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Autore: Adeia Di Elferas    22/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Bianca, hai un momento?” chiese Caterina, intercettando la figlia che stava raggiungendo la sala delle letture con un libro sotto al braccio.

La figlia annuì subito e la seguì senza esitazioni. Il tono con cui le aveva parlato era abbastanza piatto e questo aveva messo in tensione la ragazza, che non sapeva mai che aspettarsi, quando sua madre voleva parlare a tu per tu. Con la confusione che stava crescendo sui confini, temette che l'argomento potesse essere il suo matrimonio con Astorre Manfredi.

“Tu e Giovanni andate d'accordo, mi pare.” cominciò a dire la Sforza, non appena furono in un punto del corridoio molto riparato.

Non si sentiva quasi alcun rumore, se non in lontananza qualche grido del capomastro che guidava i lavori al mastio.

Bianca occhieggiò verso la madre, passando nervosamente una mano sulla copertina del volume che stringeva sul petto, colpita soprattutto dal fatto che lei si fosse riferita al Medici usando il nome di battesimo. Perché era certa che stesse parlando dell'ambasciatore di Firenze.

“Sì, andiamo d'accordo...” confermò la giovane, mentre la Contessa emetteva un silenzioso sospiro.

Per un momento infinitesimale, Bianca temette che sua madre si fosse fatta un'idea sbagliata. Poi, però, quando la Tigre riprese a parlare, la figlia comprese che il tono del discorso era completamente diverso.

“Io e Giovanni ci sposeremo, presto. È questione di giorni.” confessò Caterina, non riuscendo a guardare Bianca se non di sfuggita.

La ragazza ci pensò sopra un momento. Come altri, aveva anche lei sentito le chiacchiere su sua madre e il fiorentino e, non essendo cieca, aveva visto benissimo quanto lui apparisse preso da lei.

Inoltre, non le erano sfuggite nemmeno le uscite che facevano e che spesso si protraevano fino al mattino seguente. Per quanto a volte si sentisse spaventosamente ingenua, Bianca era abbastanza sveglia da sapere benissimo che cosa facevano, mentre erano via.

Tuttavia, non credeva che sua madre sarebbe arrivata a un passo così deciso, soprattutto con la guerra che stava per scoppiare. In fondo, se Imola e Forlì erano sopravvissute all'ultima guerra, era stato solo perché la Contessa alla fine non si era mai schierata troppo nettamente né per un fronte né per l'altro, saltando sempre da un alleato all'altro prima che fosse troppo tardi.

“Lo sposate per interesse?” chiese la giovane, cercando di capire da dove fosse scaturita quella decisione, che le pareva anche troppo repentina.

“Credi che potrei sposare un uomo solo per interesse?” chiese la Sforza, un po' ferita dalla domanda della figlia.

“Io... Non lo so.” ammise Bianca, passandosi la lingua sulle labbra e guardando il corridoio, quasi sperando che arrivasse qualcuno a levarla d'impiccio.

“Non lo sposo solo per interesse.” disse allora Caterina, con secchezza.

“Credevo che dopo il Barone Feo voi non...” trovò il coraggio di dire Bianca, salvo poi pentirsi di aver parlato, visto lo sguardo acceso che la madre le aveva appena lanciato.

“Lo credevo anche io, ma la realtà è questa. Giacomo è morto, Giovanni è vivo.” disse a malincuore la Tigre: “Forse un giorno mi capirai.”

Bianca annuì, pur restando convinta che non l'avrebbe compresa mai, e poi chiese: “Posso andare ora?”

“Prima voglio sapere se hai qualcosa in contrario a questo matrimonio.” la fermò un attimo la Leonessa.

“No, nulla.” fece la ragazza, con sincerità: “Anzi, sono convinta che un uomo come lui non possa che farvi bene.”

Caterina annuì e le diede tacitamente ragione.

Bianca parve un po' imbarazzata, ma alla fine chiese: “Quando vi sposerete, potrò venire anche io al matrimonio?”

La Tigre non si era aspettata quel genere di richiesta, perciò ci mise un po', prima di rispondere, ma alla fine concesse: “Certo.”

