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Autore: Happy_Pumpkin    29/10/2017    5 recensioni
Poi, all’improvviso, il bicchiere si mosse.
Fu uno scatto millimetrico, ma lo avvertì distintamente.
“Mamma?”
Domandò alla fine con voce incerta, scoprendo di non avere sufficiente aria da espellere per stimolare le corde vocali.
No.
Due lettere, chiare, inequivocabili.
“Non è tua madre, Sarada. Non stiamo parlando con lei.”
“Io devo proteggere Sarada, Naruto. Devo combattere qualsiasi cosa sia entrata nella mia casa e l’abbia resa sua.”
“E’ per questo che sono qui. Per aiutarti a proteggere Sarada ma… anche te stesso. Andiamo a cercare le risposte che ci servono e a chiudere per sempre questa faccenda. Assieme.”

Esistevano orrori che l’Uomo non poteva vedere, né percepire, anche se a volte quel Nulla, l’Inafferrabile per mente umana, scavava in profondità, fin nelle viscere e dentro la testa.
[Storia di tensione, horror e sovrannaturale, presenza di citazioni per omaggiare il maestro H.P. Lovecraft]
"Questa ff partecipa all'Hallowchallenge indetta dal gruppo facebook SasuNaru FanFiction Italia"
Genere: Horror, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Boruto Uzumaki, Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sarada Uchiha, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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telescrittura
Premessa: E' una storia di tensione psicologica e di stravolgimenti di trama. Inizierà in maniera classica, con una sorta di evocazione spiritica (per approfondimenti vd note a fondo pagina, attenzione agli spoiler), per poi prendere una piega man mano sempre più imprevedibile. Il protagonista principale è Sasuke, assieme in parte a Naruto. Ho cercato, per quanto la situazione sia assolutamente drammatica rispetto al contesto classico, di rendere tutti i personaggi il più possibile IC e realistici.
Come accennato nell'intro ci saranno dei riferimenti a Lovecraft (non di trama, la trama è tutta mia invenzione), per chi non lo conoscesse sono comunque spiegati nelle note autore; ho adottatto inoltre uno stile parecchio spezzato, proprio per incrementare l'inquietudine e lo svolgersi rapido, secco, degli eventi.
Se questa storia ha preso vita è stato anche grazie a Ilenia (che oggi mi ha dato una notizia bellissima e reso migliore la mia giornata) aka Sunako, la quale legge con santa pazienza e affetto le bozze che le passo, mi consiglia e mi guida. Grazie, per tutto quello che sei e che fai.
Buona lettura e... buon Halloween! Poi se ve lo dice una che è l'incarnazione di una zucca è ancora meglio, no?






"I have seen beyond the bounds of infinity and drawn down daemons from the stars... I have harnessed the shadows that stride from world to world to sow death and madness"
From Beyond - H.P. Lovecraft





And then… there was Darkness.




