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Autore: PawsOfFire    21/10/2017    3 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Note iniziali:
Buongiorno! con questo capitolo si conclude la prima parte della storia. Non ci sarà nessun cambiamento, dato che continuerà sempre qui.
Il capitolo ha la stessa struttura di quello precedente: la prima parte è il PV del Capitano. Il secondo, dopo il simbolo ~ tratta il PV di Daniel.

Buona lettura!



Osservai con una certa soddisfazione i carri sepolti fino alle torri e ricoperti di foglie e di arbusti.
“Ottimo lavoro, compagnia” ammisi, concedendo loro un piccolo applauso.
“Insieme abbiamo fatto un lavoro formidabile...”
“Grazie al cazzo” obiettò un Tom comodamente seduto sulla torretta della Furia e stranamente intento a fumarsi una sigaretta.
“Lei non ha mosso un dito”
“Mi ferisce dicendo così, Weisz” portai una mano al cuore, fingendo di provare commozione.
“Ho amministrato egregiamente il lavoro, quindi è come se avessi fatto tutto da solo.
Inoltre sta mettendo in dubbio la mia parola di Capitano quindi, se non fosse per la mia magnanimità lei ora starebbe penzolando su un albero-”
Lo vidi fremere nel tentativo di replicare ma, per sua fortuna, ebbe abbastanza sale in zucca da tenere a freno la lingua e sfogare le sue frustrazioni sulla sigaretta.
Con un po’ di fortuna forse avremmo potuto anche uscirne vincitori da questo scontro.
Stando ai nostri ricognitori i russi avevano deciso di riorganizzare la loro avanzata, frammentandosi per poterci attaccare in più punti ed evitare…

“La manovra a tenaglia?”
“...Capitano Faust, lasci fare a me. Non funziona così.”
“...Ah, davvero?”

Davanti alla sua brutta scrivania, nel suo surrogato di ufficio, il Colonnello invitò a sedermi. Mi offrì anche un caffè dal gusto di acqua sporca.
“Se i russi arrivano da qui” tracciò una testa di cuneo su un foglio, indicandola con una stellina “e noi siamo qui-”
“Mi scusi, ma perché noi siamo un pallino minuscolo e loro sono molto più grandi?”
“...Se la cinquantesima compagnia è stanziata qua, la trentottesima qui e la ventiduesima qui...” segnò altri puntini, indicandoli con delle piccole crocette stranamente simili a delle lapidi “ e chiudiamo i russi da tutti i fronti, ecco la manovra a tenaglia”
“...Non capisco il mio errore”
Il Colonnello sbuffò.
“Li ha disposti a freccia, ecco cosa ha fatto!”
“...E’ una tenaglia nella tenaglia...”
“Inoltre mi pare di aver capito che voi abbiate consumato una grande quantità di esplosivo...”
“Un mio sottoposto ha deciso di minare la terra per favorire lo scavo! Non lo avevo nemmeno notato fin quando è successo...”
Vidi l’ampia fronte dell’uomo corrugarsi in un cartoccio di emozioni, cercando a tutti i costi di convincersi che andava tutto bene e presto avrebbe scritto deliziose lettere a casa delle nostre famiglie, mentendo sulla nostra tragica e fessa dipartita.

 