Al che la figlia le sorrise brevemente: “Sono felice per voi. Lo dico davvero.” e senza lasciare alla madre il tempo di dire altro, la giovane fece una mezza riverenza e, sempre stringendosi al cuore il libro che portava con sé, attraversò il corridoio a passo svelto, sparendo su per le scale.

 

Giovanni Sforza fissò Giacomino senza dire niente. Stava scendendo la sera nel suo palazzo romano e dalla finestra non filtravano che pochi raggi del sole morente.

“Avete sentito tutto con le vostre orecchie?” chiese piano il signore di Pesaro, tenendo le mani sulle ginocchia, aggrappate alla stoffa delle brache per impedire loro di tremare.

Giacomino annuì con gravità e e poi aggiunse: “Hanno detto che o vi ammazzeranno o vi leveranno la moglie.”

Lo Sforza sentiva il cuore battere con forza nel petto e la testa vagare per conto suo in un ventaglio di possibilità, una peggiore dell'altra.

Ucciso con il veleno, attraverso un regalo, e poi usato un'ultima volta come scusa per incolpare degli innocenti in modo da poter togliere loro ogni cosa. Ecco qual era il destino per uno che aveva sposato la figlia del papa.

Maledicendo in silenzio il giorno in cui i Borja erano entrati nella sua vita, Giovanni si alzò a fatica dal tavolo, apparendo molto confuso: “Dobbiamo... Sarebbe meglio... Io...”

Giacomino, avvertendo lo smarrimento del suo parente, lo sostenne per le spalle e gli disse: “Fossi in voi, io tornerei subito a Pesaro.”

“Sì, sì, devo andarmene, ma devo stare attento...” cominciò a dire Giovanni, appoggiandosi al muro con una mano e guardando con aria smarrita l'altro: “Devo fare tutto con cautela... Datemi un paio di giorni, intanto fate in modo che per il Venerdì Santo io abbia i mezzi per scappare.”

 

Cesare, benché fosse ormai sera, era ancora fuori, probabilmente in Duomo, quindi Caterina dovette per forza passare prima a Ottaviano, anche se avrebbe preferito tenerlo per ultimo.

Lo trovò mentre stava per uscire. Da com'era vestito e dall'espressione insofferente che aveva in viso, la Sforza ebbe il sospetto che stesse andando al lupanare per passare là parte della notte.

“Devo parlarti di una cosa importante.” esordì la donna, convincendolo a seguirla fino nella stanza del ragazzo.

Ottaviano, una volta in camera, incrociò le braccia sul petto e restò in attesa, fissando la madre senza dar segno né di impazienza, né di agitazione. Sembrava solo uno specchio scheggiato incapace di riflettere alcunché.

“Lo so che tu hai capito che tra me e Giovanni Medici c'è qualcosa.” inizi a dire Caterina, che, come ogni volta in cui si trovava da sola con il suo primogenito, era combattuta tra una serie confusa di sentimenti che spesso contrastavano tra loro.

Il ragazzo sollevò il sopracciglio e si permise di dire: “Qualcosa... Diciamo pure che so che è il vostro amante.”

“Stai attento a come parli.” lo redarguì la Tigre, senza però alzare il tono: “Ti ho già avvertito una volta: al prossimo errore che commetterai, io non ti risparmierò più la vita.”

Ottaviano si mise più dritto, le mani questa volta dietro la schiena e cercò di sostenere il suo sguardo, per dare prova di buona volontà.

“Quello che volevo dirti è che io lo sposerò, tra pochi giorni.” disse Caterina, distogliendo lo sguardo e trovando che la stanza di Ottaviano fosse fredda e negletta, poco illuminata e anche poco accogliente.

“E me lo state dicendo perché..?” fece il ragazzo, dopo una brevissima esitazione.

“Per fartelo sapere.” ribatté la Contessa, cercando di scrutare il volto del figlio per capire come l'avesse presa.

“Va bene.” ribatté Ottaviano, stringendo il morso: “Adesso lo so.”

“E cosa ne pensi?” domandò la donna, sulle spine, non riuscendo a leggere la voce piatta del figlio né in modo positivo né in modo negativo.