Boruto lanciò una breve occhiata all’ampia libreria del salotto, scorrendo i vari romanzi storici, fantasy e qualche thriller, per poi soffermarsi come d’abitudine sugli scaffali dedicati all’esoterismo che avevano da sempre catturato la sua attenzione.
Si voltò verso Sarada, seduta al tavolo con un foglio, una penna e un bicchierino, per poi domandarle dubbioso:
“Ehr... sei sicura di voler fare questa cosa?”
La ragazza sollevò lo sguardo, si aggiustò con aria professionale gli occhiali e dopo aver emanato un breve sospiro annuì: “Certo che ne sono sicura – accennò a un mezzo sorriso provocatorio – non dirmi che proprio tu vuoi tirarti indietro.”
Boruto aggrottò le sopracciglia e sbottò, ferito nell’orgoglio di quindicenne:
“Non dire stronzate, io di sicuro non ho paura. Mi stupivo solo che tu, dopo tutti questi anni in cui mi hai vietato anche solo di toccare i libri di tuo padre, te ne esci con sta storia della... cosascrittura, o come si dice.”
Borbottò, grattandosi il naso dopo aver appoggiato una mano sul tavolo.
Sarada, che aveva finito di disegnare le lettere dell’alfabeto sul foglio, inserendo anche voci di comodo quali si, no e il punto interrogativo, chiuse la penna per replicare con aria tranquilla:
“Telescrittura, Boruto, si chiama telescrittura. Guarda che la questione dei libri di papà rimane: l’esoterismo è una materia da non prendere sottogamba, in nessun caso.”
“Oh, beh, alla faccia del divieto! Perché quello al tuo fianco mi pare proprio un libro esoterico di tuo padre! Oppure lo davano in edicola in comode uscite settimanali nella raccolta Evocazioni, impara anche tu a parlare con gli spiriti?”
Replicò, puntando un dito contro l’oggetto incriminato.
Sarada, nonostante l’aperta ironia del commento, arrossì e aggrottò le sopracciglia, assumendo un’aria indignata, per poi ribattere asciutta:
“In questo caso è diverso. Mi sono dovuta documentare, la telescrittura non è una cosa da affrontare alla leggera e – tacque un istante, mordendosi un labbro – era l’unico modo. Per parlare con la mamma, visto che papà dopo tutti questi anni sembra averci rinunciato.”
Dopo aver ascoltato quelle parole e, soprattutto, visto l’espressione dell’amica d’infanzia, Boruto sospirò, si portò un pollice al petto gonfio di determinazione e la esortò, carico d’energia:
“Va bene! Facciamolo allora!”
Suo malgrado, Sarada si ritrovò a sorridere per quella scarica di vitalità e annuì a sua volta, prendendo tra le mani i vari oggetti, così da alzarsi in piedi. Notando lo sguardo vagamente interdetto del compagno spiegò con voce più bassa, quasi stessero per compiere un crimine inenarrabile:
“Non qui, Boruto. Nella mia camera: non si sa quello che potrebbe succedere o se magari papà rientra all’improvviso.”
“O se passa il vecchio signor Ward. Per offrirti sigari e chiederti il sale.” Scherzò l’altro.
Sarada roteò gli occhi: “Non è vecchio, è rimasto solo ferito dopo una delle spedizioni con papà; l’Africa ha cambiato le vite di tutti noi.”
Commentò infine, cominciando a salire le scale che conducevano alla bella mansarda dove, anni fa, i suoi genitori avevano fatto i lavori per renderla abitabile e ricavarne una camera tutta per lei, luminosa, dal tetto alto e con le nicchie più basse murate per ricavarne uno sgabuzzino chiuso da una porta bassa, nel quale tendenzialmente finivano le valigie e tutte le robe inutili accumulate negli anni.
A Sarada piaceva la sua mansarda, proprio perché spaziosa e piena di luce, anche se a volte si sentiva un po’ troppo lontana rispetto ai suoi genitori, quando c’erano ancora entrambi e rientravano a casa la sera.
Risalì le scale in legno lucido, facendo scivolare le dita sul mancorrente, seguita da Boruto che non visto la scrutava, incapace suo malgrado di comprendere l’improvviso impulso che aveva spinto la sua amica, dopo tutti quegli anni, a cercare un dialogo con sua madre che pure era morta tempo addietro.
Ma d’altronde lui una madre ancora l’aveva, per fortuna, quindi non si sentiva esattamente nella posizione di obiettare qualcosa, decidendo come sempre di supportare Sarada nelle sue scelte, anche quelle all’apparenza più folli, anziché osteggiarla dimostrando un buon senso che, in fondo, lui non aveva decisamente mai posseduto.
Osservò brevemente la Playstation con i pad appoggiati a terra, i videogiochi impilati, i libri e una boccetta di smalto che Sarada aveva evidentemente cercato, forse il giorno prima, di mettersi senza troppi risultati. Sorrise, per tutti i bei ricordi che aveva della loro infanzia, delle competizioni con gli sparatutto o i salti assieme quando incominciavano un videogame horror che masochisticamente giocavano di notte, al buio.
Poi, vide Sarada sedersi per terra su un cuscino, lanciargliene uno ed esortarlo:
“Dai, cominciamo.”
Per quanto entusiasta per ogni iniziativa tendenzialmente sconsiderata, quella volta Boruto non poté fare a meno di sentire un senso di irrequietezza quasi istintivo, nonostante l’atmosfera distesa e la consapevolezza che il loro futuro mezzo di comunicazione spirituale fosse, sostanzialmente, nient’altro che un foglio scribacchiato.
Si sedette a sua volta e scherzoso espresse i suoi dubbi:
“Sicura che quel pezzetto di carta vada bene? Non dovremmo avere qualcosa di più figo, tipo una tavola ouija come quelle che si vedono nei film?”
Sarada si sistemò gli occhiali: “Andrà benissimo. Tutte quelle robe che vedi in televisione sono giusto per fare scena. Che tu abbia una biro o una Montblanc scrivi lo stesso, no? Con la telescrittura è la stessa cosa.”
“Sei sempre saggia e sai un sacco di cose, Sarada.” buttò lì Boruto, d’istinto, con un sorriso allegro.
La ragazza, intimamente compiaciuta e imbarazzata, arrossì. Poi dette un colpo di tosse, appoggiò il bicchierino sul foglio con le lettere dell’alfabeto e disse, guardando con serietà l’amico negli occhi.
“Ti spiego come andranno le cose. Se non te la sentissi o volessi ripensarci… lo capirei, non devi provare un obbligo nei miei confronti.”
Perché, davvero, l’ultima cosa che desiderava era trascinare Boruto in un qualcosa di più grande di entrambi senza che lui ne fosse consapevole. Ma l’amico nemmeno la fece finire di parlare:
“Vai di spiegazioni. Abbiamo fatto un sacco di stupidaggini in questi anni, tendenzialmente provocate da me – ridacchiò – quindi non penso nemmeno alla lontana di lasciarti sola in questa cosa, sei la mia famiglia.”
Sarada sorrise, genuinamente, grata per poter contare sul migliore amico di sempre e il fratello che non aveva mai avuto anche in circostanze come quella. Dunque annuì e cominciò a parlare per sommi capi di quello che avrebbero dovuto fare:
“Posizioniamo il bicchierino al centro, poi appoggiamo l’indice su di esso. Gomiti alzati, non devono entrare in contatto con nulla, nemmeno il nostro ginocchio. Infine… aspettiamo. Stando al libro a un certo punto le nostre menti dovrebbero connettersi e permetterci di convogliare le giuste energie per cominciare la comunicazione con l’aldilà.”
Boruto annuì. Il sole filtrava attraverso le finestre incastrate nel tetto, non c’era nemmeno una nuvola nonostante fosse tardo pomeriggio.
Sarada rovesciò il bicchierino di vetro, posizionandolo al centro, poi dopo aver espirato appoggiò sul fondo l’indice, guardando l’amico con occhi carichi d’aspettativa.
Il ragazzo commentò, tirandosi su le maniche: “Dai racconti dei nostri genitori, mio padre e il tuo non avevano nemmeno bisogno di toccare il bicchiere, si spostava tipo impazzito.”
Sarada scrollò le spalle: “Questo perché tuo papà è un medium e il mio ha una forte energia psichica, oltre a essere un esperto in occultismo. E’ normale che non abbiano nemmeno bisogno di un contatto ma – precisò con quel fare tagliente eppure paziente che la contraddistingueva – noi non siamo né medium, né i nuovi spiritisti dell’anno, quindi dobbiamo arrangiarci come possiamo. Ora proseguiamo o aspetti che l’aldilà apra una porta con noi per esasperazione?”
“Va bene, va bene, siamo tipo al livello 1 di un gdr e dobbiamo expare per raggiungere i nostri vecchi. Vai di level up!”
Sorrise e appoggiò a sua volta il dito sul bicchiere.
Il vetro era freddo e la carta liscia sotto di esso.
I due ragazzi si guardarono, avvolti dal silenzio della casa, mentre i loro respiri facevano appena rumore, come per paura di rovinare qualcosa.
Passarono diversi minuti ma ancora non ci furono movimenti: il bicchierino era immobile, esattamente come loro.
Dopo diverso altro tempo, Boruto domandò perplesso: “Quando esattamente dovrebbe succedere qualcosa?”
Sarada si morse un labbro: “Non lo so, non c’è scritto un tempo preciso. Pensa a mia mamma, concentrati su di lei.”
Ritornarono, in silenzio, a guardare l’oggetto in vetro che era rimasto esattamente dove l’avevano posizionato. Sarada cominciava a sentire il braccio farle male, complice il muscolo tenuto immobile e sollevato troppo a lungo, nonché la frustrazione perché quel dannato coso non accennava minimamente a spostarsi, per quanto lei avesse letto e studiato la procedura. Non capiva cosa stesse sbagliando.
Poi, all’improvviso, il bicchiere si mosse.
Fu uno scatto millimetrico, ma lo avvertì distintamente.
Guardò d’istinto Boruto che a sua volta posò gli occhi su di lei:
“Boruto, smettila di prendermi in giro. Non serve che mi dai l’illusione per farmi contenta.”
Il ragazzo sgranò gli occhi, offeso:
“Prenderti in giro? Tu, piuttosto, l’hai spostato per farmi stare qui finché non succedeva qualcosa.”
Sarada assottigliò lo sguardo: “Io non ho fatto proprio un bel niente.”
Tacquero entrambi. Poi abbassarono il volto verso l’oggetto.
In quel preciso istante, il bicchiere si mosse, ancora. Finì precisamente sulla lettera N, né vicino, né fuori dai confini delineati a penna.
Quella volta i due amici non si guardarono. Tennero invece gli occhi puntati sull’oggetto, le braccia immobili, le dita quasi leggere sul corpo in vetro che sembrava essere scivolato sotto di loro.
Dopo essersi umettata brevemente le labbra, Sarada ribadì:
“Non togliere il dito. Per nessun motivo.”
Boruto continuò a non spostare lo sguardo e si limitò ad annuire.
Il bicchiere si mosse ancora, più deciso, diretto verso una nuova lettera. Sarada la memorizzò: U.
“Nu...” sussurrò tra le labbra.
Gli occhi seguirono il bicchierino che riprese a spostarsi, più veloce. Sembrava ribellarsi sotto le loro dita che erano disperatamente ancorate alla sua superficie, come calamitate da essa: la sentivano più fredda mentre la carta al di sotto frusciava, accarezzata eppure rotta da quel passaggio brusco, persino frettoloso.
“L… I… O…” continuò a leggere ad alta voce.
Poi, il bicchiere si arrestò.
Boruto e Sarada si resero conto di aver trattenuto il respiro, mentre il cuore batteva più forte e la stanza attorno a loro aveva perso di significato.
Velocemente, con la mano libera Sarada estrasse un taccuino dalla tasca dei jeans, lo mise alla buona sul ginocchio e sempre con la sinistra afferrò la penna per appuntarsi le lettere.
Poco dopo il bicchiere si mosse.
Altre lettere, toccate velocemente: Boruto aveva l’impressione di non riuscire a star dietro a quella scheggia di vetro impazzita che sfrecciava sulla carta, mentre senza fiatare Sarada si annotava con sguardo attento ogni singola lettera.
Una breve pausa, prima di un nuovo insieme di lettere, lo scrivere frenetico sul foglietto degli appunti, infine… il nulla. Non un movimento.
Sarada ansimò, agitata. Un brivido le corse all’altezza della cervicale, il cuore le era arrivato fino in gola e pulsava talmente tanto forte da sentirlo fin dentro il cervello e nelle orecchie, pronte a gettarlo fuori.
“Mamma?”
Domandò alla fine con voce incerta, scoprendo di non avere sufficiente aria da espellere per stimolare le corde vocali.
Non guardò il blocco di fogli, né seppe quello che aveva scritto, troppo concentrata ad appuntare i movimenti del bicchiere. L’oggetto per un istante non si mosse.
Poi, lento, esso si spostò. Discese, lettera dopo lettera, senza fermarsi su nessuna. Per un istante andò di poco fuori dai confini del foglio, si arrestò, infine parve ripensarci.
Un altro breve secondo e il bicchiere risalì appena, rimanendo nel mezzo tra il si e il no scritti a penna con la calligrafia precisa di Sarada.
Attesero.
Infine, con altrettanta lentezza l’oggetto si avvicinò al si, sfiorandolo, e il cuore di Sarada batté più forte, per l’emozione, l’agitazione e l’aspettativa.
Ma proprio quando credette che si sarebbe posato lì, su quel dannatissimo si, il bicchierino fece una virata brusca e con uno scatto persino violento andò sul...
No.
Due lettere, chiare, inequivocabili.
“Non è tua madre, Sarada. Non stiamo parlando con lei.”
Commentò a mezza voce Boruto.
La ragazza aprì appena la bocca, fece fatica a deglutire.
Com’era possibile? Aveva pensato a lei, era nella sua casa, protetta dai propri oggetti e con un amico fidato che non aveva mai interrotto il contatto.
Il bicchiere non si mosse, nemmeno loro.
Avrebbe voluto chiedere chi sei ma non lo fece. Sapeva che a quel punto, chiunque ci fosse dall’altra parte poteva rispondere qualunque cosa, con la stessa prepotenza con cui tale entità era entrata in contatto con loro.
Afferrò il taccuino.
Guardò le parole composte ma non disse nulla.
Impaziente, Boruto glielo prese tra le mani, rilesse più volte le lettere e fissò Sarada con gli occhi sconvolti:
“Ma… non vuol dire nulla. Sono parole senza senso.”
Spostò di nuovo lo sguardo sulla frase scritta dall’amica. Tre parole che nulla avevano a che fare con la loro lingua.
Sarada non spostò a sua volta il dito e provò ad andare per logica:
“No, non hanno senso. Ma magari non riusciamo a capirlo. O forse la tavola non è stata scritta in maniera sufficientemente chiara per chi abbiamo contattato, a volte succede che gli spiriti si confondano.”
Perplesso, Boruto scrutò il blocchetto:
“Sembra latino – fece un sorriso teso – chi avrebbe mai pensato che un giorno conoscere una lingua morta ci sarebbe stato d’aiuto.”
La ragazza sospirò, con il cuore che sembrava essersi calmato. Gli prese i foglietti dalla mano e li tenne stretti, per poi fare presente: “Il suono ricorda latino eppure… le parole non mi dicono nulla.”
Boruto scrollò le spalle: “Beh, ogni tanto ci sarà pur qualcosa che nemmeno tu conosci.”
Sarada fece una smorfia, per nulla convinta.
Dopo un istante convenne con Boruto di interrompere, in contemporanea, la comunicazione e togliere gli indici dal bicchierino che quasi per istinto Sarada allontanò dalla tavola ouija fatta in casa.
Rilesse le parole e fece per pronunciarle ad alta voce.
Ma Boruto le afferrò il braccio, guardandola come se stesse per detonare una bomba:
“Ti ha dato di volta il cervello? Se c’è una cosa che ho imparato da anni e anni in casa con mio padre e la frequentazione con il tuo è di non leggere mai ad alta voce delle parole che non conosci, specie se è latino.”
“Boruto questo non è latino, quindi non facciamoci strane paranoie. Ma magari una volta pronunciate ci sono delle assonanze vocali che ci possono far collegare a qualcos’altro. Forse – aggiunse, con evidente speranza – è uno spirito in contatto a sua volta con la mamma.”
Boruto sospirò ma non mostrò ulteriore perplessità. Sarada sembrava così disposta a tutto pur di tornare, anche solo una volta, a parlare con sua madre, a sapere come stesse e dirle tante cose vissute e provate in quegli anni, che lui proprio non se la sentì di sminuire i suoi di per sé brillanti tentativi.
Dunque annuì e si mostrò più risoluto, scacciando eventuali dubbi per non apparire un codardo piagnucolone di fronte all’amica, confidente ed estensione della famiglia che amava, specie dopo tutte l’avventure strampalate in cui l’aveva coinvolta.
“Ok, ok, niente latino, niente conseguenze strane. Vai di assonanze, chissà che magari dietro non ci sia un gioco enigmistico di quelli che piacciono ai tuoi genitori.”
Sarada si mostrò effettivamente più entusiasta: “E’ un’ottima possibilità!”
Allora l’amico le sorrise, sollevando il pollice con aria complice.
Erano in ballo, tanto valeva ballare.
Dopo qualche minuto, osservò l’amica dare un colpo di tosse per trovare la giusta impostazione vocale, umettarsi le labbra secche per l’agitazione e pronunciare, assicurandosi di scandire bene le parole.
Nulio bonus omoreo.”
Trattenne il fiato, imitato da Boruto che occhieggiò la tavola ouija, ma il bicchierino non si mosse. Poi, si guardarono attorno senza alzarsi dai loro posti.
La luce era un po’ più tenue con l’avvicinarsi della sera, il vento soffiava ogni tanto tra gli alberi allontanando eventuali nuvole e la casa era silenziosa: ogni cosa, a partire dai loro corpi, era perfettamente immobile.
“Non… non è successo nulla.”
Commentò Boruto, a voce bassa. Deglutì.
Sarada si aggiustò gli occhiali, tornando a guardare l’amico:
“Così sembrerebbe – nascose una punta di delusione, per la speranza che invece a quel punto sua madre magari le avesse nascosto un messaggio, infine si costrinse a dire – penso che per oggi possa bastare. Leggo ancora qualche altro testo e riproviamo più avanti.”
“Va bene. La prossima volta sono sicuro che andrà alla grandissima!” esclamò, mostrando un sorriso carico d’incoraggiamento.
Sarada fece a sua volta un mezzo sorriso, grata per l’entusiasmo che Boruto sapeva sempre mettere in tutte le cose. Lanciò una breve occhiata alle parole insensate pronunciate poco fa, ripromettendosi che le avrebbe analizzate in serata, per poi concentrarsi i giorni successivi su approfondimenti utili per indirizzare il contatto verso uno spirito specifico e non più qualcuno di casuale.
“Grazie, Boruto.” disse lei, alzandosi in piedi.
Il ragazzo si alzò a sua volta, raccogliendo i cuscini: “Siamo inseparabili, no? – lanciò i cuscini sul letto, infine propose – pizza e film? Poi ti lascio tornare ai tuoi serissimi studi d’approfondimento sull’assemblea condominiale di spiriti e affini, in attesa che tuo padre rientri.”
In fondo, nella solitudine degli anni d’infanzia fatta di genitori lontani per lavoro, Boruto e Sarada erano stati reciprocamente l’unica famiglia che avevano.
“Che scemo sei – replicò la ragazza, assestandogli un pugno sulla spalla – ci sta, ordiniamo a domicilio?”
Boruto la guardò come se stesse dicendo una cosa scontata: “Ovvio! Altrimenti che pizza sarebbe? Suggerisco un film trash d’alto livello culturale per coronare la serata in bellezza.”
Sarada si grattò il mento, fingendosi pensosa, quando in realtà sapevano benissimo entrambi quel era il loro preferito: “Sharknado?”
“Ti adoro!” esclamò Boruto, per poi scoppiare a ridere.
Sarada si lasciò abbracciare, un po’ impacciata. Prese il taccuino in modo da mettere a posto e nascondere tutte le tracce del suo operato: fissò la scritta e le lettere malamente scribacchiate, poi fece per strappare la pagina e gettarla nel cestino.
Ma all’ultimo… ebbe un ripensamento.
Richiuse il blocco di fogli e lo infilò tra un libro e l’altro dello scaffale pieno di oggetti; infine, scese di corsa le scale assieme all’amico, mentre le parole provenienti da un’entità sconosciuta giacevano, intoccate, tra le pagine di un taccuino, risparmiate dalla distruzione.