Richiamai il pittore pazzo nel mio personalissimo...ufficio.
In realtà non aveva nulla che ne ricordasse le fattezze, nemmeno il tetto o una scrivania.
Un ceppo come sedia, il cielo sulla testa e la fitta boscaglia alla finestra che si perdeva a vista d’occhio. Romantico.
Il soldato si presentò in ritardo, portando con sé una tavola di legno e due sigarette perfettamente incastrate tra gli incisivi mancanti.
Io, a gambe larghe e plico di documentazione ( al solo scopo di creare un’aura di ufficialità) feci schioccare le dita, rivolgendogli un’occhiata severa.
“Si accomodi”
Non c’erano altri posti dove accomodarsi ma, essendo pazzo, il pittore si sedette a mezz’aria, come se avesse una sedie invisibile sotto le chiappe.
“Ciò che ha fatto è molto grave”
“...Perchè, che ho fatto?”
“Stando alla documentazione, lei pare abbia utilizzato circa cinque Bombe a mano, due testate Panzerfaust ed una quantità poco definita di esplosivo a distanza per scavare un fosso”
In risposta il pittore rise di gusto, rischiando di perdere l’equilibrio già...precario.
“Ah! Pero ci ho messo poco e sono tornato a dipingere.
L’ho portato con me...guarda qui.”
Una bucolica scena di medicina da campo. Un’infermiera, nuda, dai seni giganteschi, china, con sguardo impegnato che effettua un’operazione ravvicinata su un povero soldato tedesco.
Un carrista. Ah, un autoritratto. E quelli non sembrano attrezzi chirurgici.
...Non sta operando il paziente, sta…
“Le piacciono i miei affreschi erotici? Come quelli di Pompei!”
“Le sue capacità artistiche lasciano a desiderare”
Il pittore balzò in piedi, paonazzo.
“Lei non sa nulla di arte! Questo è un Courbet migliorato! Glielo regalo, vale molto più degli esplosivi!”
Fu così che il vecchio Chagall mi cacciò tra le mani l’orribile pezzo da stufa, scappando a gambe levate dalla mia giurisdizione.
A posteri fui felice di aver accettato quel pezzo d’arte. L’ho riutilizzato per frollare l’oca.
Spurga che è una meraviglia.

 

Quando la vedetta intravide i primi russi e diede l’allarme noi, prevenuti, eravamo già in postazione.
Fingendo immenso rammarico ordinai al pittore di supportare quel ciuffo di fanteria rimasta con la mitragliatrice MG 42 in un apposito fosso che gli avevo fatto scavare sotto strettissima sorveglianza. Dovendo addossare le colpe su qualcuno, scelsi lui, già accusato di aver sprecato inutilmente esplosivo.
Per aumentare le nostre chance di sopravvivenza avevamo costruito alla meglio una linea fortificata in cemento terminanti in due casematte dalle quali si intravedeva il brillio delle canne delle mitragliatrici.
I russi avanzavano senza fretta e senza aerei, lasciando che una nutrita schiera di T-34 aprisse la strada mentre la fanteria, allarmata, si divideva in gruppi per tentare di raggirarci.
“Bene”
Acquattato nella mia postazione come un coccodrillo sornione, lasciai che fossero solo i binocoli a sporgere dal cassonetto. Essendo inutile come pilota, rilegai occasionalmente Tom al ruolo di serviente marconista.
Invisibili agli occhi nemici, diedi l’ordine di aprire il fuoco.
Dieci bocche di Panther si rovesciarono contro il nemico sfruttando il fattore sorpresa.
Puntammo dritti alle deboli torri, squarciandone il metallo e ferendo servienti e cannonieri.
La prima linea si fermò, destabilizzata. Un Capocarro fece capolino dal suo cassettone barcollante per rientrare poco dopo.
Da una seconda fila sbucarono alcuni cacciacarri, piatti e veloci. Frontalmente era impossibile prenderli e, dalla nostra cortina di cannoni sepolti, non avevamo possibilità di muoverci per colpire i fianchi molli.
Genialmente avevo previsto tutto nella mia manovra a tenaglia nella tenaglia. Bastava che avanzassero in linea retta, frontalissimi, e sarebbero stati colpiti dai carri distanti che si trovavano alla fine della punta di freccia che avevamo creato.
Facile, no?
Peccato che, furbissimi, si limitarono a distruggere la microscopica linea fortificata, puntando alle casematte…
Aprendo il fuoco. Si scontrarono brutalmente contro le cementificazioni, facendo ruggire i motori invano.
“Adesso la nostra fanteria li ricoprirà di bombe anticarro...”
“Capitano, là dentro ci sono quelli della nostra compagnia!” Sbraitò Martin, cercando di farsi spazio per osservare dal periscopio quello che stava accadendo.
“...”
Ah già.
Non avevamo bombe anticarro. Quel brutto stronzo del pittore le aveva consumate per il suo fossato.
Enorme e larghissimo, talmente profondo da poterci seppellire una piccola fregata.
Osservammo inermi il carro nemico stuprare la casamatta con il suo lanciafiamme, estraendo dalla finestrella il cannone gocciolante di pece con una certa soddisfazione.
Mentre in sordina le mitragliatrici alleate continuavano a schioccare, ordinai un secondo attacco allo scafo di un carro medio russo che aveva deciso di avanzare un po’ troppo. Stridendo, il T-34 cercò invano di fiancheggiarci, confuso dal magnifico camuffamento della nostra torretta. Non riusciva a vederci, così preferimmo suggerirgli la nostra posizione bucandogli il motore, lasciando il suo equipaggio inerme di fronte ad un motore caldo e gocciolante che prendeva fuoco.
Mentre la trentottesima compagnia del reggimento panzer scendeva verso di noi, accerchiando i russi e chiudendoli in una pericolosissima tenaglia, il cacciacarri fiammeggiante continuò la sua avanzata. Accanto a lui un suo clone, equipaggiato questa volta con un cannone ordinario, aprì il fuoco verso uno dei nostri Panther, perforando la torre senza lasciargli speranze.
Mentre ingaggiavamo lo scontro con un altro carro medio, una palla di cannone sfiorò la mia postazione, perdendosi nel nulla.
Mi sentii miracolato.
Non so quanti riuscimmo ad abbatterne. Quando anche l’ultima compagnia riuscì ad accerchiare i russi, chiudendoli definitivamente senza possibilità di ritirata, ne contai almeno tre.
I miei uomini erano stati utilizzati come esche. Immobili, molti carri vennero macellati ogni qualvolta venivano scoperti.
“Colpa della tenaglia nella tenaglia!” sbottò un sudatissimo Tom mentre tranciava una fila di carristi in fuga con la sua mitragliatrice.
“La tenaglia a tenaglia funziona benissimo” Risposi, pulendomi gli occhiali scuri di olio e fuliggine.
“Siamo rimasti in cinque-”

