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Autore: Qwerty from Wilde    30/10/2017    0 recensioni
[Leo-centric quasi delirante, lieve e unilaterale LeoIzu]
Tentava di guardar fuori, di guardar le stelle e trovarle ancora meravigliose, ma chiuse gli occhi preferendo il nulla alla meraviglia.
Se non si fosse arreso gli sarebbe piaciuto prendere il lettore MP3, sistemarsi bene le cuffie e ascoltare – ad assordante volume – Wish you were here dei Pink Floyd. Era tutto quello di cui sentiva il bisogno, perché l’arte consola meglio di qualsiasi umano.
Genere: Angst, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izumi Sena, Leo Tsukinaga
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo scritto era un vestito cucito con altre intenzioni e un futuro diverso, ma poi l’ho cestinato e dimenticato. L’ho ritrovato e adattato a Leo che credo lo vesta meglio di chi avevo in mente.
La storia è una sorta di songfiction basata su Comfortably numb dei Pink Floyd, anche se troverete nominata Wish you were here, non è un errore.
Il mio è un esordio non programmato in questo fandom è strano e non deve nutrire aspettative, ma spero che vi piaccia almeno un pochino e che vogliate darmi una vostra opinione.

 


LA DISTANZA DELLE STELLE






Era a pezzi ed aveva solo diciassette anni.
Guardava fuori dalla finestra, raggomitolato come un felino su se stesso, i piedi  vicini alla nuca, schiena curva e le braccia perse tra le lenzuola. Gli faceva male una spalla, ma non mosse un dito.
Era simile a una bambola dalla bellezza grottesca, rifiutata con violenza ed abbandonata in una posa innaturale.

Guardava fuori e pensava alla distanza delle stelle.

Il buio nella camera era come una calda coperta, ma quello che si era impossessato di lui gelava, era il terrore della consapevolezza, di un sadomasochismo che si era legato alla sua natura e aveva distrutto quel punto fisso nel cui raggio lui camminava, sorrideva, viveva.

Guardava ancora fuori e pensava alla distanza delle stelle.

Era annebbiata la vista da lacrime che risposero ad un silenzioso appello, per poi farsi timidamente avanti, fuori, in quella oscurità silenziosa, discreta ed amabile.
Era e sarebbe sempre stato melodrammatico per questo non una parola, solo scivoli di lacrime e denti che affondavano del labbro inferiore; l’avrebbero reso più rosso, più attraente o almeno così diceva qualche signorina che amava affondare i denti nelle labbra e indossare come rossetto il proprio sangue. La crudeltà era il pegno per la bellezza, l’aveva imparato bene in quei mesi.
Tentava di guardar fuori, di guardar le stelle e trovarle ancora meravigliose, ma chiuse gli occhi preferendo il nulla alla meraviglia.
Se non si fosse arreso gli sarebbe piaciuto prendere il lettore MP3, sistemarsi bene le cuffie e ascoltare ad assordante volume – Wish you were here dei Pink Floyd. Era tutto quello di cui sentiva il bisogno, perché l’arte consola meglio di qualsiasi umano.

Tutti meritiamo di soffrire, anche se Mozart lo meritava di più”.
Detto da uno che non vive nel Terzo Mondo e che ha fame solo quando è costretto a far diete, suona abbastanza ridicolo” la maggior parte delle volte quello che diceva suonava ridicolo.
Non serve la fame e la povertà per conoscere il dolore. È un’esperienza naturale ed inevitabile, caro Sena”.

A Sena forse era sembrato per la prima volta adulto e per la prima volta si era fermato ad ascoltarlo. Aveva osato anche chiedere:“per questo lo meritiamo?”.
“Oh, no”aveva scosso la testa prima di continuare con un accenno di sorriso
.
Il ricordare quell’espressione, la piega di quelle labbra nell’attesa delle sue parole, gli provocò nostalgia e – a dirla tutta si sentì anche un posporco.
  “Meritiamo il dolore perché è l’unico che insegna qualcosaspiegò guardandolo negli occhi. Poi continuò distogliendo lo sguardo. “Qualcosa che rimane, che ti porterai sempre dietro e che giocherà il vero ruolo decisivo nella tua vita”. Concluse con abituale drammaticità: “senza il dolore non siamo nulla”.

