Anime & Manga > Tokyo Mew Mew
Ricorda la storia  |      
Autore: Hypnotic Poison    25/10/2017    6 recensioni
A Thousand Worlds To Break Our Hearts: World Three.
Rabbrividì di nuovo e prese il cellulare, sbloccando lo schermo con lentezza infinita. Era arrivata fino a lì, che cosa avrebbe dovuto fare ora?
Fece un respiro profondo e digitò il numero che sapeva a memoria, mordendosi il labbro mentre si appoggiava il telefono all’orecchio. Il rimbombo dello squillo era quasi inquietante nel silenzio della notte.
Una parte di lei avrebbe voluto che non rispondesse; se ne sarebbe andata, adducendo la telefonata notturna ad uno sbaglio, ad una scivolata delle dita mentre ballava alla festa, ad un niente. Una parte di lei tremava di paura al pensiero di risentire la sua voce e immaginare l’effetto che avrebbe avuto su di lei.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kisshu Ikisatashi/Ghish, Mint Aizawa/Mina
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A thousand worlds to break our hearts'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
World Two: The One With The Family Reunion                                                                                         World Four: The One Where Our Songs Plays




“it´s my [insert family relation here]´s wedding and seeing all these happy couples is killing me and all I can think about is how this was almost us” AU
(Bonus: “I know that it’s two in the morning and I’m dressed really formally and a little (a lot) bit drunk but I couldn’t stop thinking about you after my grandma asked how you were doing also can I come in it’s freezing out here”)
 
 
 
Afferrò un altro calice di champagne dal vassoio del cameriere che le passò veloce accanto, impegnatissimo per quella festa così sontuosa ed importante per il loro hotel.
Dopotutto, qualsiasi componente della famiglia Aizawa ci teneva a mostrare la propria opulenza, e sua cugina Tomoyo non era stata da meno.
Minto vagò per la sala da ballo piena di parenti che non vedeva da una vita, di amici dell’università degli sposi che aveva incrociato qualche volta alle uscite congiunte, persone di spicco della città che riconosceva solo grazie ai loro altisonanti e notabili nomi.
La sala si apriva con una bellissima parete di vetro sul panorama della città illuminata dal tramonto, e lei sperò che i piccioncini si spicciassero a finire le foto e tornare qui per incominciare la cena, perché il suo stomaco brontolava da tre ore e non era il caso di continuare a berci sopra a vuoto.
Le erano sempre piaciuti i matrimoni, le feste, le occasioni mondane eleganti e felici. Non che dovesse trovare un motivo per indossare i vestiti migliori – o trovarne di nuovi – ma aveva sempre avuto un punto debole per certe celebrazioni. Almeno, erano un’occasione per rivedere le parti della famiglia che preferiva.
Questa volta, però, era tutto un po’ diverso.
Fino a sei mesi prima, aveva avuto bene in mente chi l’avrebbe accompagnata al matrimonio della stagione. Più o meno. I problemi c’erano stati, ovviamente, anche se a volte aveva fatto finta di ignorarli, ma non aveva mai pensato che sarebbe… andata com’era andata. Che si sarebbe ritrovata da sola al matrimonio di sua cugina, circondata da un numero di coppie che le sembrava quasi ironico.
Forse non ci aveva mai fatto tanto caso, perché per cinque anni non le era mai sembrato altro che la normalità, l’avere qualcuno al proprio fianco che sembrava non poter interrompere il contatto fisico, lo scambiarsi sguardi vomitevolmente zuccherosi e il sussurrarsi parole all’orecchio che scatenavano risate e la curiosità altrui.
Prese un altro sorso dal calice mentre virava più a sinistra nella sala, verso il tavolo su cui erano indicati i posti assegnati ad ogni ospite. Ripensò alla luce carica di emozione di Tomoyo mentre attraversava il corridoio della sala delle cerimonie nel suo costosissimo vestito e con quell’enorme diamante al dito, al sorriso estasiato che aveva fatto al dell’uomo di fronte a sé. Ripensò alla stretta al cuore che aveva sentito nel guardarli scambiarsi gli anelli come due bambini emozionati, dalla terza fila di panche adornate di fiocchi e fiori, mentre senza pensarci si passava il pollice contro il dito medio, dove fino a sei mesi prima aveva riposato quell’anello delle promesse che lui le aveva regalato quattro anni prima.
E pensare che quando avevano ricevuto l’invito per il matrimonio, un anno e mezzo prima, avevano addirittura commentato insieme su cosa loro due avrebbero e non avrebbero fatto. Ricordava ancora la sensazione di euforia che l’aveva colta, tante piccole bollicine che le erano scoppiate in gola, mentre seduta accanto a lui rideva e si lasciava abbracciare, prima che tutto andasse in frantumi.
