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Autore: lillabulleryu    25/10/2017    2 recensioni
Lance McKlain ha un sogno: diventare un famoso attore di teatro! Una possibilità interessante sembra presentarglisi, ma dovrà collaborare con Keith Kogane, pianista hipster patito di jazz e caffè...
(Come molti potranno perspicacemente notare, la fanfic è ispiramente liberata al quasi omonimo film La La Land. Quello che si sono sbagliati a darci l’Oscar come miglior film, per intenderci. Che ne ha comunque vinti un casino, era candidato per almeno quattordici.
Non contiene: tip tap, citazioni di musical d’epoca, Frédéric Chopin, attrici che diventano famose e parlano francese per fare più le fighe, glutine
Contiene: snobismo, parolacce, frutta a guscio, jazz, tai chi, cose inventate, cose non inventate, glutine
Potrebbe contenere tracce di Franz Liszt e nicotina.)
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Gunderson Pidge/Holt Katie, Kogane Keith, McClain Lance, Takashi Shirogane, Un po' tutti
Note: AU, Lime, Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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Perché, quando vuoi sapere come stia il tuo gatto, non puoi iniziare la conversazione al telefono con Ciao mamma, come sta Curie?, ma devi optare per Ciao mamma, com’è andato il matrimonio di Stacey?
Per lo stesso motivo per cui, nel problema di Erone devi determinare il percorso minimo che si deve compiere per andare da un punto A ad un punto B toccando una certa retta r esterna ai due punti.
Scusa, Erone, non si può passare da A a B direttamente? Di sicuro fai prima.
B, B, B! Sempre a pensare ai punti B! Non c’è altro, per te, nella vita? Con che valori ti ho cresciuto? Non te ne importa niente della retta r? Sei egoista, maleducata e insensibile!
Niente è mai così semplice.
C’è sempre una retta r esterna per cui sei obbligato dal problema a passare, anche se il punto di arrivo è altrove.
E allora, eccoci qui: tua cugina era molto dispiaciuta che non ci fossi, sapessi quant’era bella, ha scelto un vestito meraviglioso, bisognerà che guardi il video e che la chiami…
Pidge aveva messo il feedback assertivo automatico, mentre pensava a Curie, al suo nasino rosa e al cappuccio grigio che ricopriva testa e schiena del suo tondo corpo bianco latte.
(No, non “Curry”, come la miscela di spezie indiana, Curie come Marie Curie, sì, anche se era un maschio, e allora?)
La vita lontana da lui era straniante: nessun ruffiano che saltasse sul tavolo per riempirla di disinteressate testatine e casuali musate nel piatto. Nessun agguato ai lacci delle scarpe. Nessun cuscino vibrante che le venisse in grembo mentre studiava.
L’assenza di Curie era un vuoto incolmabile. La più abissale differenza tra Casa e un luogo estraneo.
- Sì, sì. – rassicurò sua madre e picchiettò nervosamente la sigaretta.
La cenere si sbriciolò leggiadra e si confuse nella strada sudicia.
- No… niente di nuovo. Continuo a scrivere. Come sta Curie?
La mamma lasciò cadere una piccata pausa di silenzio. Bene. Mangia e dorme.
Non aggiunse altro.
Pidge avrebbe voluto che le raccontasse tutto quello che aveva combinato, ma a insistere l’avrebbe solo innervosita. Sua madre trovava immorale affezionarsi troppo agli animali: non puoi preferire un gatto alla tua famiglia, alla vita di altre persone, specialmente quelle più sfortunate.
Pidge aveva smesso di cercare di spiegarsi: non è che conta di più la sua vita, mi sta molto a cuore anche quella.
Come ogni persona segnata da tanto dolore, sua madre si era atrofizzata nelle sue rigidità. La filantropia era un dogma da perseguire e diffondere: aveva bisogno di partecipare alle miserie umane e sostenere ogni giusta causa a favore degli oppressi. Si nutriva del conforto che poteva offrire per sentirsi più giusta, più pulita.
Lasciò che cambiasse argomento e che parlasse di quello che desiderava: del tempo, degli zii, degli altri parenti, dei fantasmi dell’ospedale.
Lei taceva, respirava il fumo a boccate e poi lo cacciava fuori.
