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Autore: _Agrifoglio_    26/10/2017    4 recensioni
Era un giorno sereno, senza pioggia, quel 16 ottobre 1793. Una giornata come tante altre, se non fosse stato per un dettaglio: quel giorno, ella sarebbe andata a morire. Così aveva deciso il tribunale rivoluzionario, all’esito di un processo lampo, un’indegna farsa al termine della quale era stato ratificato ciò che, già da tempo, era stato deciso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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Regina
 
– Madame, è ora.
Disse con tono secco ed inespressivo il carceriere, dopo avere parlato con alcuni soldati il cui sopraggiungere era stato annunciato dal cigolare stridulo delle porte e dal calpestio degli stivali sul pavimento.
Era un giorno sereno, senza pioggia, quel 16 ottobre 1793. Una giornata come tante altre, se non fosse stato per un dettaglio: quel giorno, ella sarebbe andata a morire. Così aveva deciso il tribunale rivoluzionario, all’esito di un processo lampo, un’indegna farsa al termine della quale era stato ratificato ciò che, già da tempo, era stato deciso.
Contro ogni evidenza e probabilità, il carattere energico di cui era dotata le aveva fatto mantenere viva, fino all’ultimo, una scintilla di speranza, poiché difficilmente le Regine consorti erano uccise. Poteva capitare che fossero imprigionate, chiuse in qualche convento o bandite, ma quasi mai erano uccise.
La notte successiva alla fine del processo, su insistenza di Rosalie Lamorlière, la sua ultima cameriera, aveva consumato un frugale pasto, terminato il quale aveva scritto una commovente ed accorata lettera indirizzata alla cognata, per dirle addio ed affidarle i suoi figli. Quella missiva mai sarebbe arrivata a destinazione.
La mattina, si era preparata ad affrontare la sua prova estrema. Nascosto, in una fessura della parete, un panno inzuppato del sangue delle emorragie che la stavano sfiancando, si vestì, un’ultima volta, con l’aiuto di Rosalie, usando tutte le accortezze possibili per preservare il pudore, giacché il carceriere si era rifiutato di uscire dalla cella o, semplicemente, di voltarsi di spalle.
Anna Bolena e, qualche decennio dopo, Maria Stuarda avevano indossato, nel giorno della loro esecuzione, un sotto abito rosso cremisi, il colore del sangue dei martiri cristiani, ma lei non aveva un guardaroba così fornito e, anzi, non aveva proprio un guardaroba. Il nero le era stato espressamente interdetto ed ella aveva optato per il bianco che, come quasi nessuno ricordava, era l’antico colore del lutto delle Regine di Francia.
Sul capo, indossava una cuffia di lino bianco, ornata da un nastro nero che, insieme al vestito, aveva portato con sé dalla Torre del Tempio e che aveva conservato linda e candida per il caso in cui si fosse verificato l’esito infausto.
Tutti gli altri abiti che le erano rimasti, invece, cadevano a pezzi e, a tal proposito, aveva avuto un contrasto di vedute col suo avvocato difensore che le aveva suggerito di comparire in aula col vestito lacero, per commuovere la giuria ed il pubblico con l’immagine della maestà ridotta in stracci. Ella aveva respinto sdegnosamente la proposta ed aveva passato la notte precedente il processo a rammendarsi l’abito.
– Bene – disse al carceriere – Cosa devo fare?
– Seguitemi.
Attraverso una serie di scale e di corridoi, fu portata nella sala dei morti, dove i condannati aspettavano di essere prelevati per intraprendere il loro ultimo viaggio.
– I miei resti riceveranno degna sepoltura? – si domandò l’ex Sovrana.
Giunse la figlia dei nuovi portinai della prigione – giacché i precedenti erano finiti, a loro volta, in carcere, dopo la fallita congiura del garofano, ideata dal Cavaliere de Rougeville – recando con sé un cesto e delle cesoie, per il taglio dei capelli.
– Sono gente ben strana questi rivoluzionari – pensava l’ex Regina – Prima, bandiscono la religione dal Regno, poi, si mettono a tagliare capelli come frati e suore.
La condannata avrebbe voluto provvedere personalmente a quell’incombenza, ma l’uso diretto delle forbici – che avrebbero potuto trasformarsi in un’arma – non le fu concesso.
Il compito fu, quindi, assunto, dalla giovane che, con movimenti inesperti ed approssimativi, iniziò a recidere le vestigia di ciò che era stata una folta chioma biondo rame e che, adesso, era un insieme di fili grigi, inariditi e ruvidi, i capelli di una vecchia. Sarebbero stati bruciati di lì a poco, onde evitare di farli diventare una reliquia in mano ai realisti.
Maria Antonietta osservò le forbici arrugginite – che avevano conosciuto giorni migliori – mentre la privavano dell’ultimo, scolorito residuo della sua passata avvenenza.
– Auguriamoci che non mi ferisca – pensò, con mesta ed amara ironia, la condannata – Sarebbe una vera disdetta contrarre il tetano.
Terminata la triste operazione, l’ex Regina rimase in attesa, seduta su una panca, appoggiando il volto sulle mani ed i gomiti sulle gambe.