Si schiarì la gola e sorrise ad un’invitata che le si era avvicinata per poter consultare la lista dei posti, uno dei direttori di sala che cortesemente indicava agli invitati di poter prendere posto ai tavoli. Scorse i nomi con un dito dall’elegante manicure, sorridendo quando si vide al tavolo tre insieme ai suoi nonni e agli zii materni, che non vedeva da Natale. Almeno le avrebbe fatto bene stare un po’ in famiglia e distrarsi, nonostante l’ambiente. Anche se tremava al solo pensiero di certi discorsi.
L’abbraccio di sua nonna, avvolta nel suo vestito migliore e il confortante profumo di sempre, le riscaldò le guance, poi la vecchietta la prese per un braccio mentre entrambe si sedevano al proprio tavolo, poco distante da quello degli sposi.
«Hai visto che disastro il vestito della contessa?» bisbigliò la nonna «Sessant’anni e ancora non ha imparato nulla!»
Minto rise sotto i baffi, approfittando subito di uno dei bicchieri di aperitivo fruttato disponibili sul tavolo: «Nonnina, potresti limitare il gossip a dopo il primo, almeno?»
«Oh, sciocchezze, tesoro mio! Non vedi quanta materia prima abbiamo di cui discutere? E più andremo avanti più tuo nonno si lamenterà perché vorrà alzarsi da tavola, quindi diamoci dentro finché siamo libere!»
Lei rise di nuovo e si lasciò cullare dai vecchi discorsi, salutando i parenti e dispensando eleganti sorrisi ad ogni nuova persona che le veniva presentata.
Quando ormai il sole era quasi del tutto sparito oltre l’orizzonte, e i piccoli assaggini pre-antipasto non avevano fatto altro che aumentare la fame dei commensali, finalmente la coppia di neosposi fece il suo trionfale ingresso nella sala da ballo, in un tripudio di applausi e fischi.
Minto li seguì con lo sguardo, contenta per loro nonostante quel groppo in gola che sembrava non riuscire mai a scacciare nonostante i svariati sorsi che prendeva, e gioì internamente nel vedere i primi, veri antipasti uscire dalla cucina insieme a camerieri così inamidati da sfidare le leggi della fisica per servire i piatti.
Il ronzio dei festeggiamenti, del chiacchiericcio, la soffusa musica di violini che riempiva la stanza la cullarono in uno stato di tiepida calma, un po’ come se non ci fosse lei davvero nel proprio corpo. Ancora poche ore (sperava, si erano fatte quasi le dieci e mezza e ancora aspettavano il secondo) e sarebbe potuta tornare a casa, togliersi quelle raffinate ma malefiche scarpe e collassare nel suo letto troppo grande per una persona sola, rannicchiata tra le coperte fino alla mattina avanzata del giorno dopo.
Lontana da tutte quelle coppie felici che le ricordavano solo dove lei avesse fallito.
Una gentile pressione sul polso la fece voltare verso una vecchia amica di sua cugina con cui aveva passato qualche estate da ragazzina: «Minto-chan, sai che sono venuta a vederti il mese scorso all’ultima data dello spettacolo?!»
Lei sorrise contenta: «Onoka-chan, ma che dici! Perché non sei venuta a salutarmi?»
«Avrei voluto ma c’era una mandria di persone e non sono riuscita a passare in camerino, purtroppo. Però direi che vista la folla, sta andando tutto bene, no?»
Minto annuì soddisfatta, lanciandosi in chiacchiere su un argomento che non falliva mai di renderla più allegra – anche se la minacciosa pietra all’anulare di Onoka continuava ad abbagliarla.
Passarono i secondi, intervallati da freschi sorbetti per ripulire il palato e le papille, accompagnati da sontuosi contorni e da vini sempre più importanti. Avrebbe dovuto stare a digiuno per un mese per poter tornare in forma a settembre, si disse tra sé e sé, occhieggiando i dolcetti che avrebbero preceduto la torta nuziale.
Continuò a conversare allegramente, porgendo la sua attenzione a diverse persone che a quanto pare avevano sentito parlare della sua carriera da prima ballerina ancora così in apice, scambiandosi brindisi ad ogni discorso di testimoni, damigelle e genitori, ridendo alle battute confuse e lanciando occhiatine ai due sposi, che sembravano brillare di luce propria. Doveva almeno ammettere, trangugiando un sorso di rosé, che era davvero contenta per loro, perché era da tanto che non le capitava di vedere due così innamorati.
Anche se lei avrebbe ucciso se il suo idealistico marito le avesse spiaccicato la torta in faccia – e sul vestito – come il neosposo di Tomoyo aveva fatto con lei.
Cominciava a sentire l’ottundimento da alcol, mischiata alla stanchezza di quella giornata, mentre cedeva alla golosità e prendeva anche una seconda fetta di quella deliziosa fetta (crema chantilly e gocce di cioccolato, proprio una delle loro scelte), ricordando a se stessa che era tanto che non sgarrava e la sua dieta si era ridotta, ultimamente.