Il giovane si guardò istintivamente il giubbone, ricavato dal raso pregiato che il Medici gli aveva comprato per Natale. Vi passò sopra una mano, apprezzandone come sempre la trama finissima e poi sospirò, con un'alzata di spalle.

“Penso che questo sia meglio di quello di prima – disse Ottaviano – almeno questa volta nessuno ci potrà ridere dietro perché vi siete scelta un pezzente.”

“Stai attento a come parli!” scattò Caterina, alzando una mano, senza però colmare la distanza tra loro: “Non te lo ripeterò più.”

“Perdonatemi.” cedette il ragazzo, abbassando il capo e cominciando a mordersi il labbro in segno di nervosismo.

“Promettimi che non farai nulla contro di lui.” gli disse la madre, facendo un mezzo passo verso di lui.

Ottaviano chiuse un momento gli occhi, scuotendo il capo e ondeggiando così i lunghi capelli acconciati nello stesso modo – ormai fuorimoda – in cui li aveva sempre acconciati anche suo padre Girolamo, e alla fine sussurrò: “Lo prometto.”

Quando sollevò lo sguardo, il ragazzo incrociò quello della madre e per un lungo istante si specchiarono l'uno nelle iridi dell'altra. Entrambi furono tentati di sbilanciarsi in un gesto di avvicinamento, se non un abbraccio, anche solo una stretta di mano, ma alla fine nessuno dei due ebbe il coraggio di prendere l'iniziativa.

“Ora puoi andare dalle tue donne di strada...” soffiò la Leonessa: “Ma vedi di pagarle, questa volta, ed evita di fare loro del male. Sono esseri umani, anche se voi uomini le trattate come bestie.”

Ottaviano non ribatté, ma se ne andò subito, abbozzando appena un mezzo inchino e sparendo con le ampie falcate che le sue gambe lunghe e sottili gli permettevano di fare.

 

Lorenzo il Popolano si lasciò cadere sul letto come un macigno. La schiena gli faceva male e il coricarsi improvviso gli tese ogni muscolo e gli fece scricchiolare le vertebre.

Alla Signoria era stata una giornata impossibile e il ritorno a Cafaggiolo era stato viziato da una pioggia battente che aveva rallentato il cavallo e che lo aveva infradiciato fino alle ossa.

Appena arrivato a casa, aveva salutato la moglie e i figli, dicendo loro di mangiare pure, che lui avrebbe preso qualcosa più tardi, ed era corso in camera a cambiarsi.

Aveva i capelli ancora umidi, ma almeno non indossava più gli abiti gocciolanti che gli si erano attaccati alla pelle per tutta la strada tra Firenze e Cafaggiolo.

In camicione e calzabrache da casa, Lorenzo restava steso sul letto, godendosi il tepore del camino e la luce rassicurante delle tante candele che Semiramide gli aveva fatto accendere. Fuori si sentiva ancora scrociare la pioggia, ed era un concerto molto più godibile, ora che si trovava all'asciutto.

“Ti ho portato qualcosa...” la moglie del Popolano era entrata in camera senza annunciarsi, come faceva sempre, e teneva in mano un piccolo vassoio con qualche pezzo di carne e formaggio e un calice di vino.

Lorenzo si rimise a sedere e la ringraziò: “Appoggia pure sulla scrivania... Adesso ho lo stomaco troppo chiuso per mangiare.”

La donna, che da quando erano stati nelle Fiandre aveva smesso gli abiti a lutto in memoria di Averardo, appoggiò il vassoio e poi andò a sedersi accanto al marito, sul loro letto, facendo sfrusciare le gonne del suo abito di seta, comprato durante il loro ultimo viaggio.

“Com'è andata alla Signoria?” chiese Semiramide, accarezzando con lentezza la testa del marito.

Il volto perennemente imbronciato di Lorenzo si rabbuiò ancora di più e un sospiro pesante gli smosse il torace: “Non sono riuscito a mantenere la calma.” confessò: “Oggi ero distratto, continuavo a pensare a quello che ci ha scritto mio fratello. Quando uno dell'opposizione mi ha accusato di aver nascosto delle opere del demonio, così le ha chiamate, impedendo che venissero gettate nel falò, già sono trasceso, prendendolo a male parole.”