Nel marciapiede di fronte, un signore lavava il vetro di un negozio di scarpe; un odore pungente di detersivo alla lavanda arrivava fino a lei e si impastava nel naso a quello del tabacco. 
C’era qualcosa di gratificante in quei gesti fluidi; sulla matassa schiumosa tracciavano sentieri trasparenti. Tutto il superfluo, colava giù.
Ormai sul mercato esistevano persino i robot lavavetri, con potenza massima oltre i 30 W e una velocità di pulizia di 0,15 m/s…
- Sì, ti sto ascoltando. – mentì Pidge, distogliendo lo sguardo dall’ipnotico oggetto. - Il tempo qui è schifoso, ma finché non fa caldo, va bene.
Prendi anche un po’ di sole.
Metti la gonna.
Ce la fai ad andare al mare? Lo sai che manchi di vitamina D.
Pidge fece una smorfia.
- Se trovo il tempo.
Le sigarette lasciavano dentro una traccia appiccicosa di sporco grigiastro.
Perché si ostinasse a fumarne, poi… Persino queste, che dovevano sapere di ciliegia, erano nauseanti.
- Ora ti devo salutare.
Chiuse la conversazione e avviò Neko Atsume. Per oscuri e ingiustificati motivi, i gattini animati che venivano a mangiare, giocare e dormire in un cortile virtuale la rilassavano. Sperava che la aiutassero a sciogliere quella maledetta matassa di stoppa che si era avviluppata in gola e che la facevano sentire come un lavandino otturato.
- Non sei un po’ troppo piccola, per fumare?
Pidge sussultò: era l’Esploratore, seguito dal Tecnico-delle-luci.
Dei suoi colleghi non conosceva quasi nulla, se non le viscerali reazioni che il proprio istinto le suggeriva.
L’Esploratore era quello che le ispirava un’avversione particolare: non sopportava le persone invadenti. Aveva l’aggravante di comportarsi da montato e parlare sempre, per altro a voce altissima. Era abbastanza per non meritarsi nessuno sforzo di memorizzare il suo nome.
- E tu non sei abbastanza grande per farti i cavoli tuoi? – gli rispose acidamente.
- A cuccia, fratellone! – il Tecnico lo prevenì dal replicare a tono e subito si scusò: - È una sua deformazione professionale. Siccome ha tredicimila fratelli, quando fiuta un pericolo si fa subito una chioccia impicciona!
L’Esploratore gli mollò un calcio negli stinchi.
 – Con te la voglia mi è passata subito! E per la cronaca, sono sei fratelli e tre nipoti!
- Perché mi devi sempre prendere a calci a destra, non puoi alternare?!
Il Tecnico dava un’impressione molto diversa: goffo nei movimenti, gentile, sempre con la battuta pronta. La simpatia che esprimeva il suo sorriso sembrava genuina.
Avrebbe anche potuto essere associato a un nome, ma, quando si era presentato, Pidge aveva sentito “Trunk” e aveva rifiutato di credere di aver capito bene. Chiedergli di ripetere, in ogni caso, era fuori discussione.
- Perché non vieni a prendere un tè o un caffè al bar dove lavoriamo?
Il Tecnico Trunk non considerava ancora conclusa la conversazione; la domanda era rivolta a lei.
Tutta quella confidenza da parte di due ragazzi che aveva visto non più di due volte era inspiegabile.
Per non dire irritante.
- No, grazie.
- Ci sono sempre dei muffin al burro d’arachidi che sono oltre l’oltre del buono! – insistette il ragazzo. Il solo ricordo dei dolci dipinse un’espressione estatica sul suo volto, mentre univa il pollice e l’indice in una “O”. – Come fan del burro d’arachidi, non puoi perderteli!
La sorpresa prevalse sul fastidio di Pidge.
- Come fai a sapere che mi piace il burro d’arachidi?
- Uhm, me lo ha detto la pin più grossa del tuo zaino con su scritto “I LOVE PEANUT BUTTER”?
- Oh.
Tendeva a dimenticare che quelle spille potevano essere lette. Le esibiva come una pinacoteca di metallo, ma era abituata che la gente ne scorgesse distrattamente l’accozzaglia informe. Era per se stessa, non per il pubblico.