Si trovò, suo malgrado, a pensare che la tortura, inflitta nei tempi passati e bandita, in epoca moderna, per la sua disumanità, aveva la caratteristica di far concentrare il condannato sulle ferite e sul dolore fisico. La morte istantanea, scientifica, offerta dalla ghigliottina spostava, invece, l’attenzione sul tormento morale. Ciò che aveva di disumano e di tragico l’omicidio di Stato era la sua certezza, la sua ineluttabilità. Il povero disgraziato che fosse stato sorpreso per strada, di notte, da un malfattore e fosse stato da questi accoltellato o, finanche, sgozzato avrebbe potuto sempre, fino all’ultimo, sperare di sopravvivere e questa speranza avrebbe reso la sua morte infinitamente più lieve. Similmente, il soldato mandato a combattere in trincea, si fosse trovato pure davanti a dieci cannoni, avrebbe conservato, fino alla fine, un barlume di speranza. Il prigioniero a cui era stata letta la sentenza di condanna, invece, aveva la totale certezza di dover morire e che nulla, salvo un’improbabile grazia concessa nell’ultimo istante, lo avrebbe salvato. Questa assoluta sicurezza di non poter sfuggire al proprio destino uccideva la speranza, contribuiva a rendere la morte insopportabile e conduceva, quasi, alla pazzia.
Intorno alle dieci, i membri del tribunale rivoluzionario che l’aveva condannata, il boia Henri Sanson ed il di lui figlio vennero a prelevarla dalla cella.
Si alzò rapidamente e, rivolta ai nuovi arrivati, con voce ferma, disse:
– Signori, sono pronta, possiamo andare.
– Dobbiamo prima leggervi la sentenza.
– La conosco già, non occorre che me la leggiate.
– Non importa cosa volete. Dobbiamo leggerla, perché così dispone la legge.
Terminata la lettura, il boia controllò se i capelli fossero stati tagliati sulla nuca come da regolamento e, subito dopo, provvide a legarle le mani dietro la schiena neanche fosse stata una pericolosa delinquente a rischio di fuga.
– Mai più le mie mani saranno libere di muoversi.
Sul patibolo, non solo non le avrebbero sciolto le mani, ma sarebbe stata legata, per tutta la lunghezza del corpo, ad una tavola e non le sarebbe stato possibile, nell’istante fatale, aprire le braccia a mo’ di croce, come avevano fatto, prima di lei, i sovrani ed i nobili condannati al suo stesso destino. Neanche il sollievo di un rosario fra le dita le sarebbe stato concesso.
I conforti religiosi le erano stati sostanzialmente negati, perché le avevano inviato due preti “giuratari” e lei li aveva mandati via uno dopo l’altro, considerandoli degli apostati. Il terzo, l’Abate Lothringer, non se ne era voluto andare ed ella ne aveva tollerato la presenza come un fastidio inevitabile.
– Signori – disse l’ex Regina – Vorrei che il mio corpo fosse sepolto vicino a quello del Re.
Il mesto corteo uscì dalla sala dei morti, scortando la condannata all’esterno della prigione.
Zoppicava, perché le faceva male una gamba, ma non si lamentava. Mormorava delle preghiere ed intonava, sotto voce, una canzone della sua infanzia, per farsi coraggio.
Fu condotta all’aperto, nel cortile della prigione, la famigerata Corte di Maggio, da cui passavano tutti i condannati. Chiuse immediatamente gli occhi, cercando istintivamente di proteggerli con le mani che, essendo legate, non poterono dare seguito all’impulso. Era tenue, invero, il sole ottobrino, ma pur sempre accecante per chi, come lei, era vissuto, negli ultimi settanta giorni, in una cella malamente illuminata.
L’esposizione all’aria aperta, dopo oltre due mesi di totale reclusione – giacché l’accesso al cortile interno, consentito agli altri prigionieri, le era stato negato ed il tribunale rivoluzionario aveva sede dentro la stessa Conciergerie – le provocò smarrimento, confusione ed un momentaneo capogiro.
– Non avrò mai più un tetto sulla testa.
Si riempì i polmoni di aria buona – una delle ultime volte che avrebbe potuto farlo – si fece coraggio e procedette.
Guardò davanti a sé e vide una carretta sgangherata, mezza sbilenca e scheggiata in più punti, alla quale era stato legato un solo cavallo che persino uno straccivendolo sarebbe stato restio ad utilizzare. Ebbe un tuffo al cuore: a suo marito, almeno, avevano concesso una carrozza chiusa e degli indumenti di foggia semplice, ma decorosa ed era stato condotto al supplizio senza vincoli e costrizioni di sorta. Lei, invece, si sarebbe mostrata alla folla sulla carretta dei criminali comuni, vestita pressoché da contadina e con le mani legate dietro la schiena. Fu soltanto un attimo e si riscosse. Non voleva sembrare debole né dare soddisfazione a chi la odiava così tanto da infierire su una moribonda contro ogni regola di umanità.
– Maestà, ecco la vostra carrozza ed i vostri cavalli arabi!
La schernì un mozzo di stalla, colui che aveva il compito di guidare il trabiccolo e di condurla al supplizio.
Fu fatta salire sul suo ultimo mezzo di locomozione con le spalle rivolte al conducente, proprio come una criminale. Davanti, sedevano il boia Henri Sanson ed il di lui figlio mentre l’Abate Lothringer si era sistemato un poco dietro di lei e le parlava di continuo, ma ella lo udiva a malapena. La carretta, con uno scatto, vinse l’inerzia e si mise lentamente in movimento.
