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Autore: Afaneia    01/11/2017    9 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
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Prologo

Sai cosa vuol dire perfettibile?


Glauco, guarda: già il mare profondo è sconvolto dalle

onde, attorno al capo Gireo si leva una nube,

presagio di tempesta: inatteso mi coglie il timore.


Archiloco, fr. 105 West.



Prologo


Suonarono alla porta nel cuore della notte.

Ma si era mai vista in tutta Lavandonia una cosa del genere? Che si suonasse così, in piena notte e senza nessuna plausibile giustificazione, alla porta di qualcuno che non fosse un medico?

Il signor Fuji si svegliò col cuore in gola, scoprendosi sorpreso più dalla scoperta stessa di trovarsi addormentato, nel suo letto, senza alcuna precisa memoria di esservi andato, che dal fatto che qualcuno avesse deciso di venire a suonare in piena notte proprio a casa sua.

Il suo sonno pesante che non accennava a sfumare lo frastornava enormemente, tanto che per qualche istante, avvolto nella cappa gravosa e appiccicosa della notte che lo avvolgeva, stentò a riconoscere la sua stanza e l'orientamento del suo letto. Ma poi il grido disperato del campanello si ripeté di nuovo, echeggiò carico d'allarme sulla notte immobile, spazzò via ogni residuo di sonno: d'un tratto il signor Fuji si ritrovò su letto perfettamente sveglio, con le orecchie tese e attente, e la mente più lucida che in pieno giorno.

Raggiunta una certa età, e un'esperienza di vita come la sua, Fuji aveva scoperto ormai da qualche anno che avere paura non aveva più alcun significato. Non la considerava imprudenza. Semplicemente, nella prospettiva della sua vita attuale, egli non riusciva a trovare proprio alcun motivo per cui qualcuno dovesse fargli del male, e nell'ipotesi, possibile seppur improbabile, che questo dovesse accadere, egli non vedeva proprio in che modo gli fosse possibile impedirlo. Ragion per cui, facendo forza sul bordo del vecchio materasso cedevole dalle molle cigolanti, che troppe notti insonni e stancanti aveva sostenuto, Fuji si alzò con calma, indossò la vestaglia e si avviò a tentoni verso la porta.

Gli squilli del campanello si erano interrotti, ma neppure volendo sarebbe stato possibile credere che quel folle qualcuno che, dall'altra parte, aveva suonato, se ne fosse andato. Al di là della porta chiusa si udivano i suoni disperati di una bestia braccata che cercava rifugio, rumore di passi affannati e strascicati sulla soglia e i gemiti angosciati di qualcuno che si domandava se gli avrebbero mai aperto...

Accostando l'orecchio alla porta, Fuji domandò con voce alta e chiara: «Chi è?»

In risposta alla sua domanda, Fuji udì dall'altra parte la voce del figlio che per tanto tempo aveva chiamato perduto dire: «Papà... ho combinato un casino.»



Mentre il latte bolliva nel forte odore di gas della vecchia cucina antiquata, il signor Fuji guardò suo figlio negli occhi e gli chiese: «Che cosa è successo?»

Se non fosse stato per la voce, egli a malapena avrebbe riconosciuto suo figlio. Questo pensiero lo addolorò più ancora di quanto avrebbe potuto pensare, per quanto una piccola parte di lui fosse comunque consapevole, con la placida saggezza dei suoi lunghi anni di solitudine, che non era colpa sua se suo figlio era cambiato tanto senza che egli potesse vederlo.

Emir aveva l'aria sbattuta e sciupata delle persone che lavorano molto più di quanto non riposino, e precocemente invecchiata. Aveva gli occhi pesantemente cerchiati, un po' troppo infossati nelle orbite stanche, e anche i suoi capelli, che erano stati dello stesso nero corvino dei suoi, sembravano incominciare a conoscere le prime striature di grigio sulle tempie. Ma quand'era che era invecchiato così? Erano passati poi così tanti anni dall'ultima volta che si erano visti?

«Non te lo posso dire» disse meccanicamente Emir, senza guardarlo, e Fuji si limitò ad annuire in silenzio. Non si era veramente aspettato che gli rispondesse, dopotutto; ma doveva fare almeno un tentativo. Ora che gli aveva dato la possibilità di confessare spontaneamente, e che Emir si era rifiutato, poteva interrogarlo liberamente; perciò, sedendosi di fronte a lui dall'altro lato del tavolo, domandò: «Hai ucciso qualcuno?»