- È meglio un dolcetto delle sigarette!
Grazie, Esploratore.
Meno male che non hai perso la predica salutistica delle otto e diciassette post meridium.
Ricordandomi perché vi evitassi.

- Vi paga la campagna anti-fumo?
I due ragazzi scoppiarono a ridere, anche se Pidge non intendeva divertirli.
- Dici che dovremmo farci rimborsare questa chiacchierata igienica?
- Dovremmo chiedere una percentuale anche a Mechetti per la pubblicità al bar!
Il Tecnico si fece improvvisamente solenne, raddrizzando la postura e portandosi la mano destra sul cuore.
- Per quei muffin lo farei anche gratis! – poi tornò a rivolgersi a lei con un sorriso caldo: - Molti studenti vengono da noi a studiare, puoi venire anche tu!
- È vicino al teatro! – gli diede manforte l’Esploratore, illuminandosi come se avesse appena sentito l’idea più magnifica degli ultimi mesi, - Qua ci devi passare per le prove, no?
Pidge riuscì a tenere per sé la raffica di risposte al vetriolo che le salirono alla gola.
Sull’educazione riusciva ancora ad avere controllo, ma non sarebbero bastati lustri di addestramento per correggere la sua proverbiale socievolezza di ghianda.
- Beh… io a dire il vero...
Una scusa, un rifiuto cortese o accenni evasivi non furono necessari: il Tecnico la dispensò dallo sforzo, forse rendendosi conto che non la proposta non l’aveva entusiasmata.
- Pensaci con calma. – ebbe anche la premura di cambiare argomento, con grande naturalezza: - Da quanto tempo reciti?
- Ho iniziato quando ero bambina. – rispose lei, di malavoglia, - A metà del liceo, ho smesso.
- Hai l’esame finale quest’anno?
Il sopracciglio sinistro di Pidge ebbe un guizzo nervoso.
- Sto scrivendo la tesi di laurea.
Gli occhi dell’Esploratore e del Tecnico si sgranarono di incredulità fino a diventare grandi il doppio; si guardarono tra loro e aprirono stolidamente la bocca, senza emettere suono.
Poi iniziarono i balbettii:
- Oh… ah… eh…
- Sai, sembri… più…
- Lo so. – li interruppe bruscamente, con la voce più asciutta di un deserto di sale.
Nessuno dei due proferì altro sugli studi. Sarebbe stato meno faticoso e imbarazzante per tutti se la conversazione fosse terminata, ma ancora non volevano darsi per vinti.
- Quindi hai fatto teatro con Shiro?
- Lo conoscevo da prima. – sapeva che non se la sarebbe cavata con così poco, così anticipò le risposte successive: - Lui e mio fratello erano compagni all’accademia. Hanno lavorato insieme da sempre. 
- Wow! Complimenti! Sei praticamente figlia… no, sorella d’arte!
Lasciò cadere il discorso.
***
 
Antico: Giovanotto, è una matassa ingarbugliata, con quella dal labirinto non si esce.
Ricercatrice: Il tempo passa… o forse non più?
Esploratore: Terra vedevo! Terra, vi giuro… potrei disegnarvela.
Antico: Eh, Odisseo, Odisseo… seminò il sale pur di non partire, ma nemmeno dopo anni di patimenti riuscì a fermarsi. Forse sei giunto nella terra senza remi.
Esploratore: In mezzo alla tempesta la scorsi… l’isola degli Uccelli! La mia Nefelokokugia! La sua schiena di gobbo dormiente, riversa sull’orizzonte.
Ricercatrice: Ah, eccola. Ritorna!
Esploratore: Chi?
Ricercatrice: Lei… la custode.
Antico: È una dea antica. Creò il mondo, ma mai vi mise piede. Lo sogna solamente.
(entra la Bambina; il pianista accenna il Suo Tema. Ha in braccio tanti veli, vestiti e sciarpe colorati; li porta malamente, ne dissemina molti dietro di lei. Ne appoggia un po’ sul pianoforte e comincia a rimirarli.)