Quando si aprirono le danze, lei si rese conto di essere troppo appesantita per poter lasciare la sedia, anche se il suo tavolo si svuotò abbastanza velocemente. Per non parlare del fatto che erano tutti partiti con i lenti.
Si rilassò contro la sedia, contenta che il vestito di chiffon le permettesse ampia libertà, e rivolse un sorriso alla nonna che era rimasta lì con lei.
La signora ricambiò, poi si schiarì la voce e le posò una mano sulla sua: «Posso farti una domanda, tesoro mio?»
Minto avrebbe tanto voluto rispondere di no: «Dimmi pure, nonna.»
«Dove l’hai messo quel tuo bel giovanotto?»
Lei sentì il cuore ghiacciarsi e si sforzò di non far tremolare la voce: «Le… cose non hanno funzionato esattamente secondo i piani, nonnina.»
La vecchietta la guardò con gli stessi occhi che aveva lei, carichi di comprensione, prima di darle un buffetto sulla mano e alzarsi: «Non esagerare con quelli,» accennò ai bicchieri di vino.
La mora annuì e rimase sola al tavolo, espirò lentamente ed ignorò il consiglio. Era riuscita così bene a costruirsi un muretto di grossi mattoni attorno a quel pensiero, ed era bastato il vento di quella giornata a tirare giù tutto. Si permise per un attimo di annegare nei ricordi felici, il groppo alla gola che continuava a crescere.
Tutt’ora, le mancava come se fosse aria. Andava in giro da mesi con un blocco di ghiaccio perenne nello stomaco, che si era attutito col tempo, ma tutta quella situazione la stava facendo sentire come nei primi giorni da quando avevano deciso di separarsi. Credeva di stare meglio, credeva che sarebbe riuscita a tenere la situazione sotto controllo, ma non riusciva a toglierselo dalla testa.
Tamburellò con le dita sul tavolo per tenerle occupate e impedire loro di afferrare il telefono che aveva nella borsetta e scorrere velocemente tutte le foto che non aveva avuto il coraggio di eliminare in tutto quel tempo. O fare di peggio.
Si alzò e si rifugiò in bagno, lontano dalle risate di tutte quelle coppie felici, sciacquandosi i polsi con un po’ di acqua fredda e osservando il proprio riflesso nello specchio, l’ombra di preoccupazione sotto gli occhi arrossati. Si intimò di calmarsi e di riprendere il contegno, che lui non valeva certo il rovinarsi i festeggiamenti per una delle sue amiche più care. Si sistemò il trucco con un pezzettino di carta igienica e tornò fuori, agguantò un bicchiere di champagne dal tavolo su cui erano riposti e si diresse verso l’open bar, dove qualche faccia conosciuta si era radunata.
Voleva divertirsi, voleva non pensare, eppure stava fallendo miseramente. Non riusciva a non percepire un vuoto di fianco a lei, tra le sue dita, il nome di lui che le pendeva dalla punta della lingua come se a pronunciarlo si sarebbe spezzato un incantesimo.
Afferrò uno shot che venne passato dal barista e lo buttò giù insieme alle amiche con cui stava ridendo, pretendendo che il bruciore negli occhi fosse dato dall’alcol e non dal cuore che non voleva saperne di ricucirsi.
Lei, lei che era sempre stata quella forte del loro vecchio gruppo di amici, ora si ritrovava quasi a piangere, dopo sei mesi, per un deficiente come lui.
Come Kisshu.
Kisshu.
Scese dallo sgabello con gambe tremanti, dirigendosi verso il suo tavolo. Non si era accorta di quanti bicchieri avesse bevuto, ma a giudicare dal suo stato attuale e dall’incertezza delle sue gambe, dovevano essere stati parecchi. 
Sapeva che avrebbe dovuto salutare parecchia gente, ma sapeva anche che nessuno si sarebbe offeso se fosse semplicemente sparita. La festa, nonostante l’ora tarda, era nel pieno svolgimento, e non avrebbero sicuramente fatto caso al momento in cui se ne sarebbe andata.
Uscì dall’hotel e fu investita da un’improvvisa aria fredda, troppo fredda per la sera di giugno. Lei aveva solo il vestito lungo addosso, persuasa dal sole che aveva brillato per tutta la giornata. Si strinse le braccia intorno al corpo, ringraziando per una volta di aver bevuto così tanto da avvertire meno il gelo, e che ci fosse sempre una coda di taxi in attesa davanti all’hotel. 
Si infilò dentro il primo disponibile e gli recitò, la bocca impastata, un indirizzo che conosceva a memoria. Era stata la loro casa per un anno, dopotutto, anche se era sempre appartenuta a lui.
Realizzò, in quel momento, che era molto probabile che lui non fosse a casa – era sabato sera, dopotutto – e anche se ci fosse stato, probabilmente stava dormendo. Erano quasi le due di notte, e non era assolutamente al corrente del suo… piano?