Il figlio che aveva amato e perduto ormai tanti anni prima, il ragazzo che era cresciuto a Lavandonia, nella sua casa, avrebbe sgranato gli occhi a questa domanda. Sarebbe balzato in piedi con violenza, cogli occhi pieni di indignazione e di sgomento, e avrebbe protestato la propria innocenza a gran voce, incredulo alla sola idea che qualcuno potesse pensare... ma l'uomo ch'egli aveva davanti, che la Silph gli aveva portato via e che egli per anni non aveva mai più rivisto, non sembrava provare poi tanto sdegno all'idea che suo padre lo credesse capace di uccidere.

Emir scosse lentamente la testa. «No, papà, non... non è niente del genere. Non è quel tipo di cosa.»

Chissà per quale motivo, se non si trattava di omicidio, Fuji non riusciva a trovare altro a cui pensare di tanto grave da spingere suo figlio a venir lì di corsa, in piena notte, cogli abiti ancora impolverati e i capelli spettinati dal viaggio. In un certo senso si sentì rassicurato. In nessun caso avrebbe mai protetto suo figlio per qualcosa di tanto orribile, ma in quanto al resto non gli veniva in mente nient'altro di così terribile da doverlo denunciare immediatamente alla polizia. E poi, se suo figlio pensava che fosse meglio tenerlo all'oscuro di tutto, poteva darsi che fosse davvero meglio così. Emir era sempre stato più portato di lui per capire certe cose, quando si trattava di leggi e cavilli legali, ed egli era certo di non poterla spuntare in nessun modo discutendo con lui. E poi, se non era un assassino...

Si alzò per spegnere il gas quando il latte cominciò a borbottare e gli mise davanti una vecchia tazza di latta, senza troppi complimenti. Non aveva altro da offrirgli che latte bollito e pane secco, che alla sua età, con le budella stanche e lente e il senso del gusto divenuto più un fastidio che un piacere, costituivano il suo principale nutrimento, malgrado tutti gli incoraggiamenti dei ragazzi e le prescrizioni del medico; ma Emir non vi prestò alcuna attenzione. Soffiò sul latte amaro e vi spezzò il pane, e mangiò e bevve senza parlare né guardarlo come se da giorni non mangiasse né bevesse.

«Pensi che possa esistere qualche valido motivo per cui costituirti?» chiese dopo un po' in tono indifferente. Sapeva bene che non sarebbe servito a niente, ma anche quello, dopotutto, era un tentativo che non poteva esimersi dal fare.

«Non è una cosa per cui ci si possa costituire» rispose Emir, soppesando cautamente ogni singola parola. Esitò un poco, giocherellando coi grossi bocconi irregolari di pane che galleggiavano inconsapevoli sulla superficie del latte, e proseguì a voce bassa, osando appena guardarlo per soppesare la sua reazione al di sotto delle alte sopracciglia nere: «È stata una cosa illegale, papà, ma era una cosa giusta. Non so come altro spiegartelo senza renderti mio complice, ma ti prego, papà, devi credermi... mi costituirei se avessi fatto la cosa sbagliata. Lo sai anche tu che lo farei» aggiunse ansiosamente, e Fuji annuì per tranquillizzarlo, senza esserne veramente convinto. Non era più tanto sicuro di sapere che cosa suo figlio fosse o meno in grado di fare, per la verità, ma Emir gli sembrava già abbastanza agitato senza bisogno di mettere in dubbio la sua moralità.

Tamburellò per un poco con le dita sul tavolo. «Va bene, Emir. Ma se non vuoi dirmi che cos'hai fatto e non vuoi che ti aiuti... allora perché sei venuto qui?»

Vi fu un lampo d'incomprensione negli occhi di Emir quando sollevò lo sguardo versi di lui, e la sua voce conobbe un attimo di esitazione, come se non si fosse aspettato che proprio lui, suo padre, gli rivolgesse questa domanda, e se ne scoprisse ferito.

