Questo scritto era
un vestito cucito con altre intenzioni e un futuro diverso, ma poi l’ho cestinato e dimenticato. L’ho ritrovato e adattato a Leo che credo lo vesta meglio di chi avevo in mente.
La storia è una sorta di songfiction basata su Comfortably numb dei Pink Floyd, anche se troverete nominata Wish you
were here, non è un errore.
Il mio è un esordio non programmato in questo fandom è strano e non deve nutrire aspettative, ma spero che vi piaccia
almeno un pochino e che vogliate darmi
una vostra opinione.
LA DISTANZA DELLE STELLE
Era a pezzi ed aveva solo diciassette anni.
Guardava fuori dalla finestra, raggomitolato come un felino su se stesso, i
piedi vicini alla nuca, schiena
curva e le braccia perse tra le lenzuola.
Gli faceva male una spalla, ma non mosse un dito.
Era simile a una bambola dalla
bellezza grottesca, rifiutata con violenza ed abbandonata in una posa innaturale.
Guardava fuori e pensava alla distanza delle
stelle.
Il buio nella camera era come una calda coperta, ma quello che si
era impossessato di lui gelava, era il terrore della consapevolezza,
di un sadomasochismo che si era legato alla sua natura e aveva
distrutto quel punto fisso nel
cui raggio lui camminava, sorrideva, viveva.
Guardava ancora fuori e pensava alla distanza delle
stelle.
Era annebbiata la vista da lacrime
che risposero ad un silenzioso appello, per poi farsi timidamente avanti, fuori, in quella oscurità silenziosa, discreta ed amabile.
Era e sarebbe sempre stato melodrammatico per questo non una parola, solo scivoli di lacrime e denti che affondavano del labbro inferiore; l’avrebbero reso più rosso, più
attraente o almeno così diceva qualche
signorina che amava affondare i denti nelle
labbra e indossare come rossetto il proprio
sangue. La crudeltà era il pegno per la bellezza, l’aveva imparato bene in quei mesi.
Tentava di guardar fuori, di guardar le stelle e trovarle ancora meravigliose, ma chiuse gli occhi
preferendo il nulla alla meraviglia.
Se non si fosse arreso gli sarebbe piaciuto
prendere il lettore MP3, sistemarsi bene le cuffie e ascoltare – ad assordante volume
– Wish you were here dei
Pink Floyd. Era tutto quello
di cui sentiva il bisogno, perché l’arte consola meglio di qualsiasi umano.
“Tutti meritiamo di soffrire, anche se Mozart lo meritava di più”.
“Detto da uno
che non vive nel Terzo Mondo e che ha fame solo quando è costretto a far diete, suona abbastanza ridicolo” la maggior parte delle volte quello che diceva
suonava ridicolo.
“Non serve la fame e la povertà per conoscere il dolore. È un’esperienza naturale ed inevitabile,
caro Sena”.
A Sena forse
era sembrato per la prima volta
adulto e per la prima volta
si era fermato ad ascoltarlo. Aveva osato anche
chiedere:“per
questo lo meritiamo?”.
“Oh, no”aveva scosso
la testa prima di continuare
con un accenno di sorriso.
Il ricordare quell’espressione,
la piega di quelle labbra nell’attesa delle sue parole, gli provocò nostalgia e – a dirla tutta – si sentì anche un po’ sporco.
“Meritiamo il dolore perché
è l’unico che insegna qualcosa” spiegò guardandolo negli occhi. Poi continuò distogliendo lo sguardo. “Qualcosa che rimane, che
ti porterai sempre dietro e che giocherà il
vero ruolo decisivo nella tua vita”. Concluse con abituale drammaticità: “senza il dolore non siamo nulla”.
Quella volta aveva riso, riso
di gusto, perchè i panni
del filosofo li vestiva
male.
Ora piangeva, perché aveva appreso, aveva capito che
aveva ragione, che detestava quando
avesse avuto ragione, parlando come chi corre con le forbici in mano.