– Cosa avranno provato, nel momento estremo della vita, Corradino di Svevia, Parisina Malatesta, Anna Bolena, Catherine Howard, Jane Grey, Maria Stuarda, Carlo I d’Inghilterra e, pochi mesi or sono, mio marito? Le mie stesse sensazioni o qualcosa di diverso? Su Luigi, posso esprimermi con una ragionevole sicurezza. Il suo animo mite e gentile, la sua fede radicata ed incrollabile lo avranno messo al riparo dalle emozioni più pungenti e dal dolore più acuto.
All’avvicinarsi della carretta, i cancelli della prigione furono spalancati ed un vocio sempre più intenso le stordì le orecchie. Varcata la soglia esterna della Conciergerie, la carretta iniziò a farsi strada in mezzo a due ali di folla scomposta e rumorosa. Erano inferociti ed i soldati facevano fatica a contenerli. Le fu, allora, chiaro che nessuna cattiveria e nessuna umiliazione le sarebbero state risparmiate.
– La fiera che si avventa sulla sua preda mira dritta alla gola, la soffoca e la uccide. Sazia la propria fame e non infierisce oltre. Dire che si è perduto il senso dell’umanità fa torto alle bestie – pensava, sconsolata, l’ex Regina.
Il senso di prostrazione era forte, ma mai l’avrebbe dato a vedere. La figlia di Maria Teresa era stata educata, sin dalla più tenera età, a mascherare ogni debolezza.
La folla era assiepata sui ponti e sulle strade e rumoreggiava con strepiti crescenti. Le donne erano le più scalmanate.
– Centinaia, migliaia di persone si trovano intorno a me e soltanto io vado a morire.
Alcuni facinorosi ruppero in più punti il cordone delle guardie e si strinsero intorno alla carretta, impedendole di proseguire e facendo innervosire il cavallo. La situazione era ingestibile anche perché alcuni soldati, anziché ristabilire l’ordine come sarebbe stato loro dovere, si erano uniti agli insulti ed agli schiamazzi della folla. Il boia Sanson ed il di lui figlio dovettero, più volte, fare da scudo alla condannata e l’Abate Lothringer si trovò, addirittura, a bloccare un pugno a lei diretto. Dopo circa dieci minuti, la situazione si normalizzò e la carretta poté riprendere il suo tragitto.
Gli insulti erano incessanti, ma erano urlati, soprattutto, da lontano, perché, nelle immediate vicinanze, il contegno austero e gli sguardi lampeggianti della prigioniera dissuadevano i più dal proferir parola.
Le invettive urlate in lontananza giungevano, tuttavia, alle orecchie di lei e contribuivano a turbarne l’animo, i cui moti contrastavano in modo stridente coll’immobilità marmorea del sembiante.
– Puttana! Schifosa! Sgualdrina degenerata! Bestia in calore!
– Signore, esaudite l’ultima vanità di una moribonda! Date fermezza ai miei ultimi istanti di vita! Fate che io non vacilli di fronte alla morte! Che il mio sguardo non si abbassi e non implori! Non siano rigate di lacrime le mie gote! Che il tremore non scuota le mie membra e la dignità mai mi abbandoni! Fate, o mio Signore, che io non copra di vergogna la mia famiglia e che non deluda, un’altra volta, mia madre! Datemi dignità e coraggio, che soltanto quelli mi restano!
– Meretrice di Babilonia! Gezabele! Messalina! Fredegonda!
– Ecco quello acculturato della comitiva….
Il corteo proseguì il suo macabro viaggio e svoltò sul Pont au Change che collegava l’Île de la Cité, all’altezza della Conciergerie, alla riva destra della Senna.
– Mi avanza ancora del tempo, bisogna percorrere tutto il ponte e, poi, svoltare su una traversa e percorrere Rue Saint Honoré che è lunghissima ed arrivare in Place Louis XV….
La carretta era scomoda e malferma, tanto che la condannata sobbalzava ad ogni scossa senza, però, mai perdere il portamento impettito ed il contegno fiero.
La folla era assiepata anche sui due bordi del ponte e continuava a schiamazzare ed a lanciare insulti. Pure gli sguardi ed i gesti erano eloquenti e la condannata li notava senza darlo a vedere. C’erano, poi, gli sputi che, data la distanza, non giungevano a segno, ma che facevano ugualmente male come se l’avessero presa in pieno volto e fossero stati composti da vetriolo anziché da saliva.
Con grande probabilità, la Comune aveva disseminato dei sanculotti nei punti dove sarebbe passato il corteo, allo scopo di fomentare gli animi e di impedire che l’ultimo viaggio dell’austriaca si trasformasse da forca caudina in Via Crucis.
– Sei stata la rovina della Francia! Vergogna! Vergogna! Vergogna!
– Marito mio, Voi eravate amato e rispettato, la Vostra autorità non era in discussione. Con un’altra sposa al Vostro fianco, più saggia ed avveduta di me, oggi, sareste ancora vivo e conservereste il Vostro trono!
La carretta, fra un sobbalzo ed un cigolio, arrivò alla fine del ponte e raggiunse la terra ferma, immettendosi in una via perpendicolare alla Senna che sarebbe sbucata in Rue Saint Honoré.