“QUATTRO!”
Prima che la situazione ci sfuggisse di mano ordinai ai miei uomini la ritirata, abbandonando dal retro la Furia dalla torretta squassata.
“Capitano, Achen è stato ferito!”
“Jager, fallo uscire di lì!”
A spintoni, in una scombussolata fuga, riuscimmo ad estrarre il cannoniere privo di sensi.
“Andiamo, lo carico io. Jager, dammi una mano...”
Sostenuto da Martin, caricammo Klaus in spalla e lo portammo via da quell’inferno che lentamente iniziava a prendere fuoco. Tom, armato di mitraglietta, ci guardava le spalle.

Avanzammo fino a raggiungere la fanteria seminascosta nella fitta boscaglia.
Il colonnello, ancora alle prese con il telefono da campo, sbraitava una disperata richiesta dell’intervento aereo, sua ossessione.
“Presto sarà tutto finito” commentai, adagiando il povero Klaus contro un enorme abete. Respirava piano, ad occhi chiusi. Non aveva ferite superficiali e questo mi faceva sperare, nonostante avesse preso un brutto colpo alla testa.
Con le mitragliatrici fornimmo un ultimo supporto alla fanteria, osservando elettrici gli ultimi echi di cannone scomparire, inghiottiti dalla nebbia serale.
Quando il cacciacarri armato di lanciafiamme venne abbattuto, la pace tornò a vegliare su tutti noi.
Rotolai esausto nella fanghiglia umida, ridacchiando.
“La tenaglia nella tenaglia ha funzionato!”

