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Autore: Suzerain    25/10/2017    0 recensioni
[Bungou to Alchemist]
I loro cuori battono, ancora. Con il palmo che poggia sul terreno, solleticato dai fili d’erba che l’adornano, si scopre colto di sorpresa dalla regolarità di quel ritmo. Un colpo, due. E poi quattro, e poi dieci.
{drug mention | ango!centric | ango/chuuya}
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: In the shadow, under cherries in full bloom.
Autrice: Suzerain.
Fandom: Bungou to Alchemist (文豪とアルケミスト)

Rating: Giallo.
Pairing: Ango/Chuuya.
Personaggi: Ango Sakaguchi, Chuuya Nakahara.
Desclaimer: I personaggi di Bungou to Alchemist (文豪とアルケミスト) non mi appartengono, essendo sotto il copyright della DMM.com. Il qui presente scritto non ha fini di lucro, e le situazioni narratevi sono di mia proprietà, così come l'icon utilizzata nelle note autore.
Il titolo della storia, e più in generale la storia in sé, potrebbe essere considerata come un unico, grande omaggio al racconto "Sakura no mori no mankai no shita" (桜の森の満開の下), in italiano tradotto come Sotto la foresta di ciliegi in fiore.
Ambientazione: Non specificata.
Note dell'autrice: E' la prima volta che scrivo dal punto di vista di un personaggio così lontano dai miei standard, ma vi dirò: non mi sono mai divertita così tanto durante la stesura di una storia. Tutto è stato molto leggero, molto naturale, e si che ero sinceramente terrorizzata all'idea di omaggiare Ango anche dal punto di vista stilistico.
Sakura no mori no mankai no shita, è il mio racconto preferito. L'ho riletto più volte prima di cimentarmi in quest'impresa, nella speranza di riuscire a coglierne ancor di più le sfumature, e di catturare anche se in minima parte lo spirito di Ango e il senso di solitudine e disperazione che vi emergevano; forse pecco di presunzione, affermando che mi pare di esserci riuscita? Non so. Ma sono davvero molto, molto soddisfatta.
Avrei voluto pubblicarla in tempo per il compleanno di Ango, ma spero mi si perdonerà il ritardo!
Come sempre, vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato/state per dedicarmi (L).

 