*


Sarada non riusciva a dormire. Era distesa sul suo letto, con il piumone caldo per le notti d’inverno, il comodino su cui era appoggiato un bicchiere d’acqua, il telefono e la lampada, al fianco l’armadio angolare capace di contenere tutti i libri, più che i vestiti, per i quali la sua colorata libreria non era sufficiente.

Rivolta verso il soffitto mansardato, cercò di smettere di pensare alle parole e a quell’inconcludente pomeriggio, per ricordare qualcosa di più scanzonato, come gli squali che turbinavano in un tornado, appunto. Ma… nulla, la sua mente proprio non voleva collaborare per renderle la nottata più semplice da gestire, mentre il peso di qualcosa lasciato inconcluso, come da portare a termine, l’attanagliava fin dentro le viscere.
Nella penombra della stanza, all’improvviso, avvertì qualcosa.
Non un suono o un movimento, semplicemente la percezione di due pesi, consistenti eppure non invadenti, che si misero ai suoi fianchi, con delicatezza, simili a un gatto che si adagi nel letto prendendo il proprio posto o a sua madre, quando si sedeva mettendosi al suo lato per accarezzarle i capelli se lei era malata e aveva la febbre, oppure tutte le volte che si sentiva triste prima di un suo viaggio lontano.
Poi, avverti una sensazione di calore. Partì dal petto e risalì su, fino alla gola. A un certo punto fu come se due mani le stessero avvolgendo il collo, senza stringere, bensì proteggendolo simili a una sciarpa calda o, ancora, al tocco di una madre.
Sua mamma.
Cercò di muoversi ma… non ci riuscì.
Fu allora che sentì una voce. La voce di sua madre. La chiamava dal fondo delle scale.
“Sarada, gli spiriti stanno arrivando.”
Improvvisamente, con il cuore che prese a battere più forte, mentre il resto del corpo era come bloccato, i muscoli paralizzati, Sarada cercò di aprire gli occhi e allo stesso tempo parlare, gridare; qualcosa, qualsiasi cosa pur di fermare la sua mamma e chiederle di aiutarla, di non lasciarla sola al buio.
Non voleva che i fantasmi arrivassero, né che la trovassero, ma soprattutto aveva bisogno di lei al suo fianco, perché non sapeva cosa fare per combattere la solitudine di suo padre e la propria.
Ma la bocca era sigillata: non riuscì né a spalancarla, né a emettere un suono, mentre il cuore le rimbombava fin dentro la testa e il corpo non rispondeva ai comandi.
Fece fatica a respirare, le mani non sue sul collo emanavano più calore e stringevano con forza maggiore, inchiodandola sul materasso.
All’improvviso, udì un suono.
Sembrava vento. Un vento furioso, potente, scatenato contro di lei. Fu talmente tanto vicino da farle credere che le fosse finito addosso sbattendo violento, ululante come un qualcosa di feroce, arrabbiato e terribile; un urlo grottesco che si mischiò con quello del vento micidiale capace di schiacciarla contro il materasso.
In un fruscio impetuoso le lenzuola e il piumone si sollevarono, agitandosi come un mare in tempesta, lasciando le sue gambe scoperte, vulnerabili a ciò che le stava scagliando contro la sua rabbia.
Maledizione.
Lo sapeva, lo sapeva. Quel pomeriggio era successo qualcosa. Un’entità era entrata, agganciandosi disperatamente alla sua vita. Ed era lì, davanti a lei.
A quel punto, terrorizzata, paralizzata, Sarada aveva paura ad aprire gli occhi, perché non sapeva cosa avrebbe visto. Qualsiasi cosa con cui si fosse trovata ad avere a che fare era forte, travolgente e lei non sentiva più il letto circondarla: solo oscurità, oscurità e caos nelle sue orecchie, sul volto contratto dallo sforzo di non vedere e, allo stesso tempo, spalancare la bocca per urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Poi, all’improvviso, ogni rumore cessò.
Le coperte tornarono ad adagiarsi su di lei, quasi come se l’aria ora amorevole avesse deciso di sistemare il letto disfatto, mentre il suo corpo si afflosciò, abbandonando ogni tensione che l’aveva agganciato al materasso.
Solo allora Sarada aprì le palpebre, di scatto, trovandosi nella sua stanza avvolta d’oscurità, faticando a respirare. Annaspò, aprendo la bocca, con gli occhi sbarrati e le orecchie che quasi fischiavano in cerca di rumori, di altri respiri o passi.
Ogni ombra le sembrò più grande, capace di muoversi, subdola, creatura oscura acquattata in un angolo.
A tentoni cercò la luce sul comodino. La accese, faro di speranza in quel mare di nero, mentre il cuore come il respiro non smetteva di galoppare rapido, selvaggio, pronto a schizzarle fuori dalla gola.
Fu allora, in quel momento di assoluto silenzio, di stasi dopo tempestoso terrore, che... l’anta dell’armadio si aprì.
Un movimento lento ma inarrestabile, con il legno e i cardini che cigolavano, in un suono così definito da sembrare in grado di piantarsi direttamente nella testa.
Parzialmente rischiarata dalla luce giallognola, con le ombre che correvano rapide attorno a lei, Sarada vide la porta spostarsi. E gli occhi, allora, si dilatarono di più, inconsapevolmente, con la stessa progressiva disperazione di quell’anta.
Sarada non sentì ancora il cuore batte, le orecchie fischiarono più forte e la bocca si mosse appena, boccheggiando. Il corpo tornò a immobilizzarsi, incapace di muoversi o reagire.
Ebbe voglia di piangere, nemmeno di urlare, solo piangere e chiamare suo padre, ovunque egli fosse, per chiedergli di tenerla vicino e stringerla, dicendole che tutto alla fine sarebbe andato bene.
Non deglutì, non aveva saliva.
Improvvisamente sollevò le coperte e, con i piedi nudi, addosso una maglietta slargata di un gruppo riciclata da qualche concerto, Sarada corse.
Corse sul pavimento gelido, ma non così gelido quanto i suoi arti, poi giù per le scale, i gradini che sembravano scivolare e lamentarsi sotto il suo peso leggero eppure deciso, infine il salotto, ampio, con il tavolo, i libri e le poltrone.
Fu allora che con un movimento rapido qualcuno la prese per le spalle e la bloccò.
Lei fece per gridare qualcosa, sentendo il cuore esploderle e gli occhi secchi, incapaci di chiudersi, ma ogni parola le morì sulle labbra.
Intravide, nella penombra, il volto preoccupato e spaventosamente serio di suo padre.
Boccheggiò un istante, rendendosi scioccamente conto di non indossare gli occhiali, di avere freddo ed essere stanca, così tanto stanca, quasi avesse corso per valli, città e montagne.
“Papà…” sussurrò.
Poi, lo abbracciò.
Affondò nel suo petto asciutto ma definito, oltre il tessuto di un’anonima maglietta a maniche corte, al di sopra dei pantaloni scuri e larghi di una tuta, mentre i capelli scuri come i suoi emanavano odore di buono, di casa, di qualcosa capace di proteggerla.
Sasuke Uchiha non le chiese nulla. L’abbracciò a sua volta, avvertendo il cuore giovane, d’adolescente, rimbalzargli contro nella cassa toracica.
Infine le parole di sua figlia, rauche, schiacciate contro la spalla scaldata dal respiro bisognoso di riprendere a funzionare correttamente:
“Papà io… ho fatto un casino tremendo.”
Lo strinse più forte, come temendo che Sasuke andasse via.
Questi occhieggiò istintivamente i suoi libri, le ombre dei dorsi e dei titoli. Sospirò.
“Ora sono qui.”
Le disse a voce bassa. Si stupì di come per sua figlia, alla fin fine, sapesse ancora fare dei gesti d’affetto e protezione, dopo aver creduto di non esserne più capace.


*


Con le mani nella tasca del cappotto, Naruto guardò la casa appartenente a Sasuke e a sua moglie Sakura. Provò una fitta al petto, provocata dal dolore e dalla nostalgia: sembrava infatti fossero passati anni da quando Sakura li aveva lasciati, cessando la sua esistenza sulla Terra.

