di occuparsi di una moglie inesperta.»
«Sa fare il necessario» lo
rassicurò
il romano. «Il resto lo imparerà; e anche in
fretta. Duemila sesterzi saranno
più che sufficienti per lei, di più sarebbero un
furto.»
Lidia assistette con orrore crescente
alla contrattazione tra i due uomini che, per quanto legittima, la
faceva
sentire come una manzetta al mercato del bestiame. Sapendo di non aver
alcuna
voce in capitolo, la fanciulla cercò di estraniarsi da
quella situazione, ma
così facendo divenne lentamente consapevole di essere
osservata.
Non avrebbe voluto voltarsi, ma
ignorare quella sensazione che le faceva formicolare le orecchie
divenne presto
impossibile. Lentamente, quasi con circospezione, la fanciulla
ruotò il capo
fino a incontrare lo sguardo azzurro di Ulf. Vedendolo da vicino, la
ragazza si
accorse del proprio errore. L’uomo era chiaramente
più giovane di quanto non le
fosse sembrato a una prima occhiata furtiva, tuttavia non lo trovava
meno
inquietante, né la prospettiva di sposarlo le pareva
più gradevole.
Il germanico la osservò con calma,
passando in rassegna al suo viso, ma senza scendere con gli occhi sul
suo
corpo, cosa che, in un certo senso, glielo fece apprezzare un pochino.
Sempre
che non abbia già guardato prima, ovviamente, pensò, con un cinismo che non si
riconosceva.
In quella strana bolla fatta di
occhiate scambiate all’oscuro dei rispettivi padri, Lidia si
sentì libera di
studiarlo a sua volta. Anche se a lei erano sempre piaciuti gli occhi
scuri,
dovette ammettere che aveva dei begli occhi, azzurri come il cielo del
mattino
e più scuri all’esterno e, se guardava bene,
poteva scorgere delle lentiggini
sul naso e sulle guance. Quel particolare la fece quasi sorridere: era
abituata
ad accostare le lentiggini ai volti dei bambini e ritrovarle su quelle
di un
uomo adulto le pareva una cosa singolare. Non era oggettivamente brutto, dovette riconoscere, ma non era
nemmeno il genere di uomo che avrebbe scelto. Non era Tito
e, soprattutto, non era romano.
E tanto bastava a non farglielo piacere. Senza contare che quei capelli
così
chiari e così lunghi le sembravano assolutamente fuori posto.
I
capelli di Tito erano belli da accarezzare. I suoi sono troppo lunghi,
mi
parrebbe di accarezzare Lucilla! Quel pensiero sbucato da chissà dove
la fece avvampare e la cosa non sfuggì a Ulf, che
corrugò leggermente le
sopracciglia, evidentemente confuso dalla causa del rossore improvviso
della
fanciulla. Il germanico inclinò leggermente il capo, come
per studiare un
enigma, e Lidia non trovò di meglio da fare che fissarlo con
gli occhi
spalancati, pregando che non le chiedesse nulla. Aveva appena trovato
il
coraggio di guardarlo, parlare con lui sarebbe stato decisamente troppo!
La voce di Gefrid la riscosse e fece
esplodere quello strano momento di tranquillità.
«Duemila e trecento sesterzi,
senatore!» sbottò il vecchio. «Se tutti
i romani fossero avari come te, il tuo
glorioso impero non avrebbe certo tutti i debiti che ha
adesso!»
«È un prezzo più
che adeguato per la
ragazza», sostenne il romano, «e non si
può dire che tu sia stato generoso con
le forniture di pelli, germanico, per cui ritieniti
soddisfatto!»
Lidia non aveva seguito la
conversazione, ma evidentemente il suo prezzo era stato fissato.
Duemila e
trecento sesterzi. Suo padre aveva falconi da caccia che valevano di
più.
La dote non era però l’unica
cosa che
era stata fissata. «Tra tre giorni, allora» disse
infatti Gefrid, mentre il
senatore e Ulf si alzavano in piedi. «Chiedi al Legato di
condurre la ragazza
dalla sacerdotessa, voglio che sia pronta e che non ci siano
sorprese.»
Che
sorprese? Si chiese
Lidia, sentendo il panico tornare ad assalirla. E poi,
tre giorni? Mi sposo tra tre giorni?
La data le sembrava improvvisamente troppo
vicina. La fanciulla alzò gli occhi su Ulf, ma
l’uomo non incontrò il suo
sguardo e il suo volto pareva essersi incupito nell’udire le
parole dei due
uomini. Improvvisamente Lidia capì quello che avrebbe dovuto
esserle evidente
già da tempo: nemmeno lui voleva sposarla.
Quella rivelazione non fece altro che
accrescere il suo sconforto: un marito insoddisfatto sin
dall’inizio sarebbe
stato certo peggiore di uno che accettava di sposarla di buon grado, e,
forse
anche più difficile da tenere a bada in attesa che
arrivassero i rinforzi da
Roma. «Certamente» disse il senatore, rispondendo
al germanico. «Mi atterrò al
nostro accordo. Lidia, muoviti.»
Ignorando il pallore della figlia,
l’uomo sparì giù per le scale e, dopo
aver incontrato per un’ultima volta lo
sguardo assorto di Gefrid, la ragazza lo seguì, rischiando
di inciampare sul
primo gradino a causa della nebbia che le aveva improvvisamente
riempito la
mente e gli occhi.
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