«Ho bisogno di un alibi» disse nervosamente, ma con l'aria di chi stesse inventando una bugia così, su due piedi, perché non riusciva a trovare alcun miglior motivo per trovarsi lì, a Lavandonia, con suo padre. Ma ai suoi occhi, che di suo figlio conoscevano con precisione anche la più mutevole piega del viso, era anche troppo evidente che Emir non aveva neppure pensato alla necessità di un alibi, quando era venuto lì. Ma ora che l'aveva detto quell'esigenza si era fatta concreta e pressante, ed Emir vi si aggrappò. «Se fosse necessario, diresti che ero qui ieri sera?»

Eppure anche quella domanda, che pure sarebbe stata fondamentale per un uomo che avesse appena commesso un crimine, Emir l'aveva posta senza alcuna ansietà né angoscia, come se non volesse altro che sondare il terreno, e Fuji non si ritenne obbligato a rispondere così, a scatola chiusa.

«Sembri così stanco, Emir» mormorò. «Perché non vai di là a stenderti un po'?»


Quando suo figlio si fu addormentato sul divano, Fuji si soffermò a lungo a guardarlo.

Si era buttato a dormire così com'era, ancora vestito e impolverato dal viaggio, ed era sprofondato nel sonno immediatamente, ma di un sonno greve e pesante, completamente esausto, come ai tempi dei suoi studi frenetici e appassionati. Ma quelle rughe sottili e premature ch'egli vedeva affiorare al di sotto del braccio con cui Emir si era coperto gli occhi, quelle non erano del figlio che gli era appartenuto. Era stata la Silph a invecchiarlo così? L'uomo che dormiva sul suo divano, coperto solo della vecchia giacca a vento con cui aveva viaggiato, era pietosamente magro, di una magrezza insalubre, consunta, e dimostrava più anni di quanti ne avesse.

Era andata a finire proprio come egli stesso aveva predetto, ormai sei anni prima, il giorno che avevano litigato ed Emir se n'era andato: la Silph lo aveva sedotto e incoraggiato e poi se n'era impadronita e lo aveva distrutto, e in tutto questo egli aveva sempre avuto ragione... Emir era tornato da lui umilmente come il figliol prodigo, ammettendo il proprio errore col candore di un bambino, e alla fine aveva dovuto tacitamente riconoscere la verità, ammettere ch'egli aveva sempre avuto ragione... eppure, questo pensiero non suscitava in lui neppure la minima traccia del compiacimento che si era aspettato. Forse era troppo vecchio, o troppo disilluso, per sentirsi ancora compiaciuto riguardo a qualcosa.

Erano quasi le cinque e mezza del mattino: se anche egli non avesse avuto così tanti pensieri per la testa, in quel momento, non avrebbe avuto comunque alcun senso tornarsene a letto.

Cercò qualcosa da fare. Si preparò molto lentamente e in grande silenzio, per non fare troppo rumore e per lasciar passare un po' di tempo. Lavò i piatti, ma quando pensò all'idea di far colazione, scoprì che il solo pensiero del cibo lo infastidiva. Andò a cercare una coperta dal vecchio armadio di rovere un po' tarlato per coprirne il figlio, scostando delicatamente la giacca a vento impolverata, e si rasserenò un po' quando si accorse che Emir continuava a dormire profondamente malgrado i suoi movimenti. Forse dormendo avrebbe potuto dimenticarsi per qualche ora di ciò che aveva fatto.

Ma anche dopo aver fatto tutte queste cose, e averle fatte con la massima calma possibile, il signor Fuji si ritrovò a non aver più niente da fare per attendere il giorno e il risveglio di suo figlio. Ancora non accennava neppure ad albeggiare, e anche ammettendo che qualcuno dei volontari decidesse di alzarsi particolarmente presto e di passare da lui prima della scuola, mancavano a ogni buon conto almeno una o due ore. Quanto a sedersi ad aspettare senza far niente, questo era proprio qualcosa ch'egli non aveva mai tollerato di fare e non lo prese neppure in considerazione. Era ancora troppo presto perché l'edicola in fondo alla strada fosse aperta? Valeva la pena di fare un tentativo.

La strada era aspersa di quell'uniforme luce grigia e livida delle giornate che si prospettano belle ma che ancora non hanno avuto tempo di schiudersi al giorno. L'edicola non era ancora propriamente aperta, ma il giornalaio, ch'egli era abituato a considerare un amico per il