Lungo il viale avvertì un senso di pesantezza maggiore, segno che le cose stavano inesorabilmente procedendo come previsto.
Bussò alla porta di casa e dopo un istante gli venne ad aprire Sasuke. Aveva i capelli lunghi fino quasi alle spalle chiaramente non pettinati, nonostante la gravità contribuisse a tenere quella ribelle massa scura più o meno al suo posto.
In quell’istante, Naruto fu tentato di rassicurare Sasuke, di dirgli che tutto sommato aveva già ottenuto dei risultati, ma tacque, consapevole che parlando avrebbe rovinato ogni cosa, distruggendo quel mondo di auto-convincimenti che entrambi avevano contribuito a creare.
“Entra.”
Gli disse l’altro con un mezzo sorriso, intimamente felice di vedere il collega e amico storico.
Naruto si pulì i piedi su un tappeto perfettamente pulito e oltrepassò la soglia, guardandosi attorno con i chiari occhi azzurri attenti, come capaci di cogliere dettagli a cui Sasuke non aveva pensato.
“Credevo mi sarei lasciato questa merda alle spalle – disse improvvisamente Uchiha, mentre Naruto appendeva il cappotto – ma evidentemente il passato continua a ritornare. Sarada…”
L’amico lo guardò, sentendo il petto fargli male.
Dopo un istante, Sasuke proseguì: “Ha fatto entrare un’entità. Un’entità forte. Mi spiace coinvolgerti nuovamente ma non posso permettere che qualcosa di oscuro distrugga ancora la mia famiglia.”
L’uomo gli appoggiò una mano sulla spalla, i capelli biondi sembravano più luminosi investiti dal sole della mattina che filtrava attraverso le ampie finestre del soggiorno, il suo sorriso più incoraggiante e in qualche modo meno stanco:
“Se non fossi stato tu a coinvolgermi, Sasuke, ci avrei pensato io stesso. Insomma, sono pur sempre un medium, avrei percepito che qualcosa non andava.”
Per un istante, Sasuke colse uno sguardo diverso in Naruto, qualcosa che non comprese ma gli sembrava ugualmente che avrebbe dovuto. C’erano dei dettagli che gli sfuggivano e che non riusciva ad afferrare.
Si limitò a occhieggiare un istante la mano del medium, avvertendo il suo contatto deciso eppure capace di trasmettere il suo totale e incondizionato supporto.
Annuì, per poi fare un cenno con la testa a Naruto, invitandolo a seguirlo su per le scale che conducevano alla soffitta.
In quegli istanti di salita, gradino dopo gradino, i due uomini percepirono l’atmosfera cambiare, la luce farsi più fredda, come se un evento cosmico fosse stato in grado di togliere l’oro dai raggi del sole.
Faceva freddo, tipico di tutte le soffitte nelle giornate d’inverno, appendici dimenticate di un corpo incapace di distribuire il proprio calore.
Gli oggetti di Sarada, i suoi libri, i videogiochi, i cuscini colorati erano al loro posto, immutati nel tempo.
Naruto si guardò attorno, concentrato. Il suo sguardo finì sul cestino vuoto, poi si spostò sulla libreria; mentre Sasuke scrutava l’armadio chiuso, il medium afferrò d’istinto un blocchetto per gli appunti infilato tra i libri e lesse una frase scritta in maniera incerta.
Quando l’altro si voltò, di fretta Naruto nascose il taccuino in una tasca, finendo per incrociare gli occhi con Sasuke.
Questi domandò: “Senti niente?”
Naruto si morse un labbro. Aprì la bocca, fece per dire qualcosa ma… i muscoli del volto furono incapaci di articolare un suono concreto.
Sasuke lo vide esitare e, poi, il suo sguardo. Gli occhi azzurri non lo vedevano più, si erano mossi oltre, alle sue spalle.
Aggrottò le sopracciglia e sentì l’amico dire: “L’armadio. Dietro di te.”
Sasuke si voltò di scatto. E, in quell’istante, vide che l’anta si era aperta, senza emettere un suono o un lamento, come se il mobile fosse stato sempre in quel modo, ma lui non era stato in grado di rendersene conto.
“Naruto…”
Naruto, invece, non c’era più.
All’improvviso, non ci fu nemmeno più la luce.
Come in un palcoscenico, le luci si spensero, il sole tramontò, calando il sipario sulla soffitta e regalando invece la notte, con la penombra della luna.
Esisteva solo il silenzio, rotto dal respiro all’improvviso difficoltoso di Sasuke.
Con i sensi all’erta, egli si guardò attorno: non vide i contorni dei mobili tanto famigliari, nemmeno l’armadio che sembrava contenere al suo interno un pozzo d’oscurità capace di inghiottirlo, trascinandolo verso di sé.
“Dannazione.” Sussurrò, sentendo una paura incomprensibile cominciare ad attanagliargli la mente.
Aveva visto tante cose, nella sua vita: Cultisti invocare Antichi senza conoscere la portata distruttiva di ciò che avevano invitato su quel Piano dell’Esistenza, aveva avuto contatti con entità potenti, senza forma, inadatte per essere imbrigliate nella descrizione che un uomo poteva creare e riprodurre a parole.
Eppure, per del buio, per la mai troppo famigliare assenza di orientamento e di confini, Sasuke provò irrimediabilmente angoscia.
Un’angoscia che partiva dalla gola e stringeva le viscere, cordoni sanguinanti di paure primordiali, consapevole che in quella stanza, tra quelle pareti, c’era qualcosa di più grande della sua esperienza e della sua maturità di uomo.
Un fiotto di luce lunare si dipinse attraverso le finestre reclinate del tetto alto, scintillando quasi azzurra sul pavimento bianco.
Eppure Sasuke, incapace di battere ciglio, guardò l’armadio, che era rimasto aperto, notturno nel suo vuoto opprimente.
Fu allora che sentì bussare.
Un colpo, uno solo. Il suo cuore batté veloce nel petto.
Tese le orecchie, all’erta, come tutti i suoi sensi. Il rumore, nel silenzio assordante, sembrò più forte, come una martellata sulla tempia.
Il battito fu frenetico, quando Sasuke realizzò che chiunque volesse entrare, non stava bussando alla porta d’ingresso.
Voltò la testa e vide, parzialmente rischiarata dalla luce della luna, la porta bassa dello sgabuzzino.
Toc.
Un altro colpo. Netto, deciso, come se chiunque fosse dall’altra parte avesse diritto a entrare.
Toc.
Ci fu più forza e rabbia, quella stessa rabbia che aveva investito Sarada e la loro vita. Il cuore scalciò impazzito, il respiro accelerò.
Sasuke indietreggiò di un passo, occhieggiando le scale. C’era qualcosa che non andava, quella non era casa sua, c’era troppo buio e vuoto e… le formule. Quali erano le forumule? Perché, all’improvviso, sentiva di averle dimenticate?
Ritornò il silenzio. Interminabili, agonizzanti, secondi di silenzio.
Poi… dei passi, metallici: no, non erano solo delle gambe umane a toccare la terra.
Inconsapevolmente, Sasuke tornò a voltare lo sguardo verso la porta, incassata nelle pareti basse dello spiovente del tetto, l’immobilità del legno, reso più chiaro dalla luna.
Attese, smettendo di respirare.
Finché, all’improvviso, la porta vibrò; vibrò, colpita da qualcosa di più forte, di inumano, capace di contenere la rabbia di un tornado.
E i colpi… i colpi.
TocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocToc.
Rapidi, violenti, incessanti.
E il suo cuore, più rapido, veloce, Sasuke lo sentiva contorcersi e poi esplodere nel petto.
Un martello sull’asse di legno e sulle ossa del torace che vibrò, così come vibrò la serratura metallica e i cardini e la paura strisciante.
Il rumore era assordante, talmente totalitario da riecheggiare per la mansarda, tra i vetri e i mobili, riempendo le orecchie di Sasuke che indietreggiò, stordito, sopraffatto, la mente che sembrava non riuscire a collegarsi con il corpo.
Corse verso le scale, mentre il rumore continuava; qualcuno, qualcosa, l’entità bussava insaziabile del tempo dall’altra parte, pretendendo di entrare quando quella casa già gli apparteneva.
Sasuke scese in strada, ansimando, continuando a correre, i capelli schiacciati dal vento, rischiarati dalla luna e dai pochi lampioni del marciapiede. I suoi libri, i ricordi, ciò che aveva visto e provato erano stati inutili. Lui, senza Naruto, senza Sakura, era inutile. Si odiò per questo e per il sentimento di terrore che non voleva andarsene.
Corse, per poco non inciampò in un deambulatore abbandonato, oltrepassò un incrocio, un cassonetto dal quale fuggì un gatto e arrivò al fondo della strada, dove vide un’ombra.
Che riconobbe.
Naruto.
Lo sapeva, sapeva che si sarebbero ritrovati.
Camminò più piano, ma a falcate decise, navigando sui marciapiedi dissestati, fino ad arrivare davanti al medium che sembrava così fastidiosamente calmo, mentre lui non aveva mai sentito il proprio cuore battere così forte, al punto da fargli provare l’impulso di odiarlo e poi desiderare stringerlo, per attingere dalla sua forza e sentirsi più vivo.
Gli afferrò il bavero della giacca e lo piegò, portando la faccia dell’amico a pochi centimetri dalla propria; gli sussurrò con rabbia letale, il respiro che faticava a normalizzarsi:
“Dov’eri? Dove cazzo eri?”
Naruto non indietreggiò, né lo spinse via, lo afferrò invece per un polso e gli disse:
“Scusami, Sasuke. Non sempre riesco ad avere il controllo su quello che mi circonda. Ma ora sono qui e intendo restare. Andiamo, ti accompagno in macchina.”
Una parte di Sasuke fu confusa, confusa da quelle parole e dalla determinazione che c’era dietro. Sentì che avrebbe dovuto domandargli quale fosse la loro destinazione, ma allo stesso tempo percepiva anche che doveva ciecamente fidarsi di Naruto e lasciare da parte l’orgoglio, per farsi guidare.
L’unica cosa che fece, una volta salito in macchina, fu afferrare il medium per il braccio e fissarlo negli occhi, ribadendo:
“Io devo proteggere Sarada, Naruto. Devo combattere qualsiasi cosa sia entrata nella mia casa e l’abbia resa sua.”
“E’ per questo che sono qui. Per aiutarti a proteggere Sarada, ma anche te stesso. Andiamo a cercare le risposte che ci servono e a chiudere per sempre questa faccenda. Assieme.”
Sasuke annuì, con un cenno del capo.
Poi si allacciò le cinture e Naruto avviò il motore, immettendosi nella strada buia.


*


Parcheggiarono sul vialetto che dava accesso a una villetta di dimensioni modeste, con un piccolo appezzamento di terra dove c’era qualche albero privo di foglie; più in lontananza, una siepe recintava il giardino tinto da colori invernali e dall’uniformità della notte.

