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Autore: piccina    22/10/2017    0 recensioni
"Sono strani i casi della vita. Ero sicuro che Amanda fosse la donna sbagliata. Finalmente quella sera avevo aperto gli occhi. Rientravo a casa, i miei passi echeggiavano sul selciato del vicolo deserto."
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Giulio Tommasi, Patrizia Cecchini, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Aveva preso servizio. Ogni tanto mi capitava di osservarla. Si era inserita benone. Pelli me ne parlava egregiamente, solo qualche appunto sulla forma e io pensavo tale padre, tale figlia, ma non lo dicevo. Avevamo poco a che fare direttamente. Tre gradi fra me e lei. Vedevo i suoi rapporti sulla mia scrivania, nei fascicoli che mi arrivavano dai suoi superiori. Erano precisi, dei buoni lavori. Mi ero stupito nel constatare che non si era cercata casa fuori, ma continuava ad alloggiare in caserma. Qualche volta ci eravamo trovati allo stesso tavolo, con altri, alla mensa ufficiali e in quelle occasioni nessuno dei due aveva lasciato trasparire il passato che avevamo condiviso a Gubbio. E comunque risaliva alla notte dei tempi. Era esistito sul serio? Pareva quasi di no. La Patrizia ragazzina intenta a sfuggire agli assillanti controlli paterni per andare a ballare non esisteva più e il Capitano impacciato e sottomesso a una fidanzata dispotica neppure, c’era un papà solo, abbastanza sereno, ma che ancora pensava, adesso con dolcezza, a una moglie amata. Circa due anni dopo che era arrivata, l’influenza A decimò la caserma, così mi trovai ad avere a che fare direttamente con lei, per un caso e a urlare nuovamente esasperato, questa volta nell’interfono, e non dalla porta come per suo padre a Urbino, perché lei l’ufficio ce l’aveva al piano dei laboratori: “CECCHINI!” “Comandi Maggiore” rispondeva con aria soave, anche quando l’aveva fatta grossa. “Immediatamente nel mio ufficio” “Volo” rispondeva invece di “Comandi” e l’avrei strozzata.
Arrivava, le mostrine da Capitano, sul camice bianco aperto sulla gonna e camicia della divisa, nel frattempo era stata promossa, perché era indisciplinata, sconsiderata a volte, ma bravissima e dotata di un intuito eccezionale. Se ci penso che sono stato io a rallentare la sua promozione a Tenente Colonnello. È stato il mio parere negativo a farle attendere l’avanzamento un anno di più e dire che stavamo già assieme, ma una regolata se la doveva dare. “TU!! TU hai dato parere negativo.” Era entrata in casa mia sibilando furiosa. “Se ti danno così fastidio gli ordini, la disciplina e la forma non ti dovevi arruolare” le avevo risposto semplicemente. Era uscita sbattendo la porta.  Poi si era data una regolata, non tanto, ma una cosa dignitosa e il mio parere favorevolissimo l’aveva avuto. Quel caso ci costrinse a lunghe giornate al lavoro e qualche nottata. Furono parecchie le cene nel mio ufficio, davanti al cartone della pizza o ai contenitori del cibo cinese. Sono situazioni che inducono alla confidenza e così successe a noi. Riscoprimmo quell’amicizia che stava nascendo anni prima e che poi si era interrotta.
Incominciammo a vederci qualche volta anche fuori dal lavoro, anzi soprattutto fuori dal lavoro, perché finita l’emergenza sanitaria, per lavoro ritornammo ad avere poco a che fare direttamente. Spesso con amici, a volte da soli. Una pizza, un cinema, uno spettacolo a teatro. Lasciavo Laura a Serena e mi concedevo qualche serata fuori, tanto lei crollava alle nove e quindi non le toglievo praticamente nulla. Ricominciavo ad avere una vita normale e senza che me ne accorgessi, in questa nuova vita c’era entrata Patrizia.
Ogni tanto succedeva che dovessi portare Laura in ufficio, quando capitava qualche emergenza e non sapevo dove piazzarla. Ormai eravamo una coppia collaudatissima, ci portavamo il portatile che usavamo a casa, una buona scorta di cartoni animati, l’astuccio con i colori, i fogli per disegnare e uno zainetto pieno stracolmo di bamboline micro, con le alette, mi pare fossero le winx. Più che altro mi portavo una bambina dotata di una pazienza infinita, capace di trascorrere intere domeniche con me, in ufficio, senza un capriccio. Ogni tanto mi veniva in braccio, le facevo due coccole, parlavamo cinque minuti e poi tornava a farsi i fatti suoi lasciandomi lavorare. Quando capitava che Patrizia fosse in servizio e ci vedeva arrivare, poco dopo faceva in modo di passare nel mio ufficio “Maggiore che ne dice, posso portarmi una bambina giù nelle segrete stanze?” E così mia figlia è cresciuta trovando normale aggirarsi nelle stanze asettiche dove si eseguono le autopsie, fra gli odori di disinfettanti che io ancora adesso trovo nauseabondi e nei laboratori d’analisi. Credo si divertisse un mondo con Patrizia giù di sotto. Secondo me è colpa sua se adesso fa il chirurgo.