Le venne da ridere. Quella che stava facendo probabilmente era un’enorme idiozia, e lei non avrebbe mai, mai dovuto agire di pancia. Eppure non stava fermando il taxi, non gli stava dicendo di riportarla indietro al sicuro tra le pareti di casa.
L’inesistente traffico della notte rese il tragitto molto più veloce di quanto si ricordasse, o di quanto fosse pronta. Ringraziò a bassa voce il conducente, che probabilmente aveva notato il suo stato di intossicazione e voleva liberarsi di lei il più velocemente possibile, visto come sfrecciò via non appena lei fu scesa.
Minto rimase qualche istante a fissare la porta blu dall’altra parte della strada, i quattro gradini che conducevano ad essa, le finestre con le tende abbassate. Era tutto buio, dentro.
Rabbrividì di nuovo e prese il cellulare, sbloccando lo schermo con lentezza infinita. Era arrivata fino a lì, che cosa avrebbe dovuto fare ora?
Fece un respiro profondo e digitò il numero che sapeva a memoria, mordendosi il labbro mentre si appoggiava il telefono all’orecchio. Il rimbombo dello squillo era quasi inquietante nel silenzio della notte.
Una parte di lei avrebbe voluto che non rispondesse; se ne sarebbe andata, adducendo la telefonata notturna ad uno sbaglio, ad una scivolata delle dita mentre ballava alla festa, ad un niente. Una parte di lei tremava di paura al pensiero di risentire la sua voce e immaginare l’effetto che avrebbe avuto su di lei.
«… Pronto?»
Le si mozzò il respiro in gola a sentire la sua voce, roca e assonnata, dall’altra parte del ricevitore.
«Pronto?» insistette lui, non ricevendo alcuna risposta, ma Minto era bloccata, incerta, la bocca rifiutava di rispondere ai comandi del cervello.
«Mi fai gli scherzi telefonici alle due di notte, passerotto?»
 Sentì gli occhi riempirsi inevitabilmente di lacrime mentre i polmoni strillavano per ricevere aria.
«Sono… ehm, sono sotto casa tua.»
Sentì la staticità all’altro capo della linea: «Non sono in vena di scherzi a quest’ora.»
«Ho freddo.»
«Ma che cazzo…» lo sentì scendere frettolosamente dal letto, lo immaginò buttare le coperte all’aria e scendere le scale a piedi scalzi attraversare il salotto e l’ingresso, poi aprire la porta di scatto. Stagliarsi controluce davanti a lei, in tuta da ginnastica.
Kisshu abbassò il cellulare, il bip della telefonata conclusa che arrivò fino a lei nel silenzio della notte. Lo osservò squadrarla da capo a piedi dall’alto dei gradini, esaminare il lungo vestito di chiffon rosa cipria che indossava, i capelli raccolti in maniera elegante.
«Il matrimonio di Tomoyo?»
Minto annuì, torturandosi le mani, e Kisshu piegò la testa da un lato.
«Che diamine ci fai qui?»
La ragazza boccheggiò: «Io… io ero al matrimonio, e…»
«Sei ubriaca come una ciliegia sotto spirito.»
Si sentì arrossire: «Questo non c’entra.»
«Sei completamente fuori.»
«Senti, lo so che sono le due di notte e che sono ubriaca e sembro una pazza vestita così in giro,» lei non riuscì a trattenersi dal sbottare, allargandosi la gonna del vestito come una bambina capricciosa, «Ma sono ubriaca ed ero al matrimonio, e saremmo dovuti andarci insieme al matrimonio, e mi hanno chiesto di te e io non ho fatto altro che pensarci, e quindi sono venuta qui e adesso sto congelando quindi almeno abbi la decenza di farmi entrare. Per favore.»
Kisshu appariva a metà tra il divertito e il confuso. «È solo che c’è -» gesticolò verso l’interno di casa, e Minto sollevò le sopracciglia, comprendendo.
«Oh, okay, sei con qualcuno, allora non ti disturbo più.»
«No, no,» Kisshu si affrettò a scendere di un gradino, una mano tesa verso di lei «È Pai. Ma non sapevo se tu…»
«Oh,» Minto pensò brevemente all’austero fratello maggiore, con cui non era mai riuscita a connettersi nonostante gli svariati anni di conoscenza, ma poi un altro soffio di vento le fece aumentare la pelle d’oca «Be’ ho freddo.»
Il ragazzo rise divertito, e si fece da parte sulla porta, facendole un cenno con la testa verso l’interno: «Ho capito, hai freddo. Entra, su.»
Lei rimase un secondo in più a fissarlo in controluce, poi sgattaiolò velocemente tra le pareti, rabbrividendo per il calore che l’avvolse, e rimase ferma nell’ingresso, ad una solida distanza di sicurezza da lui, che continuò a fissarla con aria divertita.