Esploratore: Mia signora... ditemelo, se potete, vi prego. Dove mi trovo? Ricordo solo che, ad un tratto, infuriò una tempesta tremenda. Un fulmine fu così accecante da stordirmi. Non saprei neanche dire se presi fuoco. Forse sono morto?
Bambina: (alla Ricercatrice, porgendole un lembo di tulle) Vestimi come una principessa. O come una farfalla. Voglio volare!
Ricercatrice: Vuoi fare la fatina?
Bambina: Sì! (si mette a canticchiare, accompagnata dal pianoforte)
Voglio volare, volare, volare
Come la nube, la nube, la nube.
(si accorge dell’Esploratore solo in quel momento) Ciao. Chi sei?
(Parte la Prima Canzone: “Nefelokokugia”)
Esploratore:
Dormi figliolo,
Non hai da cercare,
Questo orizzonte
è sabbia tra dita…

- Io la gonna non me la faccio mettere.
I personaggi, con un sussulto, si congelarono sulla scena.
Bastò un istante e tornarono gli attori; si volsero perplessi verso chi aveva interrotto l’illusione.
Pidge si sentì l’imbarazzo e lo sdegno infiammarle le guance. Ma era fatta: anche a costo di passare per la capricciosa prima donna di turno, non era disposta a tacere. Se ne sentiva in diritto come se lo spettacolo le appartenesse.
- Questa bambina mi dà sui nervi! È stupida! Perché va a chiedere proprio alla Ricercatrice di vestirla? Se non ha mai visitato il mondo che differenza le fa? Può andare da chiunque, anche dall’Antico!
- È chiaro che la bambina ricerca nella donna adulta una figura materna in cui rifugiarsi. E poi, la battuta successiva è della Ricercatrice.
Allura, con l’eleganza della sua dizione britannica e le sue vocali chiare e pulite, tentò benevolmente di placare lo sfogo. Pidge se ne sentì ancora più irritata.
- La battuta la puoi dire anche senza vestirmi.
- Potrei drappeggiarti addosso un peplo di tulle. - Coran sembrava aver gradito l’idea di essere investito della vestizione. - Non è proprio una gonna, ma nell’antichità—
- È proprio necessario che appoggi la roba sul pianoforte? – lo interruppe Keith, scocciato. Si era alzato in piedi e aveva afferrato un lembo del tulle più vicino, come se non vedesse l’ora di levarlo dalla preziosa superficie d’appoggio.
- Oh, che palle, ci mancava giusto lui.
Lance rovesciò gli occhi al cielo. Il commento era stato fatto a voce talmente alta che nessuno dubitò che si trattasse di deliberata provocazione.
- Sta’ zitto! – Keith si stizzì immediatamente e il tulle ne fece le spese: fu lanciato in aria e si afflosciò a terra con la grazia di una razza in un acquario. - Tu, specialmente, non ti puoi appoggiare! Ci lasci le ditate!
- Stai insinuando che ho le mani sporche?! 
- Tu l’hai detto!
Shiro era al limite della sopportazione: si era alzato in piedi e teneva gli occhi chiusi, la bocca tirata nello sforzo di dominarsi e i muscoli sopraccigliari in evidente tensione.
- Ragazzi. – la parola fu scandita con ruvidezza, - Per favore.
- Il registro linguistico non è un po’ aulico, Shiro?
- Sì, per essere un testo nuovo ci siamo fatti tutti un’overdose di Shakespeare…
- Il testo è scritto come è scritto!
Shiro aveva rimarcato il concetto alzando la voce con violenza inaspettata: la livida severità che gli inaspriva lo sguardo privò chiunque del coraggio di proseguire con le obiezioni: tutti sembrarono farsi piccoli dentro un guscio invisibile.
- Keith, il pianoforte è un oggetto di scena, dovrai sopportare che la gente ci si appoggi. - sentenziò deciso Shiro, una volta che fu sicuro di avere ripristinato l’ordine; - Pidge, il tuo personaggio è una bambina e, come tale, è femminile e aggraziata nei modi.
- Come se tutte le bambine fossero così. - replicò lei, sprezzante.
Non era intimorita né dal tono né dal ruolo, una rovente sete di giustizia la faceva sentire come se fosse stata più alta di lui.