 

~

Durante la mia silenziosa convalescenza riuscii a trarre le dovute conclusioni.
Questi russi dovevano essere semplici civili, Ciò non toglie che fossero affiliati con qualche organizzazione partigiana dato che, accanto alla stufa di ghisa, nascondevano molti fucili di fabbricazione mista, sia russi che tedeschi.
Ogni giorno mi davano del pane ed un bicchiere di una bevanda dolce e rossastra, dentro la quale galleggiavano pezzi di more dalla consistenza quasi spalmabile.* Non era molto meno di quanto mangiassi nell’esercito, così riuscivo a farmelo bastare. L’importante era riuscire a stringere i denti durante la notte, quando la fame si faceva insopportabile.
Tutto sommato non dovevo lamentarmi. Il vecchio mi sorvegliava a vista, nonostante non riuscissi a muovermi senza l’aiuto di qualcuno. L’unica volta che provai a gattonare per uscire feci del gran baccano e svegliai una donna corpulenta che mi ricacciò in un angolo a calci negli stinchi.
Ogni giorno provavano a farmi parlare. Volevano che spifferassi alcune informazioni ma non riuscivo a capire quali, così stavo zitto fin quando loro non perdevano la pazienza e mi lasciavano di nuovo solo. Mi consolava sapere che non mi volessero morto e che continuassero a darmi da mangiare.
Almeno loro, intendo. Oramai ero considerabile come disertore, quindi anche alla mia gente era caldamente consigliato spararmi a vista, nonostante fosse preferibile la cattura da vivo.
Una volta sognai di essermi perso, di camminare per ore nei boschi d’autunno dai cieli plumbei fino ad incontrare il Capitano Faust stretto nel suo completo da parata, con il cappello incoronato dalle foglie di quercia come un ufficiale di alto grado.
Era seduto su un gigantesco sasso grigio, a gambe larghe, intento a fumare una sigaretta.
“Questo è il capolinea” mi disse, esalando una nuvola di fumo scura, che si andò a mescolare con la fitta nebbia fino a scomparire.
“Hai paura?”
“Un po’” esitai.
Mi sorrise, portandosi nuovamente la sigaretta alle labbra.
“Cosa credi ci sia, dopo?”
“Beh...credo ci sia il Paradiso. O l’inferno, per quelli che si sono comportati male”
Rise di gusto, abbassando lo sguardo. Ne ebbi sollievo, perché non riuscivo a tenere lo sguardo fisso su di lui. Era inquietante.
“Pensi di essertelo meritato, il Paradiso?”
“...Non lo so. Quando ero a casa andavo sempre ad assistere alla funzione. Inoltre prego ogni notte. Penso di si...”
“Una volta” mi interruppe il Capitano, inspirando profondamente “ho visto una fila di russi che marciava in colonna. Li abbiamo investiti con il carro armato, uno ad uno. Sembrava di guidare sulla riva di un fiume pieno di ciottoli grossi come meloni”
“Non ha senso”
“Erano armati, potevamo morire”
“Capitano, non capisco. Cosa sta cercando di dirmi?”
Rise di gusto, gettando la sigaretta a terra. La osservammo spegnersi con gli occhi gonfi di lacrime.
“Non so se esista qualcosa dopo la morte. Ma sono sicuro che non ci sarà nessun Paradiso per noi. L’inferno lo stiamo già vivendo in terra, ogni giorno. Al massimo proseguiremo quello che stiamo già facendo.”
“Ma non è colpa nostra, stiamo solo seguendo gli ordini!”
“Lo facciamo per sopravvivere. Smetti di farlo e diverrai un Martire”
Urlai nel sonno come nella vita reale.
Mi svegliarono con il calcio del fucile nello stomaco e solo a quel punto capii che si trattasse di un sogno.
Che sciocco per non averlo subito capito, era così ovvio!
Il Capitano non è mai stato così intelligente.