Semiramide cercò di immaginarsi il marito che gridava davanti al Gonfaloniere di Giustizia, ma fece molto fatica a farlo. Lorenzo, malgrado tutto, era sempre molto equilibrato, quando ricopriva la sua carica pubblica.

“E poi...” l'uomo sospirò e ritrasse la testa, in modo da sottrarsi alle carezze della moglie: “Quando hanno cominciato a dire che Giovanni sta solo perdendo tempo e che lo vorrebbero richiamare a Firenze...”

La donna guardò il marito alzarsi e andare al camino. Lorenzo aveva il fisico ormai appesantito, benché non avesse ancora compiuto trentaquattro anni. Aveva sempre avuto una tendenza a prendere peso, ma quei mesi di tormenti lo avevano portato a trovare spesso una valvola di sfogo nel cibo, irrobustendolo ancora di più.

Passandosi una mano dalle dita tozze sul viso, Lorenzo sbuffò e riprese: “Avrei tanto voluto dar loro ragione e cogliere l'occasione per imporre a Giovanni di tornare qui, in modo da poter aver più forza contro Savonarola. Però non ce l'ho fatta.”

Semiramide si alzò e lo raggiunse. Si mise accanto a lui e lo guardò con attenzione. Sapeva che aveva fatto così perché in fondo amava troppo il fratello per distoglierlo da qualcosa che sembrava per lui così importante.

Lorenzo non aveva alcuna stima della Tigre di Forlì e la riteneva una donna pericolosa, e di conseguenza non approvava la relazione che Giovanni aveva intrapreso con lei. Tuttavia, sembrava aver rinunciato all'idea di distoglierlo dai suoi propositi.

Nell'ultima lettera che aveva spedito loro, Giovanni diceva che sarebbe rimasto in Romagna, perché là c'era la donna che amava e che non voleva allontanarsi da lei per nessun motivo. Lorenzo non aveva mai visto il fratello innamorato, tanto che si era convinto che sarebbe rimasto solo, quindi si sentiva troppo crudele a imporgli con la forza di rientrare a Firenze.

“E così ho cominciato a litigare con quelli che lo volevano sollevare dal suo incarico e per poco non è scoppiata una rissa.” terminò il racconto Lorenzo: “Se andrò avanti così, dubito che qualcuno potrà scegliermi come reale alternativa a Savonarola.”

“Vedrai che le cose andranno meglio...” bisbigliò Semiramide, avvertendo anche sulle proprie spalle il peso avvertito da Lorenzo: “E poi magari sarà la Sforza a stancarsi di Giovanni. Dopotutto, sono solo amanti, per ora. O almeno, per quello che possiamo pensare. Potrebbero non essere nemmeno quello. Fossero sposati, allora sarei d'accordo con te, ma adesso è ancora una situazione che può sbrogliarsi per conto suo.”

“Se la ama davvero, dubito che se la lascerà scappare...” sospirò Lorenzo, guardando il volto di Semiramide, su cui le prime rughe dell'età stavano scavando dei tristi solchi: “Credo che da questo punto di vista, sia simile a me.”

La donna gli sorrise e lo baciò, sentendolo ancora teso come la corda di un arco: “Stai tranquillo, Lorenzo. In un modo o nell'altro, sistemeremo tutto.”

 

“Ho poco tempo, però – disse Cesare Riario, infilando le mani nelle ampie tasche dell'abito scuro da prete – devo tornare in Duomo per le orazioni. Siamo in tempo di Quaresima.” aggiunse, come convinto che per la madre quella fosse una notizia del tutto nuova.

Caterina non commentò e fece sistemare il secondogenito sulla sedia davanti alla scrivania del castellano.

La sera era scesa sulla rocca e la Contessa aveva preferito portare al termine il suo arduo compito, prima di andare a mangiare.

“Devo metterti a parte di una decisione che ho preso.” disse la Tigre, sedendosi sullo scranno del castellano e appoggiando le mani sul tavolo, con il fare di chi si appresta a ragionare di affari di Stato.