Il tempo, adesso, aveva la mutevolezza di un’ordinaria giornata autunnale, così che, a tratti, brillava il sole mentre, qualche minuto dopo, una nuvola lo copriva e sembrava quasi che stesse per piovere.
– Brucia all’inferno, dannata! Da oggi, farai al demonio quello che, prima, facevi al Conte di Fersen!
– Ho donato il mio cuore ad un uomo che non era mio marito, Signore, ho dato spettacolo davanti agli angeli ed agli uomini. Quello che è male ai Vostri occhi io l’ho fatto. Ascoltate l’urlo di dolore di una peccatrice ed accoglietemi ugualmente nel Vostro Regno!
Misereatur tui omnipotens Deus et dimissis peccatis tuis, perducat te ad vitam aeternam. Indulgentiam, absolutionem et remissionem peccatoum tuorum tribuat tibi omnipotens et misericors Dominus – pregavano alcuni Sacerdoti, affacciati alle finestre di case amiche, al passaggio del lugubre corteo.
I pensieri della prigioniera scorrevano come un fiume in piena mentre la vita le fluiva davanti agli occhi con tutti i personaggi che l’avevano popolata. Chi sa se Madame du Barry sarebbe stata contenta della prossima morte della sua antica rivale e delle circostanze nelle quali essa stava avvenendo. Dire che non erano mai state amiche sarebbe stato un eufemismo. Era stata sempre inflessibile nel giudicare la Contessa che, dal canto suo, aveva fatto di tutto per rendersi detestabile. Qualcuno, poi, aveva approfittato di lei, della giovanile imprudenza, del caratteriale manicheismo e dei nodi dolorosi ed irrisolti di un’infanzia vissuta all’ombra di un padre infedele e di una madre amareggiata, così da armare il braccio di uno sprovveduto soldato e da mandarlo a combattere in una guerra in cui coloro che l’avevano dichiarata non avevano voluto figurare in prima persona. Ne era deflagrato un conflitto lacerante, gonfiato ai limiti della ragionevolezza e grottesco per contenuto, ma potenzialmente esiziale a causa degli animi che era stato in grado di agitare ed ella si era dovuta spezzare per non essersi voluta piegare. Sarebbe stato sufficiente usare un po’ di carità e di buon senso per mitigare un’inflessibilità che, in futuro, avrebbe ampiamente smussato nel fare sconti a se stessa. Nel frattempo, giorno dopo giorno, gli echi di quelle stravaganze erano giunti alle orecchie di un popolo sempre più affamato e sempre meno propenso ad abbozzare.
La carretta continuava a sobbalzare ed a farsi largo fra ali di folla esagitata mentre la brezza autunnale scompigliava, sulle tempie, i capelli della condannata.
– Traditrice! Inaffidabile! Capricciosa! Viziata! Testa vuota! Persone e cose erano un tutt’uno per i tuoi piaceri! Adesso, divertiti e balla sulla ghigliottina!
– Principessa di Lamballe, dolcissima amica mia, pur avendo avuto la possibilità di fuggire, tornaste da me per servirmi fedelmente e ciò Vi fece affrontare una morte atroce! A caro prezzo pagaste la Vostra lealtà ad una Sovrana che Vi soppiantò nelle sue preferenze, reputandoVi per nulla vivace e troppo poco divertente! Ero soltanto una bambina viziata che cambiava le persone come i vestiti mentre Voi eravate un Angelo!
Il mesto corteo si immise in Rue Saint Honoré, un lungo e largo viale, percorrendo il quale, la carretta sarebbe, infine, arrivata a Place de la Révolution, dove era issata, in permanenza, la ghigliottina.
Arrivati al Borgo Saint Honoré, all’altezza della Chiesa dell’Assunzione e di Palazzo Egalité, Maria Antonietta divenne inquieta e cominciò a scrutare i numeri delle case. Trovato quello che cercava, volse lo sguardo al terzo piano del palazzo, ove, come convenuto segretamente, era affacciato l’Abate Magnier, un Prete non giuratario, rimasto fedele alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, il quale, fattosi riconoscere con un cenno concordato, le impartì la benedizione e l’assoluzione in extremis. L’ex Regina chinò il capo, si mise a pregare ed un’espressione di pace le rasserenò il volto.
Gli insulti continuavano a diffondersi di via in via, di bocca in bocca, propagati da una folla becera che aveva smarrito la ragione ed il senso della misura.
– Madre snaturata, lurida incestuosa! Una cagna è madre migliore di te! Cos’hai fatto ai tuoi figli? Dove li toccavi? Quale piacere provavi! Puttana!
– Vergine Santissima, Voi che siete madre, sapete quanto ho amato i miei figli e quanto continui ad amarli! Sapete come la mia condotta verso di loro sia sempre stata innocente ed ineccepibile! Proteggete Maria Teresa e Luigi Carlo dalle angherie degli uomini e dalle brutture di questo mondo! Decuplicate le pene riservate e me, ma proteggete loro! Tenete nel vostro grembo Luigi Giuseppe e Sofia ed accarezzateli finché non potrò farlo io stessa!