Quella volta aveva riso, riso di gusto, perchè i panni del filosofo li vestiva male.
Ora piangeva, perché aveva appreso, aveva capito che aveva ragione, che detestava quando avesse avuto ragione, parlando come chi corre con le forbici in mano.
Si era specchiato prima di cadere sul letto e aveva visto se stesso come mai prima: si era visto come i pittori vedono gli uomini, con colori e linee definite, con maschere o nudi bellissimi solo nella loro imperfezione. Lui si era visto nudo, ma era sporco, perché non era un pittore, era un artista di un’altra farina, di un altro sacco.
Ma soffrendo doveva essere qualcuno, si era spaventato nell’ascoltarsi e nell’immaginare se stesso il giorno dopo: nessuna immagine aveva abbozzato forma.
Il nulla era , alla soglia del suo domani e questo lo spaventava più di qualsiasi altra cosa, più di una catastrofe nucleare, un rapimento alieno o un’apocalisse zombie.
Se proprio  doveva essere patetico scoprendosi solo di sangue e carne, allora voleva che una fine giungesse, cruenta e dolorosa, per lasciare il segno nei suoi ultimi istanti, per farlo sentire vivo e poi eterno nella cronaca, tra le lacrime, i sussurri ed i sensi di colpa di chi l’avrebbe poi compianto. Forse anche Sena.

Una vibrazione del cellulare lo destò dal suo melodramma, ma non si avvicinò, perché non si sentiva in grado e non voleva la voce di nessuno; l’unica cosa che avrebbe voluto era della musica, o che una certa persona fosse , sulla sponda del letto, che senza guardarlo cantasse rime precise:

 Hello?
Is there anybody in there?
Just nod if you can hear me.
Is there anyone at home?
Come on, now,
I hear you're feeling down.


Se avesse cantato ciò avrebbe sorriso, sarebbe stata una cosa buona, sarebbe significato che non era stato esiliato dall’esistenza dell’altro, che c’era la speranza comprendesse.
E... e… sognò ad occhi aperti un miracolo, che un poveniva da lui e un po’ da Pink Floyd. L’importante era immaginarlo

Well I can ease your pain
And get you on your feet again.
Relax.
I need some information first.
Just the basic facts


Ma i miracoli sono davvero capaci di realizzarli dei semplici uomini?
Lui credeva di , perché la sua stessa esistenza era un miracolo, in modo diverso da come la vita è un miracolo per gli altri.

Can you show me where it hurts?

E la violenta fantasia che Sena gli artigliasse il cuore come un gatto sulla sua preda, lo fece sospirare rumorosamente. Il cellulare non vibrò più, a vibrare era altro.
Lo immaginò un improbabile predatore, lo immaginò sovrastarlo e guardarlo, per la prima volta come mai era accaduto. Le unghie contro il suo petto avrebbero fatto male a sufficienza per farlo sorridere; portò la mano sul cuore per immaginarsi quel dolore che lo avrebbe fatto sentire così bene, compreso, graziato.
Non immaginò più l’altro cantare, con gli occhi chiusi fu lui a sussurrare la canzone che sembrava Roger Waters avesse scritto per lui.
Non era Wish you were here, la canzone di cui aveva bisogno, perché le canzoni di cui si ha bisogno non descrivono mai la realtà, ma le parole che si vorrebbero dire, che si vorrebbero udire.

There is no pain you are receding
A distant ship, smoke on the horizon.
You are only coming through in waves.
Your lips move but I can't hear what you're saying.


Le canzoni che dipingono la realtà sono più portate per esser cantate o ascoltate da chi non vorremmo. Sono parole in musica, in versi, ma sempre parole, e le coscienze non pulite hanno sempre problemi con un certe parole, in grado solo di confessare bisbigliare con vergogna per lo più quando ogni cosa è buia e la coscienza è ormai febbricitante .

When I was a child I had a fever
My hands felt just like two balloons.
Now I've got that feeling once again


Singhiozzò cantando malissimo, lontano dall’essere la voce che aveva ammaliato centinia di fans di Tokyo e non; eppure fu la sua performance migliore: anche un confessore l’avrebbe detto.

I can't explain you would not understand

E dopo che una lacrima scivolò accarezzando l’angolo della bocca, lui sorrise, e la voce ricordò l’armonia. Non sentì più dolore.

This is not how I am.
I have become comfortably numb.

 

 

   
 
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