- Dovrei avere il diritto di scegliere come interpretarla. Non sopporto quelle robe stucchevoli che sono scritte tra parentesi! La fai sembrare una demente!
- Se avessi letto tutto il copione, ti renderesti conto che non è sempre così. Ha un’essenza praticamente eterna, un’incredibile forza carismatica…
- Proprio perché l’ho letto, non capisco perché debba fare la bambina anche se ne ha l’aspetto! E poi, è proprio essenziale che sia femminile?!
- Sì, lo è!
Pidge conosceva bene quel tono. Dall’alto veniva lanciato un monolita che si schiantava nelle conversazioni per stroncarle come una perdita di tempo indesiderata.
Non hai ragione, stava inciso sul macigno.
Stai zitta.
Non ne sai niente.
Non sei tu a decidere, quindi basta.
Firmato: Io Sìchehoragione.
Nulla da scalfire.
Nulla da smuovere.
Probabilmente era così che avevano costruito Stonehenge.
- Ora, statemi bene a sentire. Non possiamo perdere tutto questo tempo a discutere. Se avete qualche perplessità, possiamo parlarne, ma è essenziale che siate precisi nell’eseguire gli spunti del vostro personaggio e vi atteniate al testo. Per me è fondamentale.
Sì, certo, il testo. Come no. 
Assecondare le sue pretese, semmai.
Perché si era lasciata incastrare?
Recitare non le piaceva più. Disciogliere se stessa in un’entità costruita a tavolino aveva cominciato ad essere uno sforzo insopportabile. Di ruoli se ne devono ricoprire fin troppi; parti distribuite per aspettative altrui, per sentito dire, per ignoranza, per educazione. 
Matt se n’era accorto prima di chiunque altro. Non aveva obiettato quando aveva annunciato che voleva smettere. Aveva sempre capito tutto, di lei, con naturalezza: era l’unico a non la farla sentire un essere enigmatico, assurdamente pretenzioso, perennemente fuori posto. Gli bastava ascoltare. La lasciava libera di essere chi voleva, come voleva.
Non si sarebbe trovata lì, se il copione non l’avesse scritto Matt. Eppure, anche davanti all’ultima possibilità di partecipare alla messa in scena della sua ultima opera, non era disposta a piegarsi alle presunzioni di una persona che non era l’autore.
Concentrò su Shiro tutto il suo disappunto e la sua rabbia, incurante del fatto che anche lui la stesse guardando.
La fermezza di lui sembrò incrinarsi sotto il peso del tacito rimprovero.
Fu il primo a distogliere lo sguardo.
- Cinque minuti di pausa.


- Grazie per avermi aiutato a sistemare. - Hunk si caricò il grosso cavo arrotolato sulla spalla, mentre con la mano libera si sistemava la borsa a tracolla. - Con te ci vediamo dopodomani, Pidgey! O domani, se passi al bar dalle sette alle due. E noi al cambio della guardia, Lance.
Pidge sorvolò sul soprannome stucchevole e si sforzò di ricambiare il sorriso. Hunk era troppo carino per meritarsi polemiche. Se era fortunata, se ne sarebbe dimenticato.
- Buona notte.
- Cia’, Hunk. Salutami la tua bella.
Il tecnico trotterellò fino alla porta, l’aprì con un calcio e si affrettò a varcarla, canticchiando tra sé le note di Don’t Stop Me Now dei Queen.
Lance si stiracchiò e si portò le mani alla nuca con un sospiro.
- Che invidia fottuta. Avere una ragazza che ti viene a prendere in macchina!
Che invidia fottuta. Lui è già fuori di qui.
- Lo viene a prendere sempre, a qualsiasi orario. Sono due piccioncinelli di primavera. Da cinque anni!
- Hm.
Pidge infilò il copione nello zaino con la matita ancora dentro e richiuse in fretta la zip. Quella giornata sembrava durare da mesi. Non vedeva l’ora di tornare al dormitorio.
Anche se adesso ricordava di essere in presenza di un individuo di nome Lance, non significava che in quelle ore avesse scalato la classifica delle sue persone preferite. Eppure, a dispetto della logica, lui e le sue acute osservazioni su cose di cui non gliene fregava un emerito cappio, continuavano a seguirla.