Sasuke scrutò la casa. Qualcosa nella memoria gli riecheggiò un vago ricordo, ma nulla di più. Naruto lo guardò un istante poi gli disse, prima di avviarsi e fare strada:
“Da qui in avanti… non posso prevedere come andranno le cose, ok? Ma ci sarà un momento, un momento ben specifico, in cui dovrai tornare indietro. Per allora io ti dirò cosa fare.”
Sasuke assottigliò gli occhi, aggrottando le sopracciglia così da indurire lo sguardo tagliente:
“Cosa stai dicendo? – all’improvviso, una consapevolezza – C’è qualcosa che tu sai e di cui io non sono a conoscenza. Cos’è? Dimmelo!”
Alzò il tono di voce, spezzando il silenzio della strada, persino il lontano ronzio dei lampioni e del motore della macchina a riposo.
Naruto si morse un labbro, per poi scuotere la testa:
“Nulla Sasuke, non so davvero nulla. Sento solo che accadrà quanto ti ho detto, niente di più – gli afferrò un braccio – dobbiamo entrare.”
Se aspettiamo ancora… sarà troppo tardi.
Sussurrò una voce dentro di sé.
Per qualche istante ancora Sasuke fissò l’amico e collega storico, scrutandone gli occhi onesti e persino preoccupati, nonostante in fin dei conti il medium si fosse ritrovato coinvolto in quel casino per colpa sua. Alla fine annuì, assottigliando impercettibilmente le labbra.
La porta d’ingresso era illuminata dalla luce giallastra di una lampada appesa al muro bianco, mentre il legno era stato verniciato di recente, anche se c’erano dei segni simili a nocche affondate nell’apparentemente robusto pannello.
Affiorarono altre perplessità, ma si conclusero nel nulla. Era come se la sua testa si fosse sigillata in qualcosa di profondo e altrettanto oscuro.
Vide un campanello, il cui cognome era stato cancellato.
Suonò e ne uscì un trillo meccanico.
Attesero qualche istante, Naruto con le mani nella tasca del cappotto e i loro respiri che si mischiavano nell’aria notturna, soffocati dalla luce elettrica.
Poi, la porta si aprì.
E Sasuke credette di essere morto, perché il suo cuore aveva smesso, per un istante durato minuti, di battere.
Guardò la donna davanti a sé, i suoi occhi, il volto, le mani che sparivano sulla maniglia dietro la porta.
“Sakura.” Disse in un soffio.
Sua moglie.
Ma sua moglie era morta, anni fa.
Si voltò verso Naruto, come se gli avesse architettato uno scherzo elaborato, ma vide perplessità nel suo sguardo, anche se non la stessa sensazione di tragedia e sconvolgimento che avvertiva Sasuke.
Rimase immobile, apparentemente inespressivo, mentre i suoi occhi scuri dardeggiavano sulla figura in piedi presso la soglia d’ingresso. I capelli ribelli con quell’eccentrica ma tenue tinta rosa, gli occhi verdi carichi di energia vitale, le guance leggermente accaldate di chi aveva letto un libro vicino al camino, studiando, mentre lui ogni tanto la guardava. Ricordava, sì, ricordava distintamente quanto lui aveva amato il suo sguardo curioso, nel momento in cui smetteva di leggere che chiedeva a Sasuke se avesse inventato qualche nuovo gioco di parole, un rebus, un enigma, prova del suo genio elettivo.
“Sei…”
Viva.
Non riuscì a dirlo. Era una parola troppo forte e lui, così razionale nonostante tutto, incapace di emotività caotica come Naruto, era destabilizzato.
Sakura gli sorrise:
“Dai, entrate, non state fermi sulla porta.”
In lontananza, Sasuke avvertì un ticchettio metallico sull’asfalto ma non ci fece caso, troppo intento a scrutare la moglie, la sua presenza, i suoi gesti. Naruto, invece, si era voltato, occhieggiando la strada all’apparenza deserta, per poi entrare a sua volta in casa e chiudere la porta alle sue spalle con uno scatto secco.
La donna li condusse oltre il breve corridoio d’ingresso – camminando sul pavimento per un istante Sasuke ebbe l’impressione di appoggiare il piedi su qualcosa di liquido, ma non capiva come fosse possibile. Proseguirono fin verso una cucina dalle finiture eleganti e un’isola al centro, dove c’era un infusore con del the bollente e delle tazze. Come lei se li stesse aspettando.
Sakura si posizionò dietro l’isola, invitando i ragazzi a sedersi sulle sedie alte dal lato opposto.
Perplessi, spinti da qualcosa, si sedettero entrambi, incapaci di parlare. Sasuke aveva uno sguardo serio, riflessivo, mentre la sua testa gli mandava impulsi, ricordi, dolorosi e splendidi di quella che era stata la sua vita con Sakura.
Quest’ultima, intenta ad avvicinare le tazze, lo guardò negli occhi e osservò con voce serena:
“Dev’essere stata una notte pessima. The? – domandò e i due uomini annuirono, senza smettere di fissarla, poi lei aggiunse con voce intrisa di una sorta di malinconia – Lo prendevamo sempre quando discutevamo dei nostri viaggi, delle scoperte e degli studi. Anche se a volte io e Naruto ti coinvolgevamo in campi che non ti riguardavano.”
Sorrise, guardando suo marito.
Ricordò… sì, ricordò che Sakura sarebbe stata un’eccellente esperta d’occultismo; o forse, forse lo era già?
Però rammentava con certezza il the, l’odore che scaturiva dalle foglie in infusione, le parole scambiate assieme al tavolo e poi vicino al camino, il modo in cui lui entrava a conoscenza di tutto ciò che sua moglie aveva fatto e compiuto.
Cose che avrebbero devastato chiunque, ma non Sakura. Era forte, determinata e combattiva. Forse era per questo che era ancora in vita e gli parlava, capace di attingere al passato meglio di lui.
Sasuke guardò la tazza di the e sfiorò, senza rendersene conto, le dita della moglie che gli sembrarono così calde da poter essere fuoco e vita, racchiusa sottopelle.
“Non ho mai parlato abbastanza con te, Sakura.” Ammise alla fine.
Sentì le spalle farsi più pesanti, schiacciate dalla consapevolezza della sua inadeguatezza come marito e come essere umano, incapace di dare un affetto schietto e sincero alla stregua di Naruto.
“Mi hai parlato più di quanto tu creda, salvandomi. Perché ogni volta che ti vedevo, che mi guardavi sussurrandomi in un gesto quanto ti fossi mancata, mi riportavi a casa.”
“Perché allora non sei a casa? Perché… qui?” domandò di getto Sasuke. Ci fu una nota di disperazione e quasi di apparentemente immotivata nostalgia.
Sakura sembrò più triste. Ma nei suoi occhi c’era amore, nonostante tutto.
Sospirò, per poi dire con voce calma:
“Non sarà facile, da ora in poi. Però… proteggi Sarada, Sasuke. Proteggila e tienila al sicuro, perché il mondo, la fuori, è pieno di orrori.
Sasuke si alzò in piedi. Fece per prenderle il braccio, per parlarle ancora, spinto dall’impulso di stringere quella donna che credeva di aver perso per sempre e non c’era giorno, non uno, in cui smettesse di mancarle.
Ma Sakura si portò le mani sulla testa, una alla base della mandibola, l’altra all’altezza della tempia, in una torsione fluida delle braccia.
Gli sorrise.
Poi… fece uno scatto. Uno solo, rapido, violento e pulito nella sua velocità: con le sue stesse mani, senza smettere di guardare Sasuke, Sakura si spezzò il collo.
Un rumore di ossa rotte, di legami infranti, la colonna vertebrale scricchiolante e calpestata come briciole su un pavimento. La vita, oltre gli occhi spenti che fissarono il vuoto.
Il corpo, inanimato, cadde. La fronte, priva di sostegno, sbatté contro l’isola intonsa della cucina, in un tonfo sordo, inumano, schizzando sangue dal naso e dalle ossa spaccate; poi un altro tonfo ancora: il corpo, crollato a terra.
Sasuke aveva rovesciato la tazza, il the bollente, il fumo del vapore, nel tentativo istintivo di raggiungere Sakura e fermarla, per riportarla a sé. Ma... non c’era riuscito.
Sakura si era tolta la vita, in un gesto rapido, brutale, senza dargli tempo o possibilità di rimanere ancora lì.
Il the gocciolava, mentre Naruto al fianco di Sasuke era scattato in piedi, trascinando la sedia a terra.
“No.” Disse solo Sasuke.
Poi girò in uno scatto l’isola, affondò le dita tra i capelli rosa di Sakura, dietro il collo, per sostenere un peso inanimato, mentre gli occhi verdi che prima gli avevano regalato dei ricordi fissavano il vuoto e le guance accaldate avevano smesso di pompare vita, rigate dal sangue della fronte.
Sua moglie, la sua compagna, era morta e lui non poteva più raggiungerla.
Sasuke le chiuse gli occhi. Le asciugò con la manica della maglia il sangue, in un gesto quasi meccanico, poi si alzò in piedi, mentre la sua mente logica si avviava per pensare alla mossa successiva, a coprire il corpo, a chi contattare, nonostante il dolore e il caos che gli faceva salire un violento senso di nausea, alimentato dall’odore di sangue e della morte.
Allora… ci fu un rumore metallico.
Sembrava di passi, di qualcosa che avanzava sul vialetto asfaltato, strascicando un peso inutile.
Un istante di silenzio; Sasuke guardava Sakura, Naruto invece fissava la porta, senza battere ciglio.
Toc.
Un colpo netto.
Naruto sussultò.
Sasuke si voltò di scatto. Quel rumore.
Istintivamente gli occhi di Sasuke cercarono quelli di Naruto che, per contro, aveva mosso un passo avanti.
“Fermati!” gli gridò Uchiha.
Il medium sembrava afflitto: “Mi spiace, Sasuke. Mi spiace davvero. Ma devo aprire o… non finirà mai.”
“No! Smettila! Quel suono era anche a casa, tu… tu non sai con cosa hai a che fare!” gridò, quasi minaccioso, per poi correre e bloccare l’amico.
Ma questi non lo ascoltò.
Spalancò la porta, di scatto.
Sotto la luce gialla, malata, un’ombra.
Un uomo, incurvato, accartocciato su se stesso, il volto rugoso, scavato, consumato da qualcosa. Le mani callose deformate forse dall’artrite erano strette su un deambulatore metallico, mentre gli occhi… gli occhi erano bianchi, vacui, senza pupilla.
“Ward. Charles Dexter Ward.”
Sasuke nemmeno si rese conto di aver aperto la bocca e pronunciato quelle parole.
L’Africa.
Lo assalì un forte odore di sigaro. E poi… di putrefazione, di qualcosa proveniente dalle viscere di un cadavere assalito dall’abbraccio della terra umida.
La nausea lo assalì con più forza e l’odore, quell’odore di morte, che sovrastava quello dolciastro emanato da Sakura, gli aggredì le narici.
Non era vecchio, l’uomo sulla porta. Era consumato, marcio, al di sotto della pelle sottile che sembrava sgretolarsi alla luce gialla della lampada.
Ward rantolò, una sola volta.
Non emise una parola.
Poi, lentamente, avanzò. Un passo, seguito dal clack metallico del deambulatore sul pavimento.
Entrò in casa e le luci si abbassarono, il the smise di gocciolare, la lampada all’ingresso si spense. Un alone lunare, poi… il buio.
Le mani dell’essere si avvinghiarono più forte. Piegarono il metallo, lo torsero, flettendolo come se ci fosse un peso impossibile da reggere. Le unghie non tagliate, sporche, affondarono fin dentro la pelle dei palmi rugosi, macchiati, con una leggera peluria bianca intinta dalla luce lunare.
Poi la bocca si aprì, priva di denti e tirò fuori una lingua, malata, coperta da una patina biancastra.
L’uomo rimase immobile. Sasuke non indietreggiò di un passo e nemmeno Naruto, anche se il cuore batteva troppo forte e respirare era difficile, per l’odore e per un terrore ancestrale, lontano, profondo che attanagliava le viscere.
La memoria di Sasuke ricordava immagini sempre più nette, di un orrore indescrivibile, vicino, più vicino nel tempo di quanto avesse creduto.
All’improvviso… ricordò. Ricordo che quell’uomo aveva accompagnato Sakura in Africa, era con lei, in quel villaggio. E qualcosa, c’era qualcosa di antico, che l’uomo non era mai riuscito a tramandare.
Lui… l’aveva uccisa.
Ed era dentro quel corpo marcio, cadente, dentro quella lingua bianca come coperta di muffa, dentro i bulbi oculari vacui di gelatina e acqua.
“Che cosa sei? – gridò Sasuke, all’improvviso – Me l’hai già portata via! Non avrai più nessun altro!”
La voce era minacciosa, altrettanto oscura e attaccata alla vita.
Naruto, con le mani tremanti, la testa spaccata da un dolore acuto, tirò fuori il taccuino, quel taccuino che era stato suo tutto quel tempo. Cercò la pagina, frenetico, in un mare di fogli bianchi.
Ma colui che un tempo era stato Charles Dexter Ward, rinomato esperto di esoterismo, aprì di più la bocca. In quell’istante, la lingua si staccò: cadde a terra, liquida, schiantandosi sul pavimento.
Poi un lamento, continuo, basso, che crebbe fino a diventare un urlo.
All’improvviso quel corpo emaciato, incapace di reggersi sulle proprie ossa di polvere eppure in grado di schiacciare il metallo, abbandonò la presa, con i palmi feriti dalle unghie coperte di sangue, e in uno slancio animale, terribile, distorto nell’angolazione delle giunture e dei movimenti, scattò verso Sasuke, investendolo.
Uchiha cadde a terra, sbattendo il braccio contro la penisola, e si sentì addosso le mani dalle unghie lorde di sangue e la carne squarciata: gli graffiavano il volto, cercando di entrargli dentro, fin nella testa, divorandogli gli occhi e il cuore.
Venne inondato da un alito di morte e sopraffatto da urla inumane, fatte di vento e odio, capaci di schiacciarlo e di coprire ogni altro suono.
Sentì Naruto chiamarlo, dirgli di combattere, esortarlo perché lui non era ancora morto, lui doveva tornare e proteggere Sarada, la sua famiglia, ciò che aveva. Era quello che avrebbe voluto Sakura. Era il suo amore di padre.
Sasuke urlò a sua volta, poi contrasse i denti, ignorando l’odore di morte, l’idea del Male che lo stava attanagliando, le ferite che gli scavavano il volto e il terrore nel petto.
“Non mi avrai! Non toccherai mia figlia!”
Non sentì nemmeno la sua stessa voce.
Sollevò le mani e le affondò sul cranio della creatura; sotto i suoi polpastrelli, avvertì la pelle marcescente muoversi, tendersi e spaccarsi, i capelli che perdevano la presa sul cuoio capelluto, poi la scatola cranica, gli occhi bianchi più sgranati, la bocca priva di lingua che perdeva saliva e sangue.
Infine, in un movimento disperato, carico di violenza, Sasuke sbatté quella testa a terra: la schiantò sul pavimento, schizzando sangue; una massa oscura, dall’odore rivoltante si frantumò a terra assieme alle ossa craniche.
Sasuke ansimò, rantolò, udendo sopra i battiti del cuore il suo respiro affannato e quello di Naruto. Paralizzato, con ancora tra le mani ciocche bianche di capelli, fissò quell’orrido residuo di essere umano che giaceva a terra, gli arti scossi in un ultimo spasmo di morte.
Sakura, alle sue spalle, era riversa a terra priva di vita.
Sanguinante, sporco, sconvolto ma soprendentemente razionale, Sasuke cercò di alzarsi in piedi. Naruto arrancò verso di lui per sorreggerlo e tenerlo stretto a sé.
“Devo tornare, Naruto. Io… devo tornare.” Gli disse d’istinto, guardandolo fisso.
Dei secondi, passarono degli interi secondi.
Respirarono più piano.
Poi, all’improvviso, l’oscurità sembrò espandersi. La luna smise di irradiare la sua luce e la notte fu più fredda. Ombre dagli angoli della cucina iniziarono a scivolare sul pavimento, circondando seducenti i due uomini, in un abbraccio fatto di spire notturne.
Naruto occhieggiò il taccuino, lasciato sull’isola per sorreggere Sasuke. Lasciò l’amico e afferrò il blocco, per poi girarlo e portare agli occhi dell’uomo le parole scritte con la calligrafia incerta di una mano non abituata a scrivere o… in stato di trance.
“Non... non è la scrittura di Sarada.” Disse in una lucidità incomprensibile Sasuke. Perché era Sarada ad aver evocato lo spirito. Era lei ad aver scritto, giusto?
All’improvviso, non ne fu poi così certo.
“Non c’è tempo adesso, Sasuke – gli disse Naruto – le parole, leggile.”
L’latro fissò un istante l’amico, mentre le ombre si avvicinavano, inesorabili. Sentì un nuovo vago rumore, come di zampe, di tante, minuscole, infinite zampe. Erano nei muri, sui soffitti, sotto il pavimento.
“Nulio… bonus omoreo.”
Tacque.
Naruto ansimò, guardandosi attorno. Ma con suo orrore si rese conto che non stava funzionando. Quelle parole… quelle parole, dannazione, non andavano bene.
“No, no, cazzo, no.” Mormorò scuotendo la testa.
Rigirò il blocchetto, guardandolo, poi fu colto da una folgorazione.
Afferrò Sasuke per una spalla. Le ombre avevano divorato Sakura, facendola sparire nel buio più totale. Pochi centimetri e sarebbe toccato a loro.
“Un anagramma. Sasuke, tu adori i giochi di parole. Dev’essere un dannatissimo anagramma, così funziona la tua testa, non rende mai le cose semplici – gli riportò il blocchetto sotto gli occhi – pensa, pensa a ricreare le parole. Cosa vogliono dire?”
Aveva parlato con tono concitato, il respiro affannato, il cuore che scalpitava per il terrore e il tempo che correva, veloce, inesorabile, al pari delle ombre, delle zampe dei ratti nei muri e della morte che li voleva trascinare con sé.
Sasuke espirò attraverso le labbra. Lesse, rilesse e lesse ancora quelle parole.
Quando? Quando aveva fatto quell’anagramma? Perché?
Smise di pensarci. Una parte di Naruto, la schiena, venne avvolta dall’ombra. Lo strinse, come per trascinarlo verso di sé.
Gli sfrecciarono per la testa mille parole, significati, combinazioni.
Poi, all’improvviso, lo seppe. Seppe cosa doveva dire.
Sono un uomo libero.
Lo disse con voce decisa, senza esitazione e il suono di quelle parole riecheggiò nell’oscurità che aveva assorbito ogni altro suono.
Infine, ci fu il nulla.