Ad un angolo di Rue Saint Honoré, ove era ubicato il Caffè della Reggenza, affacciato ad una delle finestre, si trovava il pittore Jacques Louis David il cui curriculum politico vantava, fra le altre cose, la presidenza del club giacobino, l’appartenenza al Comitato di sicurezza generale e l’avere presenziato, in veste di testimone, all’interrogatorio del piccolo Luigi XVII e di Madame Royale, svoltosi nella fase istruttoria del processo intentato contro la loro madre. Fu un accanito dispregiatore degli aristocratici ed un acceso sostenitore degli ideali rivoluzionari fino a quando non si trovò a rinnegarli per diventare un compiaciuto bonapartista ed un felice barone. Il talento artistico non lo metteva al riparo dalla meschinità d’animo e dalla viltà che lo spingevano a cambiare casacca e partito a seconda della convenienza o della burrasca. Da lì a pochi mesi, si sarebbe rintanato in casa per non condividere la débacle di Robespierre e di Saint Just, ai quali, nei giorni felici, aveva promesso fedeltà imperitura e sarebbe stato salutato da un moribondo, ma ancora sarcastico Danton – che, sulla via del patibolo, lo aveva riconosciuto in mezzo alla folla – con lo sprezzante grido: “Anima di servo!”.
Adulatore dei vincitori e spietato con gli sconfitti, intinta la penna nell’astio, immortalò Maria Antonietta in uno schizzo brutale e decisamente poco lusinghiero che passò alla storia più del celebre ritratto equestre di Napoleone: un trionfo di bruttezza e di vecchiaia, in cui la fierezza dell’ex Regina si perdeva in una smorfia di superbia e di dispetto, racchiusa in un volto i cui lineamenti appesantiti e grossolani ricordavano le sembianze di un delinquente comune più che quelle di una Sovrana detronizzata e condotta a morire che faceva appello a tutte le sue risorse interiori per non soccombere moralmente oltre che fisicamente.
La carretta, intanto, proseguiva il suo lento ed inesorabile percorso, in mezzo alla folla che non accennava ad acquietarsi.
– Ti fottevi i tuoi figli carnali così come i figli del popolo! Non sei stata la madre della Francia, ma una tiranna, un demone succhia sangue!
– Popolo mio, aizzato da agitatori senza scrupoli, ambiziosi e senza Dio, non credere a tutto ciò che ti viene imbonito! Non sono stata una buona Regina, fuggivo dalle mie responsabilità e mi ubriacavo di lusso, è tutto vero, ma lo facevo per immaturità e per insoddisfazione, mai per cattiveria! Ero così giovane e così ignorante! Nonostante tutto, non fui io a svuotare le casse dello Stato – e come avrei potuto? – ma decenni di guerre sanguinose, combattute anche contro la mia patria d’origine!
Il triste convoglio era sul punto di arrivare a destinazione e l’ex Sovrana si accingeva ad affrontare la parte finale del tragitto e della sua stessa vita.
Ripensava a quando era una giovane Arciduchessa austriaca, piena di speranze e di ingenuità, in procinto di partire per la sua nuova patria di cui aveva tanto sentito parlare, ma della quale, in definitiva, non sapeva granché. In Austria, era stata amata, protetta, vezzeggiata e trattata con estrema indulgenza e ciò l’aveva indotta a pensare che la vita fosse uno scrigno ricolmo di belle promesse, tutte pronte ad avverarsi e che il mondo fosse un posto bellissimo, creato appositamente per essere conquistato da giovinette come lei.
Ripensava al suo arrivo in Francia ed all’angoscia per la separazione dal suo seguito ed a come aveva creduto che non potessero esserci dolori peggiori di quello.
Ripensava alla delusione provata nel conoscere il suo futuro marito, un ragazzo goffo e poco attraente che, nel viaggio che li aveva condotti a Versailles, non aveva avuto l’ardire di rivolgerle una sola parola, afflitto, com’era, da un’invalidante timidezza, salvo rendersi conto, troppo tardi, del tesoro che le era capitato per le mani e che lei, da sempre reputatasi tanto intelligente, era arrivata, soltanto alla fine, ad apprezzare.
Ripensava al suo arrivo a Versailles che le era apparsa un castello incantato, tanto era bella oltre ogni immaginazione e che, poi, si era rivelata un antro infestato da streghe e da spiriti maligni.
Ripensava alla sua improntitudine dei primi tempi ed alla lingua tagliente e sferzante con la quale aveva flagellato, carica di giovanile irriverenza, le vecchie cariatidi di Versailles ed a come le era sembrato che tutti quegli episodi di sfrontatezza dovessero iniziare e terminare in un attimo mentre ogni singola parola era stata soppesata, memorizzata e legata al dito delle vittime. Tutto era iniziato da lì, dalla collera degli anziani e dei grandi nobili che, sentendosi dileggiati e scavalcati da quella detestabilis puella, avevano creato e diffuso il mito dell’Autrichienne, la cagna austriaca.
Ripensava a quando aveva ancora una madre ed a come ne aveva temuto le severe lettere di biasimo che, periodicamente, arrivavano ed a come, in seguito, si era resa conto che l’unica cosa da temere era il senso di vuoto, di smarrimento, di abbandono e di solitudine che si era creato quando quella madre non fu più perché, con lei, se ne era andato via l’unico sostegno.
Ripensava a quando era una giovane Delfina che, in occasione della sua prima visita a Parigi, aveva attraversato, con grande fasto e splendore, quelle stesse vie per le quali, adesso, era trascinata in vincoli. Soltanto che, allora, era sontuosamente abbigliata ed ingioiellata e trasportata su una carrozza dorata e tutti l’amavano e l’applaudivano ed era primavera e non autunno ed era all’alba della sua vita e non al crepuscolo ed era in procinto di mostrarsi alla folla dal balcone del Palazzo Reale e non da un terrificante patibolo ed era una bellissima giornata e tutto era sicuro ed al posto giusto, perché c’era sempre chi pensava a lei.