Un sabato Laura ed io decidiamo di andarcene a pranzo in un agriturismo fuori città, mi hanno detto che ci sono i pony e fanno fare dei bei giri ai bambini. Ce la voglio portare. È Laura che invita Patrizia, quando la incontriamo la sera prima al supermercato mentre facciamo la spesa.
A tavola, come al solito, Laura cincischia con il cibo invece di mangiare. La sgrido. Quella svergognata di figlia, che non ha neppure cinque anni mi guarda fissa negli occhi e mi dice: “Papà ti spiego un concetto: se uno ha fame mangia, se uno non ha fame non mangia”. Patrizia fa finta che le sia caduto il tovagliolo e si tuffa sotto il tavolo per non farsi beccare a ridere, io non so come ho fatto a resistere, ma ce l’ho fatta e ho risposto: “Il concetto te lo spiego io ed è semplicissimo: se uno non mangia non fa il giro sul pony”. Si era messa a mangiare zitta e velocemente. Di giri sui pony ne aveva fatti parecchi poi si era messa a giocare con altri due bambini nell’area giochi attrezzata, Patrizia ed io ci eravamo seduti sul prato poco distante.
“Certo che è proprio un bel tipetto!” mi dice Patrizia “come ti ha risposto a tavola? Mitica!”
“Lascia perdere, ogni tanto ne inanella di quelle, fin da quando era piccolissima. Una roba da pazzi, questa se non sto attento, mi mette i piedi in testa in un lampo, però è forte” dico orgoglioso e con lo sguardo l’accarezzo “assomiglia alla mamma” concludo.
Patrizia si volta “Posso chiederti una cosa?” “Certo” “Se non ti va non mi rispondere, sono fatti tuoi, ma sono curiosa.” “Spara” “Si tratta di omonimia o tua moglie era proprio l’Amanda che conoscevo io?” chiede spiritosa. Scoppio a ridere, capisco cosa intende. “Era proprio lei, incredibile che io la rimpianga ancora, vero? Masochista proprio stai pensando, eh?” Fa la faccia buffa, come dire “Un po’”
“Hai ragione, Pat. La donna che avete conosciuto a Gubbio era proprio odiosa e insopportabile e io un grazioso babbeo. Non è lei la donna che ho amato e amo – aggiungo piano. Si era persa. Io avevo permesso che lo facesse, con la mia accondiscendenza. Lo sai vero che ci eravamo lasciati?” “Si” “Non ci siamo più sentiti per otto mesi, io ero stato trasferito qui. È tornata a cercarmi, ma è tornata sul serio, nel senso che era di nuovo lei. La donna della quale mi ero innamorato tanti anni prima, quella che mi capiva, che voleva le stesse cose che volevo io, quella con cui ridevo, giocavo, con cui ero felice, quella con la quale sognavo e immaginavo la mia esistenza. Quella che mi guardava come solo lei mi ha mai guardato in tutta la mia vita. Era tornata l’Amanda che mi amava.”
“Ora comprendo” dice “e anche perché qui della Signora Tommasi, hanno tutti un buon ricordo.  Capisco che dei morti è difficile si parli male, ma mi pareva incomprensibile. A Gubbio a chi chiedi, chiedi il più gentile le voleva mettere due dita in un occhio”. Rido di nuovo. 
In quei mesi credo che Patrizia abbia avuto una simpatia ricambiata con il dott. Simeoni, un giovane procuratore. Non ne sono sicuro, non gliel’ho mai chiesto. Sicuramente l’auto blu con i vetri antiproiettile con la quale si muoveva da quando aveva ricevuto delle minacce, si vedeva un po’ troppo spesso sotto casa sua, alla mattina presto. Mi capitava di scorgerla quando riuscivo a fare un po’ di corsa prima di andare in caserma, le mattine che Serena arrivava presto e preparava lei Laura. Tornavo, mi facevo la doccia, indossavo la divisa, me la caricavo sulle spalle e la portavo all’asilo. Serena si fermava a dare una riordinata a casa, ci faceva un po’ di spesa e spesso ci cucinava qualcosa per la sera, anche se non era nei suoi compiti. Ci viziava.  