*


Sasuke aprì gli occhi. Cercò di mettere a fuoco la vista annebbiata, sentendosi le labbra secche, la salivazione assente e un forte senso di nausea. Vide Naruto seduto davanti a sé e allora prese consapevolezza del proprio corpo, rendendosi conto di essere sdraiato su un divano.

Spostò stancamente lo sguardo: scorse sull’orlo imbottito e poi sicuramente a terra una massa scura che sembrava vomito, poco distante un blocco per gli appunti usurato. Avvicinò un dito alle labbra, avvertendo qualcosa di rappreso vicino alla bocca: fu allora che realizzò di essere sporco di sangue, le mani, il petto, persino i pantaloni.
Provò ad alzarsi e una fitta alla testa lo fece ricadere, portandolo a chiudere un istante gli occhi.
“Dove… dove sono? Sarada sta bene? E Sakura...”
Non riuscì a parlare oltre, aveva sete e la gola, lo sentiva, era un disastro.
Naruto gli afferrò un braccio, per poi dirgli con quel fare rassicurante e vitale che aveva:
“Sei tornato, Sasuke. Sarada sta bene, è con Boruto – dopo un istante aggiunse – è sempre stata con Boruto.”
Uchiha riaprì gli occhi e, inarcando un sopracciglio, scrutò il volto dell’amico. Lo vide segnato da delle occhiaie, era stanco e provato, ma in qualche modo stava sorridendo.
Lentamente si mise seduto, ignorando il senso di malessere ed estrema spossatezza, per spostarsi sul ciglio non sporco e appoggiare i piedi a terra.
All’improvviso l’ambiente gli sembrò famigliare: vide il corridoio e dalla parte opposta una cucina con un’isola. C’era odore di morte, quello era rimasto, esattamente come era successo... quando? Quella notte? Albeggiava. Aveva sognato?
Si portò una mano tra i capelli, confuso, stanco, la testa vorticante e mille pensieri, immagini, orrori che gli affioravano in testa. Naruto lo afferrò per le spalle, chinandosi per arrivare alla sua altezza.
“Sasuke, ehi, guardami.”
Questi lo fissò, con la bocca secca chiusa e gli occhi spiritati.
“Qualcosa... qualcosa è entrato, Sarada ha evocato qualcosa e... Sakura è morta.”
Vide che Naruto aveva il volto sudato, gli occhi affossati da pesanti occhiaie erano arrossati, come di chi avesse pianto e gridato.
All’improvviso, le mani di Naruto scivolarono dalle spalle alla schiena dell’amico, per stringerlo in un abbraccio. Sasuke, poco abituato al contatto anche con l’amico di sempre, per un attimo rimase interdetto da quel gesto quasi disperato, come di chi avesse bisogno di sentire che erano ancora vivi entrambi.
“Ho fatto tutto quello che era in mio potere.”
Gli disse, appoggiando la fronte sulla sua spalla, quasi come se si stesse confessando e Sasuke potesse in qualche modo giudicarlo, dopo ciò che aveva visto e fatto.
L’uomo dai capelli scuri, sporchi per il sudore esattamente come quelli più corti e spettinati di Naruto, si limitò ad annuire, appoggiando una mano sulla testa dell’amico, in un sacrale gesto di perdono. Anche se non c’era nulla, davvero nulla da perdonare.
Forse era realmente un sogno, profondo, devastante. Si alzò in piedi, sentendo i muscoli doloranti e pesanti. Poi prestò più attenzione, anche se in maniera vaga, confusa, a ciò che lo circondava e vide dei libri accatastati in maniera un po’ disordinata, poi delle porcellane tenute con cura da qualcuno che amava, infine delle fotografie nelle quali Sasuke si riconobbe, accanto al migliore amico e a Sakura. C’era nuovamente Naruto, assieme a una donna dai capelli scuri, lisci e lunghi… Hinata, lei era Hinata. Accanto, i due figli, ricordò anche loro.
“Questa è casa tua.”
Ammise alla fine Uchiha, voltandosi verso il medium che nel frattempo si era alzato in piedi a sua volta.
“Sì, è casa mia. E’ sempre stata casa mia.”
Sasuke mosse un passo verso di lui e gli prese la maglia sporca; lo realizzò solo in quel momento: anche quella di Naruto era coperta di sangue, sebbene l’uomo non fosse ferito.
“Perché Sakura era a casa tua? Cos’hai fatto?”
Sibilò, con la gola che faceva male, quasi come se avesse urlato fino a gettare fuori i polmoni.
Naruto sembrò arrabbiarsi e la rabbia andò a mischiarsi con la tristezza. Afferrò Sasuke per il polso della mano con cui lo teneva, ribattendo:
“Davvero non ricordi nulla di ciò che è veramente successo? – poi, nel vedere gli occhi vuoti, persi nonostante l’ombra di serietà così tipici di Sasuke, Naruto allentò la presa – Sakura è morta e nessuno di noi ha potuto evitarlo. Ma ho rischiato di perdere anche te; non potevo permetterlo, capisci?”
Sasuke a sua volta allentò la presa e guardò l’amico, i suoi occhi, il volto, il modo in cui la luce dell’alba andava a plasmare le ombre e poi i colori della sua pelle.
Vide dei bicchieri sul tavolino di fronte al divano, ancora fieramente non rovesciati nonostante il mobile fosse stato bruscamente spostato; c’erano anche delle ciotoline con delle arachidi e delle patatine, quasi si stesse festeggiando qualcosa di bello.
Lentamente, affiorarono altri dettagli, memorie e immagini, l’idea di qualcosa di felice, assieme, di un ritorno e poi… l’imprevedibilità della vita. E del Male.
Allora, Sasuke Uchiha ricordò. Com’era morta sua moglie e come aveva rischiato di perdere se stesso.