La folla, spietata ed esaltata, interruppe repentinamente i ricordi di Maria Antonietta, riportandola, bruscamente, alla realtà.
– Non abbiamo pane e dovremmo mangiare brioches? Tu sarai mangiata dai vermi!
– Non ho mai pronunciato quella frase! Non sono crudele! Non siate crudeli voi, gridando cose impronunciabili ad una moribonda!
Le tornarono in mente, con la stessa veemenza di uno schiaffo in pieno viso, alcuni frammenti taglienti dei ricordi di quel 6 ottobre 1789, in cui la folla inferocita aveva preso d’assalto Versailles e, per poco, non li aveva linciati tutti; della volgare ed esaltata irruenza di quella Théroigne de Méricourt che aveva aizzato la folla e coperto lei di contumelie; della notte fra il 9 ed il 10 agosto 1792, quando l’esercito dei sanculotti aveva cinto d’assedio le Tuileries, riempiendo di violenza e di strepiti quella che altrimenti sarebbe stata una placida alba estiva; della loro corsa disperata attraverso i giardini, per porsi sotto la protezione dell’Assemblea Legislativa mentre le guardie ed i nobili rimasti a Palazzo venivano fatti a pezzi; dei volti terrorizzati dei suoi figli e dei suoi estremi tentativi per rassicurarli mentre non c’era alcuno che tranquillizzasse lei. Aveva impiegato ogni fibra vibrante del suo essere per trarsi in salvo mentre sarebbe stato infinitamente preferibile morire in quelle circostanze, una volta per tutte, rapidamente e senza pensarci più. Una tale morte sarebbe stata molto meno penosa ed avrebbe acquisito un tratto romanzesco ed avventuroso in luogo di quell’infamia……..
Ormai, mancavano soltanto pochi istanti al termine del percorso. Il cielo si era rasserenato, a differenza degli animi degli astanti.
– Cagna austriaca! Perché non sei rimasta in Austria? Perché sei venuta qui a far danno?
– La figlia di due Sovrani non può scegliere il proprio destino. La mia persona ha sugellato il patto fra due Nazioni.
Giunta in Place de la Révolution che, originariamente, era intitolata a Luigi XV, la carretta si fermò con un sussulto, a poca distanza dal patibolo, davanti al grande Viale delle Tuileries.
Proprio vicino al patibolo, su un basamento che, in precedenza, aveva sorretto il monumento equestre del Re Beneamato, distrutto in occasione dei moti rivoluzionari, sorgeva, adesso, con lo stridore di un sarcastico ossimoro, un’immensa statua della libertà in cartone e stucco.
– Non voglio morire, ho ancora un ruolo in questo mondo! Ho tante decisioni da prendere e molti errori da rimediare! Posso ancora fare qualcosa, non sono inutile! Voglio vedere crescere i miei figli e conoscere i miei nipoti!
La piazza era gremita di centinaia di persone di varia estrazione, ma, assiepata accanto alla ghigliottina, c’era soprattutto la plebaglia. L’atmosfera sembrava quella di una fiera o di un circo, assolutamente inadatta ad un evento solenne come la morte di un essere umano. Vi erano venditori di limonate, di noccioline e di cianfrusaglie varie e, nelle prime file, erano piazzate le immancabili donne del popolo che sferruzzavano.
– Mio Dio, abbiate pietà di me! I miei occhi non hanno più lacrime da versare per i miei poveri figli!
Il boia Sanson balzò giù, per primo, dalla carretta e si avvicinò alla prigioniera per aiutarla a scendere.
– Questa è l’ultima volta che sto seduta e l’ultima che mi alzo in piedi.
Ella rifiutò l’aiuto e, pur avendo le mani legate dietro la schiena, sforzandosi di trovare l’equilibrio, scese da sola gli scalini di legno della carretta.
– Conte di Fersen, Vi ho sempre amato. Vi dico addio, mio diletto! Pregate per me e trovate la forza di dimenticare, di perdonare e di vivere!
Rimase ritta in piedi, sola in quella piazza assiepata di gente e stette ferma per qualche istante che parve un’eternità.
Fu allora che la folla si ritrovò, d’improvviso, immersa nel silenzio, di fronte all’immagine della sua Regina che stava andando al supplizio.
Quella donna precocemente invecchiata, malata, magrissima, lievemente claudicante, con gli occhi arrossati e contornati dalle occhiaie che risaltavano enormemente in un volto pallido e smunto, irradiava più solennità di una gran dama adornata di corona e mantello, elegantemente incedente su un tappeto di velluto.
Chi si sarebbe aspettato di vedere l’affascinante e voluttuosa austriaca, protagonista dei libelli osceni e dei racconti più inverosimili, non rimase deluso dall’immagine che gli si stava imprimendo negli occhi.
Quella creatura abbandonata da tutti, infamata dal suo stesso sangue incolpevole, in gramaglie, con i capelli tagliati malamente e lievemente scompigliati sulle tempie dalla brezza autunnale, emanava una maestà che non ha bisogno di diamanti, di perle, di seta e di broccato per rifulgere.