A vedere com’è andata a finire si potrebbe pensare che io fossi geloso, per niente. Mi ero affezionato a Patrizia, ci vedevamo spesso, lei e Laura andavano d’accordo, ma eravamo solo amici. Non ero pronto ad amare nessun’altra.
Così come aveva iniziato, l’auto blu smise di farsi vedere sotto casa del Tenente Cecchini e le nostre uscite si fecero invece più frequenti. Capitava sempre più spesso che uscissimo insieme dalla caserma, che passassimo in rosticceria e che poi Patrizia venisse a cena da noi, oppure se era presto facevamo la spesa e poi cucinavamo qualcosa. Laura andava a letto presto e io e Patrizia ci vedevamo un film, ascoltavamo un po’ di musica. Io mi sorpresi, di me stesso, più di una volta ad osservarla dal vetro del mio ufficio, mentre passava nell’open space e non erano sguardi opportuni.  Era bella il Tenente. Fino ad allora era come se non me ne fossi mai compiutamente reso conto. Lo ammetto, prima che il mio cuore, di Patrizia come donna, se ne è accorto il mio inguine. Il che comunque mi era sembrata una notizia da prima pagina, iniziavo a pensare di averne perso l’uso. Non avevo più provato desiderio per nessuna. Adesso Patrizia, si toglieva il maglione e il gesto delle braccia alzate, mentre lo sfilava dalla testa e lasciava scoperta la T-shirt aderente che fasciava i seni sodi, che svettavano, rendevano i miei jeans improvvisamente troppo stretti. Tossivo e mi allontanavo.
Una sera che era da noi, rideva come una pazza mentre guardavamo uno di quei film di comicità demenziale che piacciono a lei, aveva il viso accesso dalle risa, i riccioli scomposti e gli occhi resi luccicanti dalle lacrime che il troppo ridere le aveva procurato. Non so cosa mi sia preso, mi sono appoggiato veloce sulle sue labbra. Si è ammutolita e ho temuto seriamente che mi tirasse una sberla. Invece mi ha messo la mano dietro la nuca e mi ha stampato un bacio come si deve. Ci siamo spostati in camera con le labbra incollate. Erano quasi tre anni che non facevo l’amore con una donna. Quando l’ho vista sdraiata sul letto, sul nostro letto, ho avuto un momento di vertigine, lo confesso. È durato un attimo, ho chiuso gli occhi e spero che Patrizia non se ne sia accorta. Poi è stato tutto facile, un segno. Sarebbe stato facile amare Patrizia, solo dovevo averne il coraggio. Quello era meno facile.
La mattina quando si era svegliata mi aveva fissato, forse cercava una risposta. “Mi sono addormentata” “E già, Tenente. Buongiorno!” e le avevo dato un bacio sulla bocca. Si era alzata veloce. “Ora vado” L’avevo acchiappata al volo per un polso, tirandola a cadere sul materasso. “Che hai? Dove vai?” “A casa”  aveva risposto, sintetica. Non mi aspettavo che ci giurassimo amore eterno, ero molto lontano dall’idea pure io, ma neanche che fuggisse a gambe levate. “Ero un po’ arrugginito, lo ammetto, ma è stato così orribile da scappare in questo modo?” provo a smorzare l’atmosfera con una battuta. Si apre in un sorriso che poi si trasforma in una lieve risata. Scuote la testa “Non te la sei cavata affatto male” “Ah, menomale, almeno quello” replico e la tiro un po’ più verso di me. “Sono in imbarazzo” ammette infine. “Non devi. Ti sei pentita?” “No” “Bene, perché neanche io, quindi non vedo dove stia il problema. Mi piaci Tenente.”  L’avevo baciata. “Anche tu mi piaci, Giulio Tommasi, parecchio” 
Era iniziata la nostra storia che con i mesi si era fatta sempre più stretta e quotidiana, Patrizia aveva mantenuto il suo appartamento, ma ormai da qualche tempo ci passava solo raramente. Convivevamo di fatto. Io non so se l’ho fatto coscientemente, ma sicuramente una delle cose che mi ha portato verso Patrizia è che ho sentito che era una mamma, molto prima di diventarlo biologicamente. Non avrei potuto amare e ricominciare con una donna che non avesse saputo amare la mia bambina.  Laura aveva accettato il nuovo ruolo di Patrizia nella mia vita e quindi nella sua, con un’apertura che mi aveva commosso e Patrizia aveva saputo entrare nella sua vita in punta di piedi, con delicatezza, rispetto, allegria, dolcezza e amore. Dopo nove, dieci mesi che viveva con noi, chi non ci avesse conosciuto prima avrebbe senza dubbio creduto che fossero mamma e figlia, se non per il fatto che Laura la chiamava Patrizia.