E’ un sospiro, quello del vento. Riecheggia. La sua voce si disperde, solo morbide vibrazioni quelle che agitano le fronde gli alberi le cui ombre si stagliano nel giardino, assumendo forme tra loro assai disparate.
Piovono petali. Seguono quel sospiro che ancor si ripete, danzando su parole e suoni che lui non comprende che si ergono al di là della sua limitata comprensione, lui, niente di diverso da quelle polveri ed ossa la cui presenza riesce a percepire, lì, sotto il manto della madre terra.
I loro cuori battono, ancora. Con il palmo che poggia sul terreno, solleticato dai fili d’erba che l’adornano, si scopre colto di sorpresa dalla regolarità di quel ritmo. Un colpo, due. E poi quattro, e poi dieci. E poi sono mani che si levano, scavando nella terra sino a quando non riescono di nuovo a bagnarsi dei raggi del Sole ed udire quelle parole di cui non sarebbe stato giusto per lui essere l’unico fruitore.
Gli afferrano il polso dita ossute, in più punti prive della carne. Stringono e stringono, eppure non v’è da parte sua alcun tentativo di opporsi lascia che lo usino come appiglio, e riemergano dall’oscurità in cui sono state esiliate anni orsono; niente abbandona le labbra ricurve, nemmeno quando graffiano, e le unghie lunghe ed ingiallite si conficcano nella pelle.
Piovono petali. Danzano sulla scia di onde trasparenti, rosa pallido a circondarlo, inebriando le sue narici di un odore dolce al punto da sembrare veleno. Il rosa diventa rosso. I fiori si tingono di sangue. E quella mano ossuta, e il fetore della composizione si artigliano al suo braccio ancora di più, smuovendo la terra sotto di lui.
Inspira, Ango, e chiude gli occhi tra quelle parole sussurrate. Al centro del nulla, appoggiato con la schiena ad un tronco forse secolare; echi distanti di voci dimenticate, immagini sfocate di un passato vicino e lontano al tempo stesso. Il profumo dei ciliegi, la pioggia carminia. L’aria che manca, quando il sospiro si placa.
E’ come tornare a quel giorno, quando ancora scorrevano nel mondo i fiumi della guerra, ed il cielo era adornato non più da nuvole, ma dai cadaveri metallici di aerei e diverse bandiere. Quando nella capitale si trovò il tempo di piangere i morti, e restituirli al vuoto primordiale che agli albori diede loro la vita e non v’era niente, ad interrompere quella pratica, nemmeno i respiri dei presenti.
A quel vuoto parevano essersi avvicinati; a quel nulla che inghiottì un numero sproporzionato di vite, improvvisamente sembravano appartenere. Silenzio. Assordante silenzio. Un silenzio ch’ebbe la tentazione di interrompere più volte, ma che si limitò a sopportare a tentare, di sopportare; bruciavano i morti, divorati dalle fiamme. E il loro odore, quello di carne bruciata, veniva coperto dal profumo fresco di fiori che lentamente scivolavano al suolo.
I fiori di ciliegio rendono le persone folli. Ne trovò conferma in quel momento, mentre in lui si agitava una bestia fatta di rabbia, di odio, di stanchezza; erano fiori, erano semi. Erano il caos e la follia che scendevano in terra celandosi al di là di un velo di effimera bellezza, e che lui osservava pur desiderando fermarsi, allontanarsi, essendone spaventato.
Quelle dita affusolate gli stringono ancora il polso, e lui si domanda se non appartengano ad uno dei corpi di quel giorno. L’odore acre di bruciato. Il profumo dei fiori. L’olezzo di decomposizione. L’odore della morte, e il suono del silenzio. Gli si stringono attorno e si moltiplicano; non ha bisogno di vederle, di posare sulla loro immagine gli occhi azzurri, per avvertire la terra smuoversi ancora, ed altre mani afferrarlo come se nella morte ancora provassero desiderio, e questo coincidesse con il trascinarlo là, in quel mondo di puro nulla cui ormai appartengono.
Si chiede se dovrebbe opporre resistenza oppure no. Se quello faccia parte del ciclo della vita, o se si tratti di qualcosa che può evitare accadere; se sia destino che lui, che ha beffato la morte ed alla stessa sia stato strappato per compiere un destino assai più grande, debba nuovamente trovare qui la propria dipartita. Non nel tentativo di purificare un libro, non nel cuore della battaglia, ma lì: miseramente, divorato da semi che sanno di petali.
Certo gli si addice, cadere preda della follia ch’egli stesso ha descritto, scivolare in quella 
decadenza che alla sua persona è impossibile il non accostare  la decadenza dell’umano, del divino, dell’essenza stessa del cuore delle cose; ed allora forse opporsi è sbagliato, e dovrebbe lasciare che quelle esistenze senza nome gli strappino l’anima dal corpo e la pelle dalle ossa. 
«Ecco dov’eri.»
Infrange il silenzio. Distrugge la stasi. S’arresta addirittura la pioggia rosea che sino a quel momento l’ha accompagnato nell’idillio della reminiscenza. Ha bisogno di mettere a fuoco e sbattere ripetutamente le palpebre pesanti, perché a quella voce riesca ad associare un volto conosciuto – tratti delicati, che quasi si mescolano in quello spettacolo di beltà e distruzione. 