Non era di pizzo il suo scialle, non era tempestato di smeraldi e di rubini il suo abito, non erano esaltati da un sapiente trucco gli zaffiri appannati dei suoi occhi, ma la fierezza senza ostentazione del portamento, l’orgoglio privo di superbia dello sguardo e la serenità non lieta del volto facevano di lei un essere unico ed irripetibile.
Temprata dalle sofferenze e dalle umiliazioni, resa sublime dalla tragedia incombente, privata di ogni bene terreno e di ogni rispetto umano, in lei erano rimasti soltanto una regale dignità ed un disperato coraggio che, lasciati soli, risaltavano mille e mille volte di più.
Maria Antonietta non era mai stata così Regina come in quel momento, in abiti dimessi, mesta e sola, ai piedi della ghigliottina. Adesso, era la figlia di Maria Teresa. Adesso, era più grande di Maria Teresa.
– Luigi Giuseppe, Sofia, Vostra madre sta per raggiungerVi. Nessuno ci separerà più, cari figli miei! Maria Teresa, Luigi Carlo, che Dio Vi protegga e Vi doni ogni bene. Siate coraggiosi e forti. Vado a raggiungere Vostro padre. Un giorno, ci rivedremo tutti!
Mosse verso il patibolo ed iniziò a salire da sola, senza l’aiuto di nessuno.
Fu allora che, inavvertitamente, calpestò il piede del boia. Non gli provocò, di certo, un gran dolore, pelle ed ossa qual era ridotta e, tuttavia, si scusò prontamente:
– Perdonate, Monsieur, non l’ho fatto a posta.
Furono queste le ultime parole che le sentirono pronunciare.
Il boia chinò il capo, in un ultimo, silenzioso, omaggio alla sua Sovrana che andava a morire e ci avessero soltanto provato a contestargli quella cortesia che se la sarebbero vista con lui.
La Regina salì, con eleganza e grazia, senza fretta e senza lentezza, i gradini del patibolo. Era l’ultima volta, in vita sua, che saliva le scale….
– Marito mio, Sire, devoto sposo, non Vi ho portato il rispetto che meritavate ed ho anteposto un altro nell’affetto che soltanto a Voi avrei dovuto elargire, ma ho nutrito per Voi una sincera amicizia, e, alla fine, un tenero amore. Ho apprezzato tutte le Vostre doti, sia pur tardivamente. Fra poco, sarò di nuovo al Vostro fianco, se Voi ancora mi vorrete.
Giunta, infine, in cima al patibolo, attese accanto al tetro strumento di morte, standosene immobile e muta, con lo sguardo perso nel vuoto e nel turbinio dei suoi pensieri. Non si rivolse alla folla e, a differenza di suo marito, non tentò in alcun modo di proferir parola.
Non era più soltanto pallida, ma bianca come un cencio lavato ed il respiro si era fatto affannoso.
– Signora Madre, muoio per non avere ascoltato i Vostri consigli e dopo avere demeritato grandemente ai Vostri occhi. Sono costernata per le preoccupazioni che Vi ho dato e spero di non sfigurare, un’ultima volta, davanti a Voi. Sorreggetemi nel momento estremo della mia vita ed aiutatemi a renderVi orgogliosa di me!
Guardò il cielo per l’ultima volta e vi rivolse una muta preghiera.
L’Abate Lothringer continuava a parlarle inascoltato, finché il boia non gli chiese di allontanarsi.
Gli aiutanti del carnefice afferrarono rudemente la Regina e la legarono, per tutta la lunghezza del corpo, alla slitta della ghigliottina. Dopo averle tolto lo scialle e la cuffia, fecero scivolare l’asse di legno sotto la lama, assicurandole, sul collo, la piccola trave lignea che doveva impedirle ogni movimento della testa.
Non potersi più muovere le dava un senso di impotenza e di ineluttabilità, le faceva montare la nausea ed avvertire una morsa al cuore.
I suoi sensi erano acuiti, il suo cervello lavorava all’impazzata ed in quella penosa condizione si trovò a guardare il cesto di vimini che, a giudicare dall’aspetto e dall’odore, doveva avere assolto più e più volte quel lugubre compito. L’ultima immagine che si sarebbe impressa nei suoi occhi….
Le sue orecchie, intanto, erano protese e pronte a cogliere, fino all’ultimo istante, lo stridore della lama che sarebbe precipitata su di lei, correndo attraverso le scanalature delle due assi verticali della macchina di morte cui era stata legata.
Il rullio dei tamburi cresceva sempre di più, contrastando con lo spettrale silenzio dei presenti.
In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. Miserere mei.
Il boia azionò la lama che, con un tonfo sordo e stridulo, si abbatté sul collo della Regina. Era mezzogiorno e quindici di mercoledì 16 ottobre 1793.
Il silenzio fu, subito, spezzato da un boato fortissimo e molte persone iniziarono a gridare: “Viva la Repubblica!”.
L’aiutante del boia raccolse la testa dal cesto e, reggendola dai capelli, la esibì alla folla, facendo il giro del palco.
Alcuni spettatori delle prime file ed altri, da dietro, spintonando i primi, cercarono di infilarsi sotto il patibolo, allo scopo di intingere i fazzoletti nel sangue che sgocciolava dalle assi. I soldati li allontanavano a spintoni e pedate, minacciando con le baionette i più insistenti e facinorosi.