«Su, forza, credo che tu sappia dov’è il divano. Vado a farti un caffè così ti riprendi.»
«Sto benissimo.»
«E come no.»
Kisshu si avviò a sinistra verso la cucina, controllando con la coda dell’occhio la mora che barcollò incerta fino al divano color crema e vi si lasciava cadere sopra, agguantando la coperta di lana spessa che riposava su un bracciolo e avvolgendovisi.
Non aveva calcolato che avrebbe avuto lo stesso familiare odore che aveva seppellito nei meandri della mente a forza. Se la strinse di più attorno al corpo e ci affondò il naso, la stanza che girava appena nei suoi occhi, e si costrinse a rimanere seduta e composta onde a evitare di peggiorare la situazione.
«Lo sai che stai canticchiando?»
Kisshu le comparve di fronte – o meglio, una tazza bianca fumante di caffè le comparve nel ristretto campo visivo, l’effetto dell’alcol si stava accumulando tutto in quel momento – irriverente, e lei strinse tra le mani infreddolite quell’invitante calore.
«Succede,» replicò lei impassibile prendendo un sorso.
Lui rise ancora: «Deve essere stato un gran bel matrimonio.»
«Eh, le rose bianche sono sopravvalutate.»
Il ragazzo ridacchiò e si sedette sul tappeto di fronte a lei, poggiò la propria tazza per terra e si avvicinò lentamente: «Ora non calciarmi, ma credo che staresti meglio senza questi trampoli.»
Minto sussultò appena quando le sue dita si chiusero attorno alla sua caviglia, slacciandole veloci il laccetto dei sandali e liberando il piede da quella gabbia. Si affrettò poi a rannicchiarsi ancora di più sotto la coperta, lui che rimase seduto dov’era.
«Va un po’ meglio?»
«No. Ma il caffè è buono.»
«Grazie.»
Cadde il silenzio nella stanza, interrotto solo dal loro vago sorseggiare. Minto si rese conto, un momento di lucidità nella nebbia che le stava invadendo il cervello, che nonostante tutto non c’era l’imbarazzo che si era aspettata, in quel silenzio… o forse era davvero solo l’alcol.
«Per riscaldarti avrei dell’ottimo cognac, ma non credo sarebbe il caso visto come sei ridotta,» ridacchiò lui.
«Se non uccide, fortifica,» commentò lei.
«Vero?»
«Vogliamo provare?»
«Non ci pensare nemmeno, sto già temendo per la salute del mio divano.»
«Sono abbastanza capace di prendermi cura di me stessa e non rovinare le cose, sai.»
«Oh sì, mi ricordo ancora quanto hai pianto per quella sciarpa che hai rovinato.»
«Non era una sciarpa, era un foulard di Hermes
«Come vuoi tu.»
Minto prese un altro sorso: «Mi stupisce che questa casa abbia una parvenza di umanità e ordine.»
«Sai, a viverci da soli si fa la metà del casino.»
«Mmmhm,» lei fece un impercettibile movimento del sopracciglio, poi lo guardò corrucciata, «Io non ho mai fatto casino!»
«No, no,» ridacchiò divertito lui.
«Idiota.»
Ripiombò il silenzio, il caffè che andava spaventosamente diminuendo, fornendo sempre meno riparo a Minto. Udì il ragazzo sbuffare, e da sopra l’orlo della tazza lo vide passarsi una mano tra i capelli, scompigliandoli di più di quanto non avesse già fatto il cuscino. Sapeva che momento stava per arrivare.
«Senti, belle le chiacchiere eh, ma ora mi potresti spiegare cosa diamine ci fai qua a quest’ora?»
«… come sei volgare.»
«Minto.»
Lei prese un respiro e si strinse nelle spalle: «Niente. Ti ho pensato. Anche la nonna mi ha chiesto di te.»
«Strano posto per pensarmi, dopo tutto sto tempo.»
«Be’, no… non proprio.»
Si scambiarono un’occhiata, il cuore di Minto che prima batté violento contro il petto e poi si afflosciò leggermente, più in basso verso lo stomaco. Appoggiò la tazza sul tavolo di legno accanto al divano, si schiarì la gola.
«Ti ricordi di quando… quando sono andata con Tomoyo a provare i vestiti da sposa e ti ho detto che -»
Vide il suo viso contrarsi in una smorfia dispiaciuta mentre fissava il pavimento e si scostava i capelli dalla fronte: «Non ho molta voglia di fare un viaggetto tra i ricordi, Minto.»
Lei si accovacciò ancora di più su se stessa, come un uccellino nel nido, e sbottò: «Sì beh, nemmeno io, però è successo tutta la cazzo di sera, quindi eccoci qua.»
«Eccoci qua un corno! Arrivi all’improvviso nel mezzo della notte senza spiegare, poi continui a non spiegarti, ho smesso di stare dietro ai tuoi cambiamenti di umore, sai!»