Il viso smunto di Cesare, alla luce pallida delle candele sembrava cereo, più simile a quello di un morto che non a quello di un ragazzo di sedici anni e mezzo.

Caterina ne scrutò per qualche momento il naso lungo e l'arcata sopraccigliare, trovando sempre di più che quel suo secondo figlio stesse diventando giorno dopo giorno la brutta copia del cugino, il Cardinale Raffaele Sansoni Riario.

“Dopo Pasqua, mi sposerò con Giovanni Medici.” buttò lì la Sforza, decisa a chiudere il prima possibile quel colloquio.

“Perché lo sposate? Aspettate un figlio da lui?” chiese Cesare, pungente.

Caterina strinse gli occhi: “No, non lo sposo perché sono incinta.” ribatté, piccata: “Lo sposo perché ho deciso così e basta.”

“No, perché anche il Barone Feo l'avevate sposato, ma solo dopo che avevate concepito un figlio con lui.” riprese Cesare, le labbra sottili che vibravano appena dopo ogni parola.

“Come fai a sapere che...” cominciò a dire la Contessa, stingendo nervosamente una mano attorno alla boccetta d'inchiostro che il castellano aveva dimenticato in mezzo alla scrivania.

“Ho controllato i documenti di cui avete parlato dopo la morte del Barone – disse Cesare, con una freddezza che colpiva Caterina come la lama di un pugnale – e ho fatto due conti. Sarò anche destinato a una vita da chierico, ma mi avete fatto avere un'istruzione sufficiente a capire che quando vi siete sposati, voi eravate già incinta.”

La Tigre tentò di soprassedere, dicendo: “Quello che è passato è passato, io sto parlando del presente.”

“La peste si sta avvicinando, quindi state attenta a quello che fate e pensate.” disse piano Cesare, incupendosi come uno spauracchio: “Se portate in pancia un altro figlio del peccato come Bernardino...”

A quelle parole, la Leonessa scattò in piedi e girò attorno alla scrivania con una rapidità incredibile, fino a trovarsi a sovrastare Cesare, ancora seduto al suo posto: “Come osi parlare così di tuo fratello?!”

“Quello è mio fratello solo per metà – precisò il ragazzo, senza scomporsi – ed è vero che è nato dal peccato.”

“Tu sei nato da una violenza, Bernardino è nato per amore. Dimmi, Cesare, secondo il tuo Dio quale dei due è figlio del peccato?” l'attaccò la donna, sollevando il labbro, mostrando i denti in un'espressione ferale che fece venire i brividi al giovane.

Per la prima volta dall'inizio dell'incontro, Cesare mostrò una vaga incertezza, ma quando parlò lo fece con voce sicura: “Vi nascondete dietro a dei giri di parole, ma sapete che ho ragione io e che Dio vi punirà.”

“Dio mi ha punita molte volte, credi a me, anche per colpe non mie.” controbatté la Sforza.

“Avete ucciso molta gente, solo per cercare vendetta per l'uomo che dicevate di amare, e adesso ne sposate un altro.” insistette nelle accusa Cesare: “Avete infranto le leggi di Dio in ogni modo, avete ucciso, avete rinnegato Dio, avete indugiato nei vizi capitali, ira, lussuria, superbia... State pur certa che Dio vi pun...”

A quel punto la Contessa perse definitivamente le staffe.

Senza lasciargli finire l'arringa, tirò su di peso il figlio dalla sedia, afferrandolo con furia per la collottola e quando l'ebbe con il viso a pochi millimetri dal suo gli sibilò: “Nell'ultima epidemia, saresti dovuto morire tu, non Livio.”

Lasciato andare di colpo, Cesare perse l'equilibrio e dovette tenersi alla scrivania per non cadere in terra. Le ultime parole della madre avevano investito il ragazzo con tanta forza che i suoi occhi, prima tanto impassibili, si stavano riempiendo di lacrime.