Rosalie osservava tutto da un punto dietro ai soldati ove si era fermata. I suoi occhi erano pieni di lacrime.
La testa mozza della Regina fu gettata sulle nude assi e, subito dopo, sistemata fra le gambe del corpo senza vita, su di un carro.
La folla si disperse rapidamente, avendo perso, di colpo, interesse per il macabro spettacolo.
Certuni, tuttavia, rimasero nella piazza, acclamando ed applaudendo e qualcuno ballava e cantava, tutti inneggiando a quelle libertà, uguaglianza e fraternità che, col loro contegno irriguardoso, erano i primi a calpestare mentre altri erano silenziosi o tristi.
Alcuni uomini alzarono dei pugnali d’oro in segno di saluto.
Una congiura, ordita da alcuni parrucchieri e pasticceri nonché da una merlettaia cieca e dal di lei figlio, un giovane lustrascarpe e finalizzata a rapire Maria Antonietta sulla via del patibolo ed a condurla in salvo, fu sventata e gli ideatori furono processati e messi a morte.
I miseri resti della Regina furono subito portati via e seppelliti, in tutta fretta e di nascosto, sotto falso nome, in una bara di sette franchi, posta fra due strati di calce viva, accanto a quelli del Re, nel Cimitero della Madeleine. Subito dopo l’esecuzione, infatti, un corriere era giunto in quel cimitero con l’ordine di scavare una fossa accanto a quella di Luigi Capeto. Alla Regina fu, così, accordata l’ultima grazia che aveva chiesto e, cioè, di essere sepolta accanto al marito.
Le tombe dei due sventurati Sovrani non si confusero con quelle delle altre vittime della follia umana, appartenenti all’una o all’altra fazione e ciò grazie al provvidenziale interessamento di Pierre Louis Descloreaux, un anziano avvocato ed ex magistrato, fedele alla monarchia che viveva in Rue d’Anjou, nei pressi del cimitero. Egli, ricordandosi dove erano le sepolture, aveva acquistato il terreno che le ospitava, recintandole con delle siepi e piantando due salici piangenti.
Molto tempo dopo, a restaurazione avvenuta, in una fredda giornata d’inverno, alle sette del mattino, la Duchessa d’Angoulême si recò in incognito, insieme a Madame de Tourzel, a pregare sulle tombe dei suoi genitori. Era vestita molto semplicemente, tremava per la commozione e, malgrado il fitto velo che le copriva il volto, la sua dama di compagnia si accorse che stava piangendo. Terminò la sua visita con una preghiera per la felicità della Francia.
Le spoglie di Maria Antonietta furono riesumate il 18 gennaio 1815 e quelle di Luigi XVI il giorno successivo, su ordine di Re Luigi XVIII, già Conte di Provenza. Il 21 gennaio 1815, nel ventiduesimo anniversario della decapitazione del Re, un solenne corteo funebre accompagnò i feretri della coppia reale all’Abbazia di Saint Denis ove ancora riposano.
Sul primo luogo di sepoltura di Luigi XVI e di Maria Antonietta, accanto alla Chiesa della Madeleine, Luigi XVIII fece costruire la Cappella Espiatoria, un edificio tondo, di stile neoclassico, ornato da cespugli di rose bianche.
Il 19 luglio 2008, la Francia presentò le sue scuse ufficiali all’Austria per la decapitazione di Maria Antonietta.






Grazie a chi ha letto questo racconto.
Sono riuscita a reperire un memoriale scritto dal nipote del boia Sanson, un’altra testimonianza pressoché simile alla precedente ed alcune righe vergate da Rosalie Lamorlière, l'ultima cameriera della Regina.
Gli spunti sulle differenti sofferenze morali della vittima di un crimine comune e del condannato a morte, sul cervello che, poco prima dell’esecuzione, si mette a lavorare a pieno ritmo, sulla Regina che pensa che ci sono migliaia di persone, ma che soltanto lei va a morire e che ha ancora tempo, perché ci sono ancora da percorrere le vie x e y, li ho presi dalle parti finali dei capitoli II e V de “L’Idiota” di Fëdor Dostoevskij, scrittore che, essendo stato condannato alla fucilazione per associazione sovversiva ed essendo stato graziato sul patibolo, pochi istanti prima dell’esecuzione, ben conosceva gli stati d’animo di un condannato a morte.
Per quanto riguarda il percorso della carretta, la Conciergerie si trova nell’Île de la Cité, la quale è collegata alla riva destra della Senna dal Pont au Change. Arrivata in Place de la Révolution, già Place Louis XV e futura Place de la Concorde, la carretta si fermò davanti al grande Viale delle Tuileries, quasi vicino al patibolo. La carretta passò attraverso Rue Saint Honoré, perché il pittore David era affacciato lì e perché, arrivata al Borgo Saint Honoré, Maria Antonietta iniziò a cercare il Sacerdote rimasto fedele a Roma (racconto di Sanson). Poiché Rue Saint Honoré è un viale lungo e largo che raggiunge e supera Place de la Concorde, ho supposto che la carretta, arrivata sulla riva destra della Senna, avesse raggiunto Rue Saint Honoré tramite una traversa e, poi, avesse percorso soltanto quel viale fino ad arrivare a destinazione.
   
 
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