«Cosa dovrei spiegarti, eh? Vorresti che ti dicessi uuuh Kisshuuu ti prego torniamo insiemeee, inginocchiando in lacrime di fronte a te?»
«Abbassa la voce,» ringhiò a denti stretti lui, lanciando un’occhiata su per le scale, «E no, non ho detto quello, ma dovresti anche capire il mio punto di vista.»
«Cinque anni a cercare di capire il tuo punto di vista, ma zero.»
«Bene, abbiamo capito il problema.»
Lei si tolse di getto la coperta di dosso, alzandosi in piedi: «Meglio che me ne vada.»
Kisshu, ancora dal pavimento, la guardò scettico, tendendo le mani verso di lei nel vederla traballare: «Dove vuoi andare, non vedi che non ti reggi in piedi?»
«Chiamerò un taxi. Non ho bisogno della tua pietà.»
Lui si alzò, irritato: «Minto. Siediti.»
La mora rimase ferma dov’era, le braccia incrociate al petto e un’espressione contrita in volto, ma almeno non si mosse. Kisshu sospirò di nuovo, scuotendo la testa.
«Come siamo sopravvissuti, cinque anni, non lo so.»
Lei si morse un labbro: «Non sarei dovuta venire.»
Evitò lo sguardo che sentiva perforarle il viso: «Non fa niente, ormai sei qui e non te ne vai in queste condizioni.»
«Non ho bisogno che ti preoccupi per me.»
«Evidentemente sì.»
Le passò accanto, recuperò la coperta e gliel’avvolse sulle spalle con lentezza. Minto rabbrividì a quel contatto, al sentire di nuovo il suo profumo così vicino a lei, e cedette. Fece un passo avanti e appoggiò la fronte al petto di lui, le mani che sgusciarono dal plaid per attaccarsi alla sua maglietta. Lo sentì irrigidirsi e poi esalare, mentre le sue braccia la stringevano piano.
Minto sentì il groppo che aveva avuto in gola per tutti quei mesi risalire piano piano e scoppiare, la mascella che le doleva e un sospiro tremolante che le scappò dalle labbra mentre chiudeva gli occhi.
«Sssh,» Kisshu le diede un bacio sulla sommità della testa, iniziando a cullarla sul posto lentamente e accarezzandole la schiena, «Non piangere, passerotto, va tutto bene.»
«Mi manchi,» si lasciò scappare in un sussurro lei, prima che potesse anche solo registrare cosa stesse dicendo.
Lo avvertì annuire mentre l’abbracciava ancora un po’ di più, continuando a dondolare piano in silenzio.
Quando Minto si fu calmata, Kisshu allentò un poco la presa per controllare che fosse ancora sveglia, e rise nel vederla combattere per tenere le palpebre aperte.
«Ho fatto il bravo fratellino e ho lasciato a Pai la camera da letto,» sussurrò, «Mi ero addormentato nel divano dello studio, ma puoi andarci tu, così domattina ci sarà meno casino. Io rimango qua.»
La mora annuì sbadigliando, lo guardò da sotto le ciglia scure: «Posso prendere una tua tuta dal cesto dei panni puliti?»
Kisshu rise: «È ancora tutto appeso, sai dove trovarlo.»
Minto fece un altro cenno con la testa, si tolse la coperta di dosso e la piegò accuratamente, poi si avviò per le scale, una mano attaccata alla ringhiera e l’altra contro al muro per la massima stabilità.
Kisshu rimase fermo a fissarla finché non si fu accertato che fosse arrivata nella stanza sana e salva; poi si gettò sul divano, si schiaffò le mani in faccia, e cercò di riaddormentarsi.
 
**
 
Cercò a tentoni nel buio il cellulare, che sentiva vibrare sommessamente in tono lamentoso. La testa le pulsava così tanto che era difficile concentrarsi, ma finalmente riuscì ad agguantare la pochette, litigare con la chiusura e tirare fuori il telefono.
Solo la luce dello schermo le diede fastidio – erano già le dieci e mezza, com’era possibile? -  e gemette scontenta nel vedere che le erano semplicemente arrivati una sequela di messaggi nel gruppo con le sue amiche, intente a fare gossip sulla serata passata.
Cosa che lei non aveva la minima idea di fare.
Si voltò sulla schiena con un altro mugolio di vergogna mentre ripercorreva i tasselli interrotti del suo weekend. Si sarebbe voluta seppellire. Ed era ancora ubriaca, ne era certa.
Si tirò giù dal letto a fatica, desiderosa soltanto di annegare nel caffè e di addentare qualcosa di solido, visto che la cena immensa della sera prima sembrava averle fatto ingigantire lo stomaco. Si mosse lentamente nel buio, non volendo accendere nessuna luce, e si rinfilò malamente il vestito da cerimonia, tenendo necessariamente le scarpe in mano. In bagno non ebbe nemmeno il coraggio di guardarsi allo specchio mentre si sciacquava la faccia e la bocca, cercando di riappacificare il più possibile i suoi capelli.
