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Autore: Tulekahju    28/10/2017    0 recensioni
Un lungo cammino nel buio dell’eternità, tra le rovine di templi dimenticati, e i lignei cimiteri di antichi spiriti, finalmente liberati dal dolore dell’infinito.
Racconto scritto in "stream of consciousness", di notte, mentre ascoltavo dei dischi Dungeon Synth.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La notte era calata. La nebbia era fitta e misteriosa. I versi degli uccelli in lontananza, talmente armoniosi e accordati nella voce della notte, sembravano delle dolci note di pianoforte. Echeggiavano tra le campane dei monasteri dei villaggi lontani, e tra i caldi fuochi dei castelli, ancor più lontani. Le acque si smuovevano tra i movimenti di leggiadre bestie marine, i cui bizzarri mormorii sembravano delle lucenti preghiere, o dei tetri ammonimenti. E tra gli alberi della foresta dell’eternità, il vento parlava in mille lingue sconosciute, e risuonava le membrane delle foglie come corde di un gigantesco gruppo di liuti. Un coro di voci spettrali, proveniente dalla terra, si alzò al cielo come un coro, attraversando la foltissima ragnatela della nebbia, ed echeggiando nella notte. L’aria di una magica sinfonia nera stava risuonando, in quella notte. Ogni essere, d’ogni valle e radura, vicina e lontana, mormorava e sussurrava misteriose e incomprensibili preghiere, d’immensità e magnificenza, all’aria dell’eterna distesa della foresta.
E dopo, la notte avvertì un lontano temporale. Tutto tacque. Tutto si fermò. Tutto si spense. Tutto si addormentò. La foresta fu avvolta da un velo di silenzio, un silenzio austero, un silenzio oscuro. Un silenzio deprimente. Solo una voce rifiutò di addormentarsi, nel tetro silenzio. Era il vento, la cui flebile e dolce voce continuava a fluttuare lentamente, in mezzo agli alberi dell’eternità. In mezzo a quella distesa di alberi, nebbia e silenzio, il vento vide una figura. Una figura alta e austera, ma allo stesso tempo misera e provata. E alla sua vista l’aria fece risuonare nella nebbia un lamento lugubre, come una lontanissima fanfara di sconfitta. Come se il cuore di quel magico luogo fosse stato calpestato dal peggiore degli esseri umani.
Due lunghe zampe canine percorrevano lentamente la via degli alberi, celate in uno spesso tessuto bianco, un tessuto segnato e provato da tempi oscuri e dimenticati. Due grandi e sottili ali di pipistrello smuovevano l’immensa nebbia, ali nude e impoverite dal gelo del tempo. Due mani lupesche facevano timidamente capolino da delle larghe maniche bianche, bagnate dal sangue di un collo mozzato, che emetteva una luce flebile e misera. E il buio del tempo più dimenticato e gelido si rifletteva negli occhi ciechi e nell’espressione funerea di una sofferente testa decapitata. Il suo lento, sommesso e affannoso respiro si insinuava silenziosamente nel silenzio dell’eterna foresta. Con passi felpati e inudibili, si muoveva nel silenzio del bosco, guidata solo dal vento che filtrava tra le sue ali malconce. Un lungo cammino nel buio dell’eternità, tra le rovine di templi dimenticati, e i lignei cimiteri di antichi spiriti, finalmente liberati dal dolore dell’infinito.
All’improvviso il vento fece uno scossone, come se avesse avvertito qualcosa davanti a sé. La creatura seguì il suo consiglio, e si fermò. Davanti a lei due grossi alberi solcavano la nebbia ed il buio, come delle spettrali navi in un mare di silenzio. In mezzo a quegli alberi si ergeva un ampio passaggio, segnato dalle orme di antiche macabre ere. La creatura era ancora ferma e immobile, davanti a quel lugubre viale fatto di radici e di buio, come se stesse attendendo qualcosa. Mentre la nebbia accarezzava il suo volto mozzato e animalesco, un branco di lupi uscì lentamente dal passaggio. I loro volti trasudavano ferocia e spietatezza, come i loro denti, sporchi del sangue di patetici esseri umani. Uno di loro portava un profondo solco circolare intorno al collo, come se la sua testa fosse ricresciuta dopo una decapitazione. Le feroci bestie si fermarono a qualche passo di distanza dalla creatura, immobile.
I suoi occhi, vitrei, morti e sottili come delle lastre di vetro, riflettevano una luce. Una luce filtrava all’interno del suo buio, come uno sciame di lucciole biancastre. Erano gli occhi dei lupi. Occhi gelidi come il più funereo degli inverni, la stavano fissando insistentemente, e lei non fece ancora nessun cenno di muoversi. Le bestie cominciarono ad emettere dei crudeli latrati, sbuffando delle spesse e spettrali nubi di furore dalle loro bocche armate di denti, affilati come le lance del più potente degli eserciti. Un macabro e infernale concerto circondò la creatura, sempre più immobile. Ad un certo punto però le sue ali si aprirono al turpe cielo, e tutto cessò. La creatura stava puntando i suoi ciechi occhi proprio verso i lupi. La crudele sinfonia di latrati infernali fu sostituita dal puro silenzio. Solo l’onnipresente voce del vento rimase a bisbigliare nella fredda atmosfera. Dopo qualche momento, la creatura aprì ampiamente la sua mano, e una gelida lama di vento aprì un profondo taglio. Il terreno sotto ai suoi piedi canini accolse delle gocce del suo sangue nerastro.