Non riesce ad evitare che le proprie labbra si incurvino, che la voce, quando riesce a muovere le labbra, sia marcata da quella nota divertita che mai manca rivolgergli e che dei loro scambi resta, ancora e a distanza di tempo, la principale protagonista. E quelle mani – quelle che tentavano di renderlo simile a loro – svaniscono d’improvviso; non percepisce più il loro tocco, non più la loro presenza. 
E la terra, quando per un momento vi posa lo sguardo, non è smossa.
Sorride di più.
«Il piccolo Chuuya era preoccupato per me?» domanda, e non v’è sorpresa dinanzi allo sguardo colmo d’irritazione che gli vale l’utilizzo di quell’aggettivo; non si scompone però, e con la punta delle dita sistema i propri occhiali. 
Nakahara schiocca la lingua contro il palato ed inarca un sopracciglio – è un cipiglio che sul suo viso ha un che di buffo. 
«Per quanto mi riguarda puoi anche crepare d’overdose.» comincia, le iridi dorate ancora fisse sulla sua persona. La sua voce è tagliente, come se persino attraverso il tono volesse ribadire di pensarlo davvero. La cosa lo fa ridacchiare, così che Chuuya si vede nuovamente costretto ad attirarne l’attenzione, schiarendosi la voce e sospirando seccato. «E’ quella testa di cazzo di Dazai ad essere preoccupato per te.» 
«Mh-hm, capisco.» 
Non ammettere le cose, rinnegarle sino all’ultimo respiro è da lui. Non ne è disturbato – divertito forse, in parte; di come nelle loro differenze siano simili più di quanto non diano a vedere, e come allo stesso tempo il loro essere agli antipodi sia alla base del loro rapporto. 
Tristezza. Sofferenza. Quei fiori che adornano la vita dell’essere umano. Dolore, angoscia, le emozioni che sono state alla base della sua esistenza e di quella altrui. 
Osservandolo dalla posizione in cui si trova, Chuuya pare ergersi al centro della foresta di ciliegi in fiore. Insieme, in quel luogo che sino a poc’anzi aveva minacciato divorarlo, mentre i petali cadono, cadono, e cadono ancora. Di un pallido rosato che non è più carminio, di una pioggia che non sembra più sangue. 
Cadono e cadono, e non sente il soffiare del vento, il freddo sussurro di una canzone priva di parole ed il gelido sospiro dei morti sulla sua pelle. C’è solo Chuuya, e l’odore del sakè impresso sui suoi abiti – quelli che quando si allunga con il corpo, e raggiunta la sua mano lo tira contro di sé, facendogli perdere il senso dell’equilibrio, appaiono ai suoi occhi come nient’altro che limitazione. 
«Che cazzo stai facendo?» 
«Ti stringo a me. Mi pare ovvio.» 
Alle sue labbra sfugge quasi un ringhio – ed ancora, Ango non è sorpreso né tenta di nascondere il suo lieve ridacchiare. Lo stringe di più, ed è così vicino che ora ne sente il profumo. Il suo, non quello dell’alcool scadente, non quello inebriante della Primavera che sopraggiunge; e qualcosa si agita dentro di lui, scalpita all’interno del suo petto, urla e si dimena. 
Non sente il bisogno di tenerla a bada. 
«La droga ti ha dato al cervello?»
E’ una risposta non verbale. E’ poggiare le labbra sulle sue e notare che nonostante tutto non si discosta – Chuuya, Chuuya e i suoi controsensi, Chuuya e la sua bocca, quella di cui s’appropria nell’attimo stesso in cui si dischiude, insinuandovi la lingua. Chuuya, assuefacente quanto quelle sostanze cui è tanto devoto, e le cui mani s’infilano ora tra i suoi capelli mentre senza ombra di delicatezza; all’ombra dei ciliegi in fiore, al centro di quel vortice ch’era stato della solitudine l’incarnazione, loro e loro soltanto
Può darsi si sarebbero tramutati in fiori. Forse l’incanto svanirà, e quelle mani compariranno ancora; forse quelle mani appartenevano a Chuuya stesso, e un giorno si sarebbe mostrato a lui per il demone che era, stringendogli le mani al collo sino a privarlo del respiro, dell’anima e della vita. Strappandogli il cuore, fracassandogli il petto, tagliandogli la testa e facendone oggetto del proprio diletto sino a quando non fosse marcita.
Ma non avrebbe interrotto quel bacio, né smesso di mordergli le labbra fintato l’aria non l’avesse abbandonato del tutto – e che meravigliosa dipartita sarebbe stata, preda del più grande dei piaceri, fantoccio posseduto dalla libido e dal desiderio. La morte come la vita: in balia del vizio.
C’è un rivolo di saliva a legarli ancora, quando infine decide di allontanarsi. Lo guarda, gli occhiali scivolati di nuovo sul naso. E’ ansante quanto lui e ha gli occhi lucidi, per un momento; uno soltanto, che precede l’allontanarlo senza riguardo.
Nessuno dei due parla per un po’, statiche le pose e le espressioni; ma poi Chuuya si avvicina di nuovo, ed è il ripetersi di gesti già conosciuti, di calore che affiora dal nulla, di abiti che si fanno ancor più restrittivi di quanto fossero stati sino a quel momento. Ed è una bestia che si agita ancora, mentre il corpo dell’altro spinge contro il suo, e con la lingua gli percorre il collo. 
Se il vento ancora canti, non sa dirlo. Se gli alberi danzino a quella melodia, non gli importa più. 
Intorno a loro petali di polvere. Cadono. Cadono. Cadono. 

   
 
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