Il sole era alto nel cielo, penso fosse mezzogiorno. I russi erano tutti impegnati a sbrigare faccende domestiche, così ero rimasto da solo assieme al vecchio minaccioso , intento ad intagliare figurine di legno accanto alla stufa.
Annoiato, osservavo con vago interesse le schegge che schizzavano dal coltello affilato. Quando si accorse di essere osservato, l’uomo digrignò i denti marci in una specie di sorriso irrisorio, mostrandomi la sua creazione.
Un cigno grosso quanto il palmo di una mano in gran parte ancora abbozzato ma che, da un lato, iniziava già a mostrare le piccole e minuziose intarsiature finali, come l’incavatura del becco e le piccole piume che adornavano il collo longilineo.
“Bello” dissi, restituendolo al suo proprietario.
In risposta il vecchio rise, tornando a scolpire la sua creatura.

La gamba aveva smesso di farmi male, nonostante fosse avvolta da un irresistibile prurito. “Era sensibile e presto sarei tornato a camminare” costatai, osservando con una certa soddisfazione l’arto che miracolosamente si stava rinsaldando nel modo giusto.
Passavo le mie giornate a terra, osservando sordo le immagini che si sovrapponevano ripetitivamente giorno dopo giorno. Continuai a studiare per un po’ il vecchio scultore fin quando, ipnotizzato da quel lento e preciso lavoro manuale, mi assopii per un paio d’ore.
Dormii profondamente senza accorgermi di nulla, come molte volte, destato improvvisamente da un calcio negli stinchi.
Aprì gli occhi di scatto e ciò che vidi non mi piacque per nulla.
Avevo un’idea molto vaga di dove fossero stanziate le nostre truppe, sapevo che stavano iniziando a ritirarsi a sud ma non mi aspettavo di essere svegliato da un waffen-ss. Anche ad occhi aperti mi diede un altro calcio, facendomi uggiolare come un cane.
Strinsi i denti e cercai di non emettere suono, sperando di passare come un povero contadino russo ferito.
Un tentativo molto vano, dato che indossavo la camicia grigia di ordinanza ed i pantaloni della stessa.
Il soldato aveva si e no la mia età, con un visetto lentigginoso e liscio, segnato appena da un ciuffo di baffi rossi quasi invisibili ma che portava orgogliosamente, sentendosi già uomo.
Mi osservò curioso per un po’, cercando di comunicare con me.
Non riusciva a capire cosa fossi ed io di certo non potevo aiutarlo, dato che, oramai. nemmeno io lo sapevo.
Dato che non rispondevo alle sue domande, il soldato pensò che fossi un ausiliare ucraino. Leggevo con fatica i movimenti delle sue labbra, rielaborando mentalmente le frasi con calma, trattenendo la voce fin quando un suo compagno non si decise a chiamarlo, facendolo uscire di casa.
Si sarebbero occupati più tardi di me...oramai ero un morto che cammina.
Cioè, no. Un morto e basta, dato che non potevo muovermi.
Mi guardai attorno. La mobilia era ancora perfettamente intatta. Mancava solo il vecchio con il fucile: aveva lasciato il cigno sul tavolo, tristemente adagiato sul fianco.
In queste condizioni non potevo di certo scappare. Sapevo, però, che questi russi avevano nascosto un nutrito numero di armi dentro una botola, non molto lontano da
me.
Scivolai gattonando verso di essa. Avevo le membra intorpidite per l’inedia, le giunture che pizzicavano ed il cuore a mille per la paura.
Diedi una fugace occhiata all’esterno, oltre la porta aperta: un massiccio uomo in divisa, forse un tenente, dava ordini confusi ai ragazzini che trotterellavano da una parte all’altra della fattoria, tenendo saldi tra le braccia i fucili lunghi e grigi.
A quanto pare c’era stato uno scontro a fuoco. La repressione sarebbe stata durissima.
Ed io, povero cane, sarei stato fucilato senza essere processato.
Venderò cara la pelle.

Presi un fucile sovietico. Uno leggero, con il calcio mimetico, ancora carico.
Rannicchiandomi contro al muro, lo strinsi forte al petto, cercando di calmarmi.
Le mani mi tremavano ma, tutto sommato, fui soddisfatto di riuscire a trattenere lo stimolo senza farmela addosso per l’ennesima volta.
Fuori i soldati stavano radunando tutti i russi e tutte le bestie. Intravidi un porco correre ed un giovane impacciato che lo inseguiva, imbrattato di fango mischiato al soffice piumino di gallina.