Accecato dall’egoismo di chi assapora di nuovo la gioia e la serenità dopo anni di dolore e ansia, in quel periodo non mi sono accorto di aver fatto parecchi errori e di averla ferita senza accorgermene.  Con le mie omissioni, con pensieri che non traducevo in parole. Solo quando ho rischiato di perderla mi sono accorto che non le avevo mai detto che l’amavo. Lei si, in quell’anno e mezzo prima che accettasse di andare a La Spezia lei me l’ha detto, qualche volta, poi ha smesso e io stupido non me ne ero accorto. Sentivo di amarla, sentivo che mi amava, vivevamo insieme, Laura era felice, andava tutto bene per me.  E invece lei si sentiva un surrogato.
L’avevo fatta chiamare nel mio ufficio. “Siediti.” Avevo in mano la comunicazione del Comando regionale. “Chiedono un medico legale con la tua specializzazione a La Spezia, una sostituzione, un anno come minimo. Il Capitano Lucenti, ha fatto il tuo nome, vorrebbe te. Sono io che devo decidere se lasciarti andare, ma sei tu che devi dirmi cosa vuoi fare.”  “Tu cosa ne pensi?” mi aveva domandato. “Come superiore o come compagno?” avevo chiesto di rimando, sorridendole. “Prima l’uno e poi l’altro” si era seduta e si aggiustava la gonna con la mano. Mi ero passato una mano sulla bocca “Dunque per la tua carriera è una buona opportunità, il laboratorio lo dirigeresti tu. Secondo me dovresti andare e  io non ho ragionevoli motivi per impedirtelo. Come compagno, beh, come compagno mi girano, però sempre come compagno ti dico che, se te la senti, devi accettare. Sono circa 80 Km da qui, non è impossibile. Ci vedremo nei we e magari una sera in settimana, ce la possiamo fare. Io accetterei Pat” “E Laura?” mi aveva chiesto e in quel momento l’avrei baciata, lì in caserma. “E a Laura glielo spieghiamo, si tratta solo di un anno e non ci vedremmo solamente per quattro giorni su sette. Poi magari cercheremo di prendere qualche licenza sfasata così un po’ verremmo noi da te e un po’ tu torneresti a casa qui anche quando io lavoro. Dai che si può fare” “Ho un po’ di tempo per pensarci?” “Cinque giorni” “Ok” ed era uscita pensierosa. Alla fine aveva accettato ed era partita. Laura ed io ci eravamo trovati di nuovo soli in settimana. Devo dire che il mercoledì spesso Patrizia cercava di venire, così la settimana era un po’ più corta, poi il venerdì sera l’andavamo a prendere alla stazione. Per il fine settimana preferiva muoversi con il treno, tanto poi a Lucca c’era la mia macchina. Ci mancava da matti e adesso lo posso dire con certezza, non gliel’ho fatto capire abbastanza. Scendeva dal vagone, Laura le saltava in braccio e poi tutte e due insieme mi volavano fra le braccia e io pensavo che ero fortunato. Spesso quelle sere non tornavamo subito a casa ma ci fermavamo a mangiare una pizza, sulla via del ritorno. Laura bombardava Pat di chiacchiere, la aggiornava sugli ultimi avvenimenti.  Capitava spesso che Laura si addormentasse sul divanetto del locale e noi ci attardassimo a fare due chiacchiere. Le dita intrecciate sul tavolo. Io credevo che lo sentisse che l’amavo. Quando la accarezzavo, quando la baciavo, quando la guardavo, quando stavo ore al telefono alla sera, io che lo odio. A volte, però, bisogna dirlo e io non lo dicevo.
Poco prima di Pasqua, ero passato a prendere Laura al doposcuola e mentre ci dirigevamo in pasticceria per ordinare l’uovo, mi aveva chiesto: “Quando torna?” si riferiva chiaramente a Patrizia “Domani sera, oggi è giovedì” avevo risposto senza dare troppo peso alla cosa.  Si era fermata improvvisamente sul marciapiede e la mano che stringevo nella mia, subì un leggero strattone. “Che c’è?” “Voglio sapere la mamma quando torna definitivamente a casa” Mi ero bloccato pure io. “La mamma, Laura?” ripeto.  “Si, la mamma. Quando va via da La Spezia e torna da noi. Io non ne posso più.”