Sbuffando esausta – e chiedendosi perché le importasse così tanto del suo aspetto quando sarebbe svanita nel primo taxi disponibile e si sarebbe eclissata nella sua vasca da bagno per le successive due ore – scese le scale quasi di corsa, per poi fermarsi a tre gradini dalla fine.
Doveva decisamente essere ancora ubriaca, visto che si era totalmente dimenticata che anche Pai fosse stato ospite quella sera; lo stesso Pai che ora le stava fortunatamente dando le spalle mentre seguiva il fratello verso la soglia della cucina.
«Quand’è che te ne vai?» stava dicendo infatti il minore «Mi sembra di avere mamma sul collo con tutte le tue domande!»
«Se tu rispondessi, forse sarebbe diverso.»
«Potrò farmi i fatti miei in casa mia?»
«Ammetti che sei strano.»
Minto cercò di voltarsi il più silenziosamente possibile, pensando di nascondersi di nuovo nello studio finché non le avrebbero notificato il via libera; ovviamente, la fortuna non era dalla sua parte, perché tra il tessuto lungo e setoso del vestito, la pochette, i tacchi, il telefono, e la sbronza, le sue mani non erano in grado di tenere tutto e al tempo stesso cercare l’equilibrio contro al muro, e la borsetta le sfuggì dalla presa, cadendo per i gradini restanti e rivelando il suo contenuto.
Nonché attirando l’attenzione dei due presenti, che si voltarono di scatto verso di lei mentre lei si irrigidì, una smorfia in volto.
Kisshu alzò gli occhi al cielo, quasi schiaffeggiandosi una mano in faccia, mentre Pai prima osservò la ragazza, poi il fratello, poi di nuovo la ragazza, poi ancora il fratello.
«Be’, almeno tu dormivi sul divano.»
Minto lo trucidò con lo sguardo, e il ragazzo sospirò, scuotendo la testa: «Vado a farmi un giro, cercate di non lasciare un campo di battaglia truculento per quando torno.»
La mora rimase sui suoi gradini finché la porta d’ingresso non fu chiusa, Kisshu che ritornò in cucina.
«Gli sono scoppiate le tubature di casa,» lo sentì spiegare, «Ha bisogno di un posto comodo per andare a lavorare la mattina, mentre Retasu è tornata a casa dai suoi.»
«Lo so,» commentò piatta lei, scendendo infine e raggiungendo la soglia dopo aver raccattato le sue cose.
Kisshu annuì e si concentrò su una padella in cui stava cuocendo delle uova strapazzate: «Su, siediti. C’è un po’ di autentico cibo da sbronza made in Kisshu. Il caffè è già nella tazza, stavo venendo a vedere se eri sopravvissuta.»
Lei sibilò un imbecille ma si accomodò lo stesso, strofinandosi le braccia più per il disagio che per il freddo, tuffandosi nel caffè come se fosse stato un salvavita. Il ragazzo riempì il piatto davanti a lei con le uova e dei pancakes, del toast e delle marmellate, e del succo di arancia. Minto, a quello spettacolo, alzò un sopracciglio.
«È la prima volta che imbandisci così la tavola,» commentò.
«È la prima volta che sei tu a correre dietro a me e non viceversa.»
Minto quasi si strozzò col pezzetto di pane che stava masticando: «… non ti sto correndo dietro,» borbottò tra un sorso di succo e l’altro.
«Ah no?» Kisshu si sedette di fronte a lei, incrociò le braccia sul tavolo, «E il teatrino di ieri sera allora cos’è stato?»
La ragazza continuò a masticare in silenzio, gli occhi piantati sul proprio piatto: «Non lo so,» ammise infine.
Lui rise sprezzante, batté le nocche sul tavolo: «Tu pensi che per me sia facile?»
«Cosa?»
«Tutto. Questo. Tu,» elencò lui, «Averti qui ora.»
«Posso sempre andarmene.»
«Non senza una spiegazione.»
Minto appoggiò lentamente la forchetta accanto al piatto, intimando di calmarsi mentre piano piano la nebbia nella sua mente si diradava.
«Senti, non ce l’ho una spiegazione, okay? Te l’ho detto, ero al matrimonio e mi sono resa conto che… che sentivo la tua mancanza.»
«Perché ora? Perché non tre mesi fa, o sei?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
«Ho fatto il cavalier servente abbastanza volte, principessina.»
Lei si rifugiò nel caffè: «Non te l’ho mai chiesto…»
«Una volta sapevi farla la ballista.»