Ed eccomi, finalmente.
Il ragazzo lentigginoso tornò a farmi visita.
Assieme a lui un uomo decisamente più vecchio ed avanti coi gradi...il tenente di prima. Doveva avere almeno quarantacinque anni portati decisamente male, con la cintura che schiacciava una pancia malamente nascosta. Ma, nonostante questo, conservava i lineamenti di un soldato austero e severo, che sapeva farsi rispettare.
Vedendomi armato, l’uomo portò la mano destra alla pistola.
Una finta? Una minaccia?
Aveva forse detto qualcosa? ero sordo e traboccante di paura, così feci l’unica cosa che riuscii ad elaborare.
Sparargli.
Alllo stomaco, perforandolo da parte a parte.
L’uomo si portò una mano alla ferita, strabuzzando gli occhi con stupore.
Improvvisamente mi sentii come se fossi stato colpito da una scarica elettrica.
Le immagini mi passarono davanti come un treno in un vortice di colori che mi strizzava lo stomaco in un riflusso di bile che tentavo a tutti i costi di reprimere mentre osservavo la divisa grigia del graduato gonfiarsi di sangue.
Sparai ancora.
E ancora.
E ancora.
Tiri maldestri ed imprecisi. La spalla bruciava più delle mie dita incapaci che, più volte, avevano toccato la canna bollente dell’arma, cieche al dolore ma che reagivano alla paura con la violenza.
Oramai l’uomo giaceva a terra e, accanto a lui, la recluta che lo aveva accompagnato.
Un proiettile gli aveva strisciato il fianco, strappandogli i vestiti e strinandogli il costato magro e rosso.
Eravamo entrambi paralizzati. Giovani e desiderosi di vivere, nessuno dei due voleva fare la prima mossa.
In un’altra vita, in un altro mondo, avremmo potuto essere amici. Compagni di banco, di bevute, di sport.
Invece ci ritrovavamo l’uno contro l’altro. Avevamo combattuto per la stessa bandiera che improvvisamente ero stato costretto a voltare contro le mie volontà.
Per questo dovevo morire.
Lo sguardo colmo di paura dell’altro sosteneva il mio mentre caricava il fucile.
Altri caschetti color muffa si precipitarono ad assistere alla scena. Sicuramente avevano sentito lo sparo e adesso, piccoli arrivisti, erano pronti ad uccidermi per vendicare la morte del loro superiore.
Mi ritrovai circondato da canne dei fucili.
La mia patria reclamava il mio sangue, ma la vita mi è cara ed io sono fautore del mio destino.
Le dita bruciavano, la gamba prudeva, la spalla rimbombava per il rinculo del fucile.
Ma io, nessun altro avrebbe deciso della mia vita.
Girai il fucile, sordo di orecchi come di paura, lasciando che la canna bollente mi corrodesse le labbra per l’ultima volta-


Uno schizzò di sangue si schiantò contro le pareti di legno marrone, prendendo la grottesca forma di una stella rossa, presagio nefasto di sconfitta.
Trivellato di buchi, i giovani ebbero la loro vendetta. Giustiziarono i contadini, uccisero il bestiame e lasciarono che un immenso rogo inghiottisse la vallata.


*Kompot: bevanda russa a base di frutta e zucchero

Note Finali:
Un po' di ringaziamenti, dovutissimi, per tutti coloro che mi hanno supportato leggendo e recensendo questo racconto.
Old Fashioned, Sagas, MiciaSissi, Morgengabe, Makil_ , Lady_Tuli ed alla mia silenziosa beta. Sto che stai leggendo! Grazie infinitamente per aver creduto in questa storia!  30 capitoli iniziano ad essere parecchi, molto lo devo a voi, al vostro supporto.
Alla seconda parte, allora!

 

   
 
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