Quando l’aria della notte le sfiorò il volto, la speranza della rinascita la rianimò come una pianta a cui viene dato da bere. Inspirò a pieni polmoni e sorrise, pensando alla mezz’oretta silenziosa di camminata che l’attendeva. Avrebbe raggiunto casa, bevuto un latte al cioccolato per cena e lavorato sul suo framework implementato in Python almeno fino alle quattro.
Ora, buona notte a tutti e…
- Tu come torni a casa?
… E prima di partire si aspettava con pazienza di essere liberata dagli ultimi convenevoli.
- A piedi.
- Eh? Ma non hai detto che abiti lontano?!
Sempre se qualcuno si rassegnava a lasciarla alla sua passeggiata notturna e alla sua meritatissima notte al computer.
- L’ho già fatto altre volte.
- Ti accompagno.
- No! – a Pidge la voce sfuggì con un po’ troppa veemenza. Si schiarì la gola e tornò a una tonalità neutra. - Non mi è mai successo niente, è tutto ok!
- Sono in bici, ho dietro un sellino.
- Lascia stare, davvero!
- Guarda che se ci entra Hunk... Più o meno. No, più meno che più. Non riesco a pedalare davvero con lui dietro. Insomma, ci dovresti stare quasi comoda!
- Ti ho detto che non c’è bisogno!
- Non mi sento tranquillo a farti andare da sola! Sarebbe come mollare una sorella minore in giro di notte!
Lo stomaco di Pidge si improvvisò trapezista e si contrasse in una capriola dolorosa.
C’era un motivo per cui gli organi interni non erano fatti per intraprendere la carriera circense.
- Non sono tua sorella!
Il suo scatto stizzito fu una ghigliottina. Ad ogni suono fu recisa la testa. Il silenzio, gelido e imbarazzante, venne interrotto soltanto dal ronzio di qualche motore che sfrecciava in lontananza, perdendosi nella notte.
- Ok. Era… un esempio. Per dire. – farfugliò Lance. Si vedeva che era indispettito, ma fu la mortificazione a prevalere: - Scusa.
Pidge si sentiva la faccia e i polmoni andare a fuoco.
Sembrava che la sua voce stesse echeggiando per tutte le strade della città. Non avrebbe voluto urlare. Né maltrattare una persona, per quanto antipatica, e trovarsi innanzi a quell’espressione da lesso che la faceva sentire in colpa. Avrebbe solamente voluto essere lasciata in pace.
Avrebbe dovuto laurearsi, studiare ancora, vivere la vita come capitava e rassegnarsi al fatto che Matt non era più neanche in quello che restava dei suoi scritti.
- VAYA MIERDA!!! HO DIMENTICATO DENTRO LE CHIAVI E IL COPIONE!
- Eh…?
Pidge fu strappata ai suoi pensieri da uno strillo apocalittico; non fu immediato mettere insieme tutti i frammenti di frase per intendere che cosa avesse causato l’isteria di Lance.
- Beh… valli a riprendere… non è ancora l’una, il locale è aperto.
Il giovane attore rispose afferrandole un braccio e guardandola con occhi mezzi fuori dalle orbite.
- Vieni con me.
- Perché dovrei?! - obiettò lei stizzita, cercando di divincolarsi.
Lance aumentò la stretta, lo sguardo smarrito e confuso, vicino al panico.
- Perché… perché… - deglutì. Non sembrava sapere come continuare la frase.
Si risolse per non farlo, ma la lasciò andare.
Appoggiò le mani ai fianchi e concluse con cipiglio deciso: - Beh, così dopo prendiamo la bici e ti riporto a casa!
- Hai problemi di udito? Ti ho già detto che…!
- QUEL CAZZO DI CORRIDOIO MERDOSO AVRA’ TUTTE LE LUCI SPENTISSIME.
- … mi stai… chiedendo di accompagnarti perché hai paura del buio?
- ACCOMPAGNAMI E BASTA.


Il Braun stava per chiudere: soltanto le luci rossastre erano rimaste accese, difendendo la sua inconfondibile atmosfera da quell’insolito vuoto di musica. I camerieri avevano iniziato a rovesciare le sedie sui tavoli, mentre il barista ripuliva il bancone.