A me era mancato il fiato, non so se ho fatto bene, ma non ho commentato il fatto che avesse chiamato Patrizia mamma, mi limitai a rispondere:” Fra due mesi, Lauretta. Tieni duro, manca poco”
Ci pensavo da un po’, aspettavo solo che Patrizia rientrasse a Lucca, ma adesso dopo quello che aveva detto Laura decisi di non tergiversare oltre. Chiesi a Serena di venire a tenere Laura e andai a La Spezia.
“Buonasera Tenente” le dissi presentandomi a sorpresa nel suo laboratorio quel martedì sera. “Ciao Giulio! Che ci fai qui?” “Sorpresa! Posso invitarla a cena Tenente? Ho una cosa bella da dirle o forse due” le avevo risposto amletico.  “Dammi il tempo di finire, mezz’oretta e sono tutta tua. Laura? Con chi l’hai lasciata?” “È con Serena, tranquilla tutto apposto.” Una quarantina di minuti dopo eravamo in macchina, diretti verso le alture sopra Sarzana, meta una piccola trattoria che ci piaceva molto, arroccata fra le fasce, con i tavoli nascosti fra gli ulivi.
“Mamma, capisci? Sei la mamma” le avevo preso la mano. I piatti degli antipasti ingombravano il tavolo. Gli occhi di Patrizia erano lucidi. “La mia bambina” aveva mormorato. Eravamo al dolce quando gliel’ho chiesto: ”Pat, ci sposiamo?” Non sono stato un granché quanto a tempismo e romanticismo e soprattutto non avevo capito un accidente. È che per me non si trattava che di certificare l’evidenza. Idiota. “Certo che no” mi ha risposto. L’ho fissata incredulo. “Io non lo sposo uno che me lo chiede perché sua figlia mi considera sua madre. Uno che per anni non mi ha mai detto che mi ama, perché l’unica che meritava di sentirselo dire è sotto due metri di terra. Anzi sai cosa facciamo? Fra due mesi, quando torno a Lucca, mi cerco una casa, vicino a voi. Io per Laura ci sono e ci sarò sempre. Sarà come avere i genitori separati. Portami a casa.” La stavo perdendo. Amanda mi era stata strappata via, ma Patrizia la stavo perdendo io perché ero un idiota. Era vero. Non le avevo mai detto che l’amavo e non perché, non solo perché voleva bene a Laura, ma perché io, io l’amavo.
Mi sono alzato di scatto e l’ho costretta a fare altrettanto. Le ho messo le mani sulle braccia. “Patrizia dio santo, cosa ho combinato. Non te ne andare, non mi abbandonare. Non per Laura, per me. Per questo stupido uomo che non ha saputo dirtelo quanto ti ama. Ti prego Patrizia.” Mi sono messo a piangere. “Giulio, ma cosa fai?” “Ti prego Patrizia, ti prego. Io ti amo. Ti amo, non è tardi Patrizia, dimmi che non è tardi per dirtelo, perché per sentirlo sono anni che è così” Credo di averle fatto venire i lividi da tanto stringevo le sue braccia.
“Non sono Amanda” “Lo so, lo so” l’avevo abbracciata e avevo ricominciato a respirare. Un pelo, ero andato a un pelo dal perderla. Avevo chiamato Serena, per fortuna si poteva fermare a dormire e così io ero rimasto a La Spezia. Quella notte avevamo bisogno di stare insieme. È quella notte che, inaspettato, ma non troppo, è arrivato Emanuele.
Aveva sospeso la pillola, per una delle pause programmate, in quelle settimane andavamo di preservativo. Quella sera a La Spezia in casa di Patrizia non ce ne erano, ma Emanuele non è stato un errore. Mi ricordo come fosse ieri che l’ho guardata:” Sei sicura?” “Sì” e non abbiamo fatto nulla per evitarlo.
Quando ci siamo sposati il pancione di cinque mesi iniziava a vedersi chiaramente sotto il vestito.
A proposito di Emanuele. “Pat, mettiti al vento che secondo me lo sciagurato domani a cena si presenta con la fidanzata, ma mica ci avverte.” “ Lo so bene! Indisciplinato dentro, quello li” mi risponde allegra prendendomi sotto braccio, mentre usciamo dalla caserma.
Ci incamminiamo verso casa, le nostre gambe si muovo all’unisono.
Ho molto perduto e molto avuto. Molto sofferto e molto gioito.
Sono stato e sono molto amato.  Sono un uomo fortunato.
“Ti offro un aperitivo, moglie” le dico. “Buona idea” e come suo solito, incurante della divisa, mi posa un bacio sulle labbra.
  
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