Dopo quel gesto, l’agghiacciante silenzio fu sopraffatto da una straziante e sommessa nenia di guaiti, una melodia capace di straziare e affondare il cuore e l’anima di qualsiasi uomo. I lupi poi si inchinarono, e se ne andarono, in un sepolcrale e rispettoso silenzio. Il vento sussurrò all’orecchio e al corpo della creatura, e lei proseguì il suo cammino. Entrò tra i due grandi alberi, nel passaggio, ed il suo buio sigillò l’entrata dopo di lei. Lunghi lamenti stavano echeggiando all’interno della lunga galleria, come un mare di fantasmi, intrappolati tra quelle grandi e possenti pareti fatte di rami e radici. Le mani della creatura percorrevano lentamente gli intricati solchi impressi sulle pareti, come se nel suo buio le permettessero di vedere gli antichi fasti di una magia persa. Come se nel suo buio riuscisse a riconoscere i fantasmi di una razza estinta. Una razza di cui persino la memoria del mondo rifiuta di parlare. Nel vento si sentirono echeggiare le ossa delle patetiche vittime umane, divorate dai lupi nel loro turpe errare per i boschi dell’eternità. La creatura chiamò il vento a sé con la sua mano, ancora sanguinante. Il vento raccolse le ossa da terra, e le fece volare nella sua vorticosa aria. Infine esso porse, nella mano della creatura, un macabro bastone in osso.
Lentamente la creatura avvertì un lungo e sommesso fruscio di alberi. Era giunta alla fine del buio passaggio, ed una nuova luce stava cominciando ad apparire flebilmente nella morte dei suoi occhi. Dei simboli biancastri, che fluttuavano immobili nell’immenso buio. Un mare di grandi alberi erano emersi dalla nebbia, e guardavano silenziosamente la creatura, con mille occhi invisibili, pieni di pietà. Silenziosamente il mantello della nebbia stava celando delle steli di pietra, recanti dei segni indecifrabili. La sibilante mano del vento guidò la creatura verso la più grande di queste steli, che troneggiava nella nebbia, come la torre più alta, tetra e inaccessibile. La sua mano toccò la ruvida pietra, i suoi occhi si chiusero, e il suo buio si trasformò in luce.
Quella luce mostrò la testimonianza di una vita. Una vita che fu presa, uccisa e dimenticata per sempre. La vita di un antica creatura del legno e del cielo. La vita di un antica guardiana dell’eternità della foresta. La sua foresta. La foresta dell’eternità. La foresta dell’eterna. La foresta di Kjärna. E infine i suoi occhi videro una spada, la spada che distrusse le sue ali. La spada che uccise la sua coda. La spada che tagliò la sua testa. La spada che la condannò al suo straziante destino. Il silenzio stava regnando sovrano sulla sua tragedia. gli occhi di Kjärna si riaprirono improvvisamente, pieni di lacrime, amare come la morte, che caddero sul suolo come la più deprimente tra le piogge. E poi il silenzio fu squarciato da un grido disperato e lancinante, levato al bosco, al cielo, alla notte, all’eternità. «NIJÅLLÄÄ!! NIJÅLLÄÄ!! DØ HÄRR TÆ KJORHREET KJØHVLAR NÜGGT!! KHVÖR?!! KHVÖR?!!». Un immenso grido di disperazione e odio, che lentamente si trasformò in un pianto straziante. Il pianto più disperato, sofferente e straziante mai sentito da essere vivente. I suoi disperati latrati echeggiarono per tutto la foresta, oltre la nebbia più spettrale e funeraria.
All’improvviso però il suo pianto si mutò in un grido di terrore e angoscia, e la sua testa cadde a terra, sommersa dal suo stesso pianto. Il suo corpo era stato trafitto. Una lunga spada arrugginita la aveva appena trapassata da parte a parte, fino a conficcarsi nella pietra sottostante. Una risata echeggiò nel terrore del silenzio. Una risata umana. La risata di un cacciatore di demoni. L’ultima cosa che Kjärna vide, nel suo buio, fu una croce, che lentamente sbiadì, sempre di più, sempre di più, sotto alla folle risata del cacciatore.
E poi fu il silenzio, poi fu il buio. Poi fu la morte.
Tutto tacque. Tutto si fermò. Tutto si spense. Tutto si addormentò. Di nuovo.
Anche il vento stavolta si fermò, a guardare il cadavere della povera guardiana, stesa al suolo, davanti ai resti della sua stele. I suoi occhi, sommersi nel sangue e nelle lacrime, e la sua bocca, che ancora rantolava un ultimo, disperato respiro. Tutt’ad un tratto, il vento cominciò a far risuonare nell’aria una lenta e sommessa nenia funebre. I lupi uscirono dal passaggio, con sguardo sofferto, si avvicinarono al cadavere, e se lo caricarono sulle proprie spalle. Cominciò così la lenta processione funebre per Kjärna. La notte assistette in silenzio, mentre gli alberi della foresta fecero risuonare i propri liuti. E il corteo procedette lentamente per la foresta, fino a scomparire nella nebbia.
   
 
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