Tuttavia, malgrado quel durissimo colpo, Cesare trovò ancora il coraggio di parlare: “Non ho nulla contro il Medici, anche se ha idee diverse dalle mie. È un uomo buono. Non lo meritate. Rovinerete anche lui. Dio lo scampi, dal vostro amore.”

E dopo un'ultima occhiata carica di rancore, il secondogenito della Tigre si sistemò l'abito e lasciò lo studiolo, probabilmente diretto al Duomo, dove avrebbe passato la notte a pregare affinché Dio punisse la madre per tutti i suoi orrendi peccati.

 

Giovanni si era un po' preoccupato, quando non aveva visto Caterina a cena, però aveva incontrato i figli più piccoli della donna e anche Bianca e il modo disteso con cui lo avevano salutato gli aveva lasciato intendere che, almeno con loro, il discorso fosse filato liscio.

Così, dopo aver mangiato un po' di verdure in brodo – non azzardandosi a prendere altro, visto che dal ginocchio in giù aveva ricominciato ad avere dei fastidi che non voleva esacerbare proprio in vista delle nozze – era tornato in camera ad aspettarla.

Quando finalmente la Tigre arrivò, però, il suo umore era tanto nero che il Popolano quasi si spaventò.

“Che è successo?” chiese l'uomo, andandole incontro e stringendola a sé, visto che era lampante quando la Contessa avesse bisogno di quel genere di consolazione.

“Ho sbagliato, come sempre.” sussurrò Caterina, apprezzando il calore della stretta del fiorentino, che la teneva premuta contro di sé con una dolcezza che in breve la fece sciogliere in pianto.

Lo scontro con Ottaviano e, ancora di più, con Cesare, le aveva fatto capire una volta in più quanto fossero profonde le spaccature tra lei e i suoi figli più grandi. L'unica consolazione era stata vedere come Giovanni fosse da tutti ritenuto un uomo meritevole di stima. A conti fatti, forse non sarebbe stato in pericolo, almeno a Ravaldino.

“Ottaviano è contrario al nostro matrimonio?” chiese Giovanni, in apprensione.

Dopotutto, si era detto, mentre aspettava la sua donna, non sapeva di preciso quanto Caterina avrebbe tenuto in conto il responso dei figli, in merito alle loro nozze. Poteva essere che fosse stato detto qualcosa che l'avrebbe fatta retrocedere.

“No...” disse la donna, tirando su con il naso e premendo con più forza il volto contro la spalla del Popolano: “Però lui e Cesare mi odiano.”

Il fiorentino l'aiutò a calmarsi e poi, quando la Tigre smise di piangere, la fece sedere accanto a lui sul letto e si fece spiegare meglio cos'era successo e cosa era stato detto.

Una volta messe tutte le carte in tavola, Giovanni sospirò e la strinse di nuovo a sé. Non sapeva che dirle, per consolarla. Usare la classica trovata del tempo che sistema ogni cosa non avrebbe avuto senso.

Sollevandola un po' la testa, le diede un piccolo bacio sulla fronte e le disse: “Io sono al tuo fianco e farò del mio meglio per andare d'accordo con i tuoi figli. Magari riusciremo ad appianare qualche...”

“Il problema è che io non sono mai riuscita ad accettare loro.” lo interruppe Caterina, dando sfogo a un dolore che non l'aveva mai lasciata, fin da quando era nato il suo primo figlio.

“E come mai?” provò a chiedere Giovanni, intuendo il bisogno della donna di parlarne.

La Tigre si bloccò un momento, incerta se raccontare tutto al fiorentino oppure no. Presto sarebbero stati sposati, forse era il caso di metterlo a parte di tutti i fantasmi del suo passato.

“È una storia lunga...” anticipò la Sforza.

“Abbiamo davanti tutta la notte.” la rassicurò Giovanni, sistemandosi un po' accanto a lei, come se si mettesse comodo in vista del lungo racconto.

Caterina si asciugò un'ultima lacrima che era scivolata fuori dalle ciglia e poi prese una mano del Medici tra le sue, osservandone per un po' la forma armoniosa e gentile, e poi, con un profondo respirò, iniziò a raccontare la sua storia, senza più alcuna reticenza, partendo dall'inizio.

 
   
 
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