Minto assaporò il bruciore sulla lingua, il calore del caffè che le rinvigoriva le membra stanche e le assopiva lo stomaco irrigidito. Ora che poteva vedere le cose con più chiarezza, alla luce del sole, si chiese che cosa avesse sperato di ottenere con quella visita improvvisa. O aveva mai davvero sperato di ottenere qualcosa? Forse, la soluzione migliore era pensare che fosse stato tutto solamente un momento di debolezza fini a se stessi, quelli che lei non voleva mai, quelli che doveva evitare con tutto il cuore.
Appoggiò la tazza sulla tovaglietta di cotone così da non lasciare aloni sul tavolo e si alzò in piedi: «Ho finito di disturbarti. Scusa per ieri sera, l’ultima cortesia che ti chiederei è di chiamarmi un taxi.»
Kisshu rise sprezzante e batté una mano sul tavolo: «D’accordo, vattene allora, credo che tu sia abbastanza grande e vaccinata per cercare da sola la carrozza.»
Lei alzò il mento impettita, cercando di nascondere quel freddo che si era reimpossessato del suo petto, e fece per uscire dalla cucina.
«Sei incredibile, sai?» le esclamò lui dietro, arrabbiato, «Pensi sempre che basta la tua presenza perché tutti si inginocchino al tuo cospetto, senza che tu debba dire o fare nulla! Sei arrivata qua e ora te ne vai come se niente fosse, come se non valessi un cazzo, e non hai nemmeno il coraggio di parlarmi. E sai qual è la cosa che mi fa più incazzare? Che io te lo permetto anche! Mi prendo cura di te, ti preparo la colazione solo per avere come ringraziamento la tua solita faccia di marmo che io meno di tutti mi merito! Avrei dovuto rimandarti indietro col tuo fottuto taxi ieri notte, e invece no, perché pensavo che – ah, fanculo.»
Minto rimase ferma sulla soglia, dandogli le spalle, stringendo le labbra.
«Solo tu puoi permetterti di agire d’istinto?» mormorò poi infine, odiando il tremolio nella sua voce.
«Cazzo, Minto, almeno il mio istinto è facile da spiegare.»
Lei si asciugò una lacrima solitaria che era sfuggita al suo controllo, girò solo il viso verso di lui: «Anche se fossi venuta qui con… uno scopo,» sussurrò, «Credo che sia chiaro che non avrebbe comunque funzionato.»
Kisshu si alzò dalla sedia e incrociò le braccia al petto: «No, passerotto, funziona quando si mettono le cose in chiaro.»
La mora annuì ancora, raccattò le sue ultime cose e si avviò in silenzio verso la porta. Ne aveva aperto uno spiraglio, la luce del Sole abbagliante contro di lei, quando la voce di Kisshu la raggiunse di nuovo.
«Mi dispiace, Minto,» lei non si voltò, ma sapeva che si stava passando le dita tra i capelli, scuotendo la testa e fissando per terra, come tutte le volte che avevano discusso, «Ma ho smesso di essere l’unico che scende a compromessi.»
Minto strinse le dita attorno al pomello, immaginando la stessa espressione in volto di sei mesi prima, l’ultima volta che si erano visti, quando le parole non erano state tanto diverse e il pugno nello stomaco lo stesso di quel momento. E sapeva, lo sapeva, anche se non riusciva mai ad ammetterlo a se stessa, che lui avesse ragione.
«Scusa se ti ho disturbato,» mormorò, sovrastando il groppo che le chiudeva la gola, il terrore nel petto al ricordo di quegli ultimi sei mesi e a ciò che avrebbe avuto davanti, e l’incredibile voglia di tornare indietro, tra le sue braccia, «Mi ha fatto piacere rivederti. Ciao.»
Non aspettò risposta, girò il pomello e corse fuori, il rumore della porta che sbatté forte quanto il battito del cuore che le affondò nel petto.











§§
La cosa piu triste di questa FF forse è che in realtà finiva bene, poi ho cambiato il finale per farlo stare nella serie :3
Ciao fanciullee :D Sto combattendo contro un internet lentissimo per riuscire a pubblicare anche il terzo mondo che le nostre coppiette dubbiose stanno scoprendo! Più vado avanti più diventa crudele, lo so, ma in fondo è divertente :3 Provate a mettervi nei panni di Ria che aveva pure letto la versione originale felice, e ora mi sta odiando ahahah
Se volete sapere come sarebbe dovuta finire in realtà, fatemelo sapere così magari la metto in pagina FB :=) Il prossimo mondo tocca a Ichigo, ma ahimè la devo ancora scrivere ^^'''''' Ne ho un'altra pronta ma per questioni di par condicio sto cercando di alternare :)
Spero che anche questa vi sia piaciuta, fatemi sapere, ovviamente ringrazio tantissimo tutti coloro ceh stanno seguendo la serie :D
Un bacione grande!
   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Tokyo Mew Mew / Vai alla pagina dell'autore: Hypnotic Poison