*


L’aria sapeva di cibo, di aperitivo, accompagnata da un vago odore di profumatore per ambienti che di tanto in tanto spruzzava la sua scia floreale nella stanza.

Naruto aveva appena finito di controllare l’arrosto in forno, le patate erano dorate e Hinata aveva portato di là qualche salatino da spiluccare in attesa che fosse pronto, davanti a un bicchiere di vino. Ascoltava le chiacchiere di Sakura, intenta a raccontare la loro ultima spedizione voluta dal governo.
In piedi, con una spalla appoggiata allo stipite della porta che dava sul soggiorno, Naruto notò il modo in cui Sasuke, dietro i suoi silenzi, lo sguardo apparentemente distaccato, osservava sua moglie. E fu felice di leggere amore, nei suoi occhi.
Mentre Sarada intimava a Boruto di non strafogarsi, per poi scoppiare a ridere nel vederlo coperto di briciole sul mento e sul petto.
Nel frattempo, Sakura narrava delle tribù presenti nel cuore dell’Africa, delle loro tradizioni ritualistiche che aveva osservato come antropologa e, con maggiore discrezione, come esperta in esoterismo assieme al suo collega Charles che doveva ancora arrivare. Raccontava dei villaggi, dei loro modi di vivere e degli sciamani, zoppi, esiliati, eppure parte intrinseca della società: su di loro cadevano le maledizioni, così come le richieste, le paure e i sacrifici. Rappresentavano una connessione con la Natura, con ciò che l’Uomo non poteva vedere, né percepire, anche se a volte quel Nulla, l’Inafferrabile per mente umana, lo scavava dentro, fin nelle viscere e fin nella la testa.
Era stata un’esperienza sconvolgente, li aveva segnati, ma soprattutto aveva segnato Charles che durante la marcia di ritorno attraverso una giungla dagli alberi alti, così fitti da non far vedere il cielo, aveva preso una storta. Poi, inspiegabilmente, avevano realizzato che la caviglia era fratturata, sconquassata, come se l’uomo, cadendo, fosse stato afferrato per il piede da qualcosa che gli aveva sbriciolato con una presa inumana le giunture.
La conversazione lentamente si estinse. Ciascuno guardava i propri bicchieri e non sapeva cosa leggervi; Naruto sospirò, abituato ad avere a che fare con i casi paranormali portati alla sua attenzione da Sakura e Charles. Da una parte era rammaricato di non essere potuto andare con loro due in Africa, dall’altra sapeva che probabilmente ne sarebbe uscito cambiato: gli spiriti e le entità provenienti dal cuore del mondo erano antiche, capaci di devastare anche una mente recettiva e temprata come la sua.
Spostò nuovamente il suo sguardo su Sasuke, silenzioso ma capace a modo suo di ascoltare; il professore di matematica più geniale di sempre, dotato di un’intelligenza sopra la media e con una passione per l’enigmistica che a volte sconfinava nel masochismo, quando per esasperazione finiva a dover spiegare procedimenti secondo lui perfettamente logici a quel testone del suo amico Naruto. Eppure, nonostante né l’esoterismo, né l’antropologia o il paranormale fossero decisamente il suo campo, conosceva praticamente ogni dettaglio dei viaggi e degli studi che avevano portato avanti sua moglie e i colleghi.
Naruto sorrise, felice per quel momento di ritrovo.
In quell’istante, qualcuno bussò alla porta. TocTocToc. Preciso, persino ritmico nella sua cadenza ponderata. In seguito ci fu un trillo meccanico, rasposo nei suoi suoni metallici. I presenti sussultarono, per poi scambiarsi un’occhiata perplessa.
Sakura si alzò in piedi, portandosi le mani ai fianchi:
“Sarà quel ritardatario di Charles – Naruto fece per andare ad aprire, ma lei lo anticipò – stai tranquillo, sei stato a preparare fino ad adesso, ci penso io.”
“Ok, ok, ma solo perché per una volta mi chiedi una cosa gentilmente.” Scherzò Naruto, per poi avvicinarsi alla moglie che ridacchiò.
Sakura gli fece una linguaccia, poi corse ad aprire la porta, contenta che anche Charles si fosse unito alla cena, nonostante in quei giorni l’avesse visto sempre più provato e smagrito. L’Africa, quello che avevano visto, l’aveva invecchiato e la caviglia non era ancora tornata a posto.
Fu allora che, quasi senza rendersene conto, Naruto scattò in piedi, la mente travolta da qualcosa di oscuro.
Sakura vide gli occhi, lo sguardo, di Charles Dexter Ward.
Ma Charles Dexter Ward non vide lei: dell’uomo che era stato, infatti, non esisteva più traccia. Era morto, e camminava, trascinato dalla Morte stessa.


*


Naruto aveva guardato Sasuke, scattando in piedi. Recettivo, l’uomo si era alzato e nel sentire la moglie aprire la porta corse, per fermarla, non sapeva nemmeno lui per quale istinto.

Il medium invece aveva afferrato Hinata per le spalle, mentre la testa gli stava esplodendo per il male e l’oscurità opprimente che cercava di lambirgli il cuore:
“Hinata andatevene, ora! – lei cercò di dire qualcosa, ma l’uomo le parlò sopra – non c’è tempo, porta i ragazzi dai tuoi. Correte verso il retro.”
Sentì un sussulto, dei passi metallici e poi un tonfo. Le parole di Sasuke, piene di rabbia primordiale, poi qualcosa che sembrava una colluttazione. Sarada urlò e fece per scattare, imitata da Boruto, ma Naruto li bloccò, furente, come mai lo avevano visto:
“No! Fate come vi ho detto, dannazione! La porta sul retro, ora!”
Li spinse, con disperazione e istinto di protezione, e loro malgrado, terrorizzati, confusi, Sarada e Boruto passarono attraverso la lavanderia che dava sul retro, seguiti da Hinata che teneva per mano la figlia minore scoppiata a piangere.
Si guardarono, moglie e marito, per poi separarsi.
Pochi minuti, ed era accaduto così tanto.
Naruto si rese conto, entrando nel corridoio di casa propria, dove fino a poco fa Sakura camminava, sorrideva e parlava, quanto il tempo fosse subdolo.
Perché ora davanti a sé aveva Sasuke, con le mani sporche di sangue, che respirava affannato, mentre teneva con il palmo la testa di colui che un tempo era stato Charles Dexter Ward, il cranio schiacciato da ripetuti colpi contro il muro. Il deambulatore era finito a terra.
Ai piedi di entrambi c’era Sakura, con il collo spezzato in una posizione innaturale, gli occhi che guardavano il vuoto.
“Me l’ha portata via!” urlò Sasuke.
Fece per tirare ancora indietro la testa e frantumare ciò che rimaneva del capo contro la parete sporca di sangue, ossa e materia cerebrale, ma Naruto lo bloccò, gli occhi sgranati, la respirazione assente, un senso di nausea che gli faceva venire voglia di vomitare anche l’anima.
C’era un odore di morte, un senso di marcio nauseabondo, antico, persino secolare, mischiato a quello di sigaro, come se il cadavere di Ward stesse fumando un’ultima volta.
Poi Sasuke spinse via Naruto, lo allontanò, e per un istante i suoi occhi furono bianchi, vacui, senza l’iride scura. Cadde in ginocchio, portandosi una mano alla testa.
Quel male, quella morte… erano lì, nella sua casa.
Sakura era morta, uccisa da quel qualcosa proveniente da lontano, dalle foreste indigene, da rituali e sacrifici ancestrali, che loro si erano trascinati dietro, nel corpo morente di Ward, per bramare la vita di Sasuke.
Avvolto da quel dolore e da quella consapevolezza, Naruto lottò. Non aveva potuto difendere i suoi amici, la sua famiglia, da ciò che li aveva travolti, ma avrebbe salvato Sasuke. Non avrebbe lasciato che qualsiasi entità fosse entrata nelle sue mura, prendesse anche il suo migliore amico.
Lo afferrò per le spalle e lo trascinò di peso fino al divano, scostando il tavolino con un calcio.
Lo costrinse a stare sdraiato, nonostante il male e la forza oscura che cercava di possederlo tentassero di farlo andar via, lontano, da chiunque come Naruto fosse in grado di avere un così eccezionale controllo psichico.
“Sasuke! – gli urlò, bloccandolo, vedendo i suoi occhi che ogni tanto tornavano a essere bianchi – ora ascoltami! Ascoltami, okay? Sverrai ed entrerò in contatto con te, con la tua coscienza. Mi segui?”
Sasuke annuì a fatica, mordendosi un labbro a sangue, per poi chiedergli quasi in un ringhio di sbrigarsi.
Il medium scattò verso la libreria, afferrò di fretta una penna e un blocco per gli appunti, poi aggiunse, mettendo gli oggetti tra le mani:
“Entreremo in una proiezione del tuo mondo, della tua coscienza. Dovrai produrre qualcosa, un ricordo, un’immagine plausibile: se la tua mente razionale realizzerà che tutto ciò che stai immaginando non è reale, perderai il contatto con la coscienza e non potrò aiutarti a vincere qualsiasi cosa stia tentando di prendere possesso di te. Arriveremo a trovare il fulcro dove si annida l’entità, il tuo punto più forte ma anche più debole: farà leva sulle tue paure, per uccidere la tua coscienza.
Finché non troverai l’entità non puoi tornare indietro, né concederti dubbi o è finita.”
“Come faccio a tornare?” domandò.
Sentì le forze cominciare a mancare e il sonno… erano sempre stati così magnetici, forti, totalitari gli occhi di Naruto?
“Un codice. Il tuo subconscio produrrà delle parole che dovrai pronunciare, nella trance le scriverai su questi fogli. Ma non le potrai dire finché non sarà il momento: le custodirò io per te.”
Non batté ciglio, fino a quando Sasuke chiuse gli occhi. Solo allora, Naruto appoggiò una mano sul suo petto e l’altra sulla fronte.
Sto arrivando a salvarti, Sasuke.
Poi… gli occhi di Naruto si girarono, riversi, e il suo io cosciente smise di calcare il suolo del suo tempo.