Si era specchiato prima di cadere
sul letto e aveva visto se stesso come mai prima: si era visto come i pittori vedono
gli uomini, con colori e linee definite, con maschere o nudi bellissimi solo nella loro imperfezione. Lui si era visto
nudo, ma era sporco, perché non era un pittore, era un artista di un’altra farina, di un altro sacco.
Ma soffrendo doveva essere qualcuno, si era spaventato nell’ascoltarsi e nell’immaginare
se stesso il giorno dopo: nessuna
immagine aveva abbozzato forma.
Il nulla era lì, alla soglia del suo domani e questo
lo spaventava più di qualsiasi altra cosa, più di una
catastrofe nucleare, un rapimento alieno o un’apocalisse zombie.
Se proprio
doveva essere patetico scoprendosi solo di sangue e carne, allora voleva che una
fine giungesse, cruenta e
dolorosa, per lasciare il
segno nei suoi ultimi istanti, per farlo sentire vivo e poi eterno nella cronaca,
tra le lacrime, i sussurri ed
i sensi di colpa di chi l’avrebbe poi compianto. Forse anche Sena.
Una vibrazione del cellulare
lo destò dal suo melodramma, ma non si avvicinò, perché non si sentiva in grado
e non voleva la voce di nessuno;
l’unica cosa che avrebbe voluto
era della musica, o che una certa
persona fosse lì, sulla sponda del letto, che senza guardarlo cantasse rime precise:
Hello?
Is there anybody in there?
Just nod if you can hear me.
Is there anyone at home?
Come on, now,
I hear you're feeling down.
Se avesse cantato ciò avrebbe sorriso,
sarebbe stata una cosa buona,
sarebbe significato che non era stato esiliato dall’esistenza dell’altro, che c’era la speranza comprendesse.
E... e… sognò ad occhi aperti un miracolo, che un po’ veniva da lui e un po’ da Pink Floyd.
L’importante era immaginarlo
lì.
Well I can ease your pain
And get you on your feet again.
Relax.
I need some information first.
Just the basic facts
Ma i miracoli sono davvero capaci
di realizzarli dei semplici uomini?
Lui credeva di sì, perché la sua
stessa esistenza era un miracolo, in modo diverso da come la vita è un miracolo
per gli altri.
Can you show me where it hurts?
E la violenta fantasia che Sena gli artigliasse
il cuore come un gatto sulla sua
preda, lo fece sospirare rumorosamente. Il cellulare non vibrò più, a vibrare era altro.
Lo immaginò un improbabile predatore, lo immaginò sovrastarlo e guardarlo, per la
prima volta come mai era accaduto. Le unghie contro il suo
petto avrebbero fatto male a sufficienza per farlo sorridere; portò la mano sul
cuore per immaginarsi quel dolore che lo avrebbe fatto sentire
così bene, compreso, graziato.
Non immaginò più l’altro cantare, con gli occhi chiusi
fu lui a sussurrare la canzone che sembrava Roger Waters avesse scritto per lui.
Non era Wish you were here,
la canzone di cui aveva bisogno,
perché le canzoni di cui si
ha bisogno non descrivono mai la realtà, ma le parole che si vorrebbero
dire, che si vorrebbero udire.
There is no pain you are receding
A distant ship, smoke on the horizon.
You are only coming through in waves.
Your lips move but I can't hear what you're saying.
Le canzoni che dipingono la
realtà sono più portate per esser cantate o ascoltate da chi non vorremmo. Sono parole in musica, in versi, ma sempre parole, e le coscienze non pulite hanno sempre problemi
con un certe parole, in grado
solo di confessare – bisbigliare con vergogna per lo più – quando ogni cosa è buia
e la coscienza è ormai febbricitante .
When I was a child I had a fever
My hands felt just like two balloons.
Now I've got that feeling once again
Singhiozzò cantando malissimo,
lontano dall’essere la voce
che aveva ammaliato centinia di fans di
Tokyo e non; eppure fu la sua performance migliore: anche un confessore l’avrebbe detto.
I can't explain you would not understand
E dopo che una lacrima scivolò
accarezzando l’angolo della bocca, lui
sorrise, e la voce ricordò l’armonia. Non sentì più dolore.
This is not how I am.
I have become comfortably numb.