Fu l’unico ad alzare uno sguardo torvo, quando Lance e Pidge varcarono la soglia.
Lance farfugliò che doveva recuperare una cosa; quello non si oppose e non chiese altro. Tornò a strofinare il bicchiere con scontroso zelo. Doveva essere stanco o abituato agli attori fuori orario. O entrambe le cose.
Vennero inghiottiti dall’oscurità del corridoio.
Il ragazzo avanzava a rilento, precedendola. Ripeteva tra sé un sussurro continuo, come un mantra Tercera puerta a la izquierda, tercera puerta a la izquierda…
In Pidge si scontravano uno spietato senso di superiorità e una divertita tenerezza.
- Quindi il tuo coinquilino ti deve accompagnare al bagno, di notte?
Lance la zittì, punto sul vivo; lo sentì agitarsi nel buio e ne intravide un gesto stizzito.
Bene.
Accompagnandolo poteva mettere a tacere il suo senso di colpa e guadagnare un ottimo argomento di difesa dalla sua petulanza.
Essere trascinata controvoglia nelle situazioni poteva rivelare dei piacevoli vantaggi strategici.
Lance si bloccò, sussultando: stava trattenendo il fiato. Delle voci ovattate provenivano dalla terza stanza a sinistra, a pochi passi da loro.
Si accostarono e Lance socchiuse appena la porta, senza far rumore: uno spiraglio di luce si stiracchiò debolmente fino a toccare la parete di fronte.
Pidge aveva riconosciuto le voci di Shiro e del pianista emo; Lance, però, non aprì la porta ma rimase in attesa, a fissarli. Gli tirò una gomitata, ma lui la ignorò. Si sporse anche lei a guardare.
- … non dovresti, però. - stava dicendo Shiro. Era l’unico dei due che riusciva a vedere in pieno viso: un sorriso mesto rendeva il suo volto più pallido e più stanco. - È un peccato.
Avvertì uno schiocco della lingua del pianista e uno sbuffo sarcastico.
- Che cos’è rimasto, alla fine, per cui valga la pena farlo? Non ha senso. Figurati se perdo tempo con queste scemenze.
- Beh, Ulaz ti ha richiamato, no? Prendilo come una specie di regalo.
Il pianista esitò. Un fruscio di fogli, lo scorrere fulmineo di una zip. Dei passi. Riuscì a intravedere il profilo del ragazzo. Teneva lo sguardo basso.
- … mi dispiace per la cosa del pianoforte. - soggiunse infine in tono sommesso. La sua voce sembrava rotta. Shiro gli appoggiò una mano sulla spalla. Accennò una risata leggera, piena di affetto.
- Se non ti lamentassi, come farei a riconoscerti?
Lo strinse in un abbraccio. Il pianista lo subì con inerzia, prima di ricambiarlo titubante.
E, probabilmente, sarebbero rimasti così a lungo, se Lance, forse nel tentativo di allontanarsi, non l’avesse calciata.
Toc. La gomma delle scarpe risuonò con un tonfo sgraziato sul laminato della porta.
Pidge si ritrasse di scatto, appiattendosi contro il muro. Per Lance era tardi.
Balbettò qualcosa a voce altissima. Spalancò la porta e si infilò dentro rapidamente, iniziando a sciorinare una stridula raffica di parole: - SCU—SCUSA, HO DIMENTICATO LE CHIAVONE E IL COPIAVI, ehm, l—le chiavi e il copione!
Per sua fortuna, non doveva averle abbandonate troppo lontane, perché in pochi secondi stava già facendo dietrofront; Shiro stava dicendo qualcosa, ma il suo saluto istericamente allegro lo coprì del tutto:
- CIVEDIAMOCIAO!
Lance fuggì così rapidamente che a Pidge sembrò di vederlo dall’altra parte del corridoio prima ancora di cominciare a correre.
 

 
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CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

Un grazie speciale a Kijomi, che ha iniziato a seguire Voltron e a leggere questa storia, e a LizHawk, che è stata così gentile da scrivermi <3
Grazie graziosi ai soliti noti che mi sopportano e a chiunque stia leggendo! 
   
 
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