*


Sasuke guardò Naruto e ogni cosa gli fu più chiara.

Aveva illuso se stesso che l’entità fosse stata evocata da Sarada e Boruto: si era immedesimato in loro, era affogato in quello che Sarada avrebbe potuto provare alla notizia che la mamma, la sua mamma, non c’era più; poi, aveva creduto di possedere le conoscenze di Sakura, per essere più forte e preparato. Il cuore di Sasuke perse più di un battito, il dolore sembrò divorarlo.
In seguito il subconscio aveva abilmente ricamato sul resto, ricreando ciò che aveva vissuto, per giungere fino all’essere che stava cercando di divorarlo e farlo suo.
Lo aveva ucciso, alla fine, esattamente come aveva ucciso quell’involucro di carne che aveva a sua volta privato della vita sua moglie, mentre lui non aveva potuto fare nulla per difenderla.
Sapeva che in corridoio c’era Sakura, il suo cadavere: avrebbe dovuto dirle addio, per sempre.
“Non l’ho salvata, Naruto. E’ morta davanti ai miei occhi.”
Gli disse, fissandolo.
A Naruto tremò un labbro, non riuscì a sorridere come avrebbe voluto:
“Come potevi? Come potevamo, tutti, aspettarci un Male così subdolo?”
Sasuke non parlò. Si diresse verso il corridoio, chinandosi sulla propria moglie che trovò pallida ed eterea, forte, anche nella morte. Le chiuse gli occhi, come aveva fatto la sua mente quella notte.
Rimase così per diverso tempo, mentre Naruto trascinava il cadavere di Ward, consapevole di non poter chiamare alcuna polizia, né ambulanza. Il governo. Quella era tutta merda loro, loro e di quella spedizione.
Infine Sasuke si alzò in piedi e cercò il telefono.
Scoprì di averlo in tasca.
C’erano delle chiamate, dei messaggi, di Sarada. Ma anche di Hinata e di Boruto.
Chiamò sua figlia, in mezzo al corridoio, con il cadavere della donna amata e della madre dell’unica altra donna che lui amasse.
“Papà!” la sua preoccupazione, la voce rotta dal pianto. Sebbene lei non l’avrebbe mai ammesso.
“Sto bene, anche Naruto. Dillo… dillo a Hinata e a Boruto.”
Tacque. La sua voce era così distante.
Ci fu silenzio, dall’altra parte del telefono.
Prima che Sarada potesse dire altro, domandare, Sasuke aggiunse, con l’affetto di un padre: “Sto arrivando, Sarada.”
E lei, in un sussurro che sfociò in lacrime, parve capire.

La cucina.
Perché nella mia testa ho incontrato Sakura, un’ultima volta, in cucina?
Il the caldo davanti a un tavolo. La casa. Le ultime frasi d’amore. Noi non meritavamo un corridoio e la porta aperta sulla notte.



*


Anni dopo


Boruto lanciò una breve occhiata all’ampia libreria del salotto, scorrendo i vari romanzi storici, fantasy e qualche thriller, per poi soffermarsi come d’abitudine sugli scaffali dedicati all’esoterismo che avevano da sempre catturato la sua attenzione.
Si voltò verso Sarada, seduta al tavolo con un foglio, una penna e un bicchierino, per poi domandarle dubbioso:
“Ehr... sei sicura di voler fare questa cosa?”
La ragazza sollevò lo sguardo, si aggiustò con aria professionale gli occhiali e dopo aver emanato un breve sospiro annuì: “Certo che ne sono sicura – accennò a un mezzo sorriso provocatorio – non dirmi che proprio tu vuoi tirarti indietro.”
Boruto aggrottò le sopracciglia e sbottò, ferito nell’orgoglio di quindicenne:
“Non dire stronzate, io di sicuro non ho paura. Mi stupivo solo che tu, dopo tutti questi anni in cui mi hai vietato anche solo di toccare i libri di tuo padre, te ne esci con sta storia della... cosascrittura, o come si dice.”
Borbottò, grattandosi il naso dopo aver appoggiato una mano sul tavolo.
Sarada, che aveva finito di disegnare le lettere dell’alfabeto sul foglio, inserendo anche voci di comodo quali si, no e il punto interrogativo, chiuse la penna per replicare con aria tranquilla:
“Telescrittura, Boruto, si chiama telescrittura. Guarda che la questione dei libri di papà rimane: l’esoterismo è una materia da non prendere sottogamba, in nessun caso.”
“Oh, beh, alla faccia del divieto! Perché quello al tuo fianco mi pare proprio un libro esoterico di tuo padre! Oppure lo davano in edicola in comode uscite settimanali nella raccolta Evocazioni, impara anche tu a parlare con gli spiriti?”
Replicò, puntando un dito contro l’oggetto incriminato.
Sarada, nonostante l’aperta ironia del commento, arrossì e aggrottò le sopracciglia assumendo un’aria indignata, per poi ribattere asciutta:
“In questo caso è diverso. Mi sono dovuta documentare, la telescrittura non è una cosa da affrontare alla leggera e – tacque un istante, mordendosi un labbro – era l’unico modo. Per parlare con la mamma, visto che papà dopo tutti questi anni sembra averci rinunciato.”

Siamo davvero uomini liberi?





Sproloqui di una zucca

Eccomi qui con quest'ulteriore strana storia. L'ispirazione iniziale è arrivata dalla Halloween Challenge indetta dal gruppo fb Sasunaru FanFiction Italia, con il prompt "se non conosci il latino, non leggerlo ad alta voce".
In passato, ho sperimentato la telescrittura perché mio papà aveva interessanti letture sull'esoterismo e, appunto, relative alla telescrittura. Mi affascina l'idea che il nostro cervello è una sorta di radio capace di captare determinate stazioni; con la telescrittura riusciamo a percepirne di nuove e se si è in due risulta più immediato muovere il bicchierino, entrando in contatto appunto con questi canali. Non è detto che siano necessariamente spiriti, ma sicuramente forme di energia o memorie tramandate di persona in persona. Si possono realizzare cose impensabili, ad esempio chiedere allo 'spirito' di pronunciare un verso di una determinata poesia mai letta; io e mia sorella (lei all'epoca aveva circa dodici anni e di sicuro non si era interessata ad argomenti simili) avevamo chiesto di conoscere il quarto verso della poesia Bruto Minore di Leopardi e, come se nulla fosse, il bicchierino si era mosso componendo le lettere che davano origine al verso preciso, confrontato a posteriori.
Idem per l'incubo: ho vissuto precisamente l'incubo di Sarada e ho visto in diretta, nel cuore della notte, l'armadio a fianco del mio letto aprirsi da solo. Tutto quello che segue è invece frutto di mia personale invenzione, per quanto resti convinta che, filosoficamente parlando, se si crede nel bene o in qualcosa di positivo, affinché quel qualcosa esista deve esserci anche il suo opposto, quindi il male. Poi, che vi siano tante forme di male questo per me è indiscusso.
Concludo con i riferimenti a Lovecraft e a topoi ricorrenti della letteratura di genere.

Gli Antichi (Elder Things o Elders Ones): sono delle sorta di alieni o creature provenienti da altri mondi che compaiono in molti racconti lovecraftiani; crearono gli Shoggoth, delle creature senza una forma definita (da qui la concezione che ci sono cose non descrivibili a parole ma che Lovecraft, comunque, riesce lo stesso a farti immaginare) con occhi fluttuanti e corpo amebico catramoso.
Africa: spesso nell'immaginario narrativo l'Africa è luogo da cui provengono cose e creature ignote (basti pensare al pigmeo de "Il Segno dei Quattro" di Doyle, o le strane ereditarietà familiari di Arthur Jermyn nel Congo narrate da Lovecraft).
Ward: Proprio lui, puro e semplice omaggio affettuoso (mica poi tanto, dato quello che gli capita XD) a Charles Dexter Ward (Il Caso di Charles Dexter Ward) che aveva un simpatico antenato negromante e decide dunque di intraprendere la stessa strada, arrivando alla follia.
La paura strisciante: ispirata alla definizione del racconto La Paura in Agguato, in inglese The Lurking Fear. Mi piace creare una personificazione della paura.
I ratti: citazione del bellissimo racconto i Ratti nel Muro, dove si sentono passare i ratti con le loro zampette tra le mura. Quest'animale è ricorrente anche in altri autori, come nel Pozzo e il Pendolo di Poe o in 1989 di Orwell. Usati come strumenti di morte (il ratto chiuso contro la cassa toracica da un secchio mangerà l'uomo per fuggire) e di tortura psicologica
Sciamano: contrariamente alla visione romantica, lo sciamano in molte culture era spesso un esiliato, uno storpio o un deforme e veniva allontanato dalla tribù, isolato, per poi venire usato appunto come canale/valvola di sfogo per le disgrazie.

Concludo tutto questo pippone sperando che la storia vi abbia acchiappato, a partire dalla conclusione con un senso ciclico, di condanna, oppure di premonizione (ciascuno è libero di interpretare le ultime righe come meglio crede) e che lo stile, la successione di eventi e i personaggi siano stati di vostro gradimento. Che dire... grazie per avermi seguito fino a qui e Buon Halloween!


Ps: l'immagine è di Damien Mammoliti - Portrait of a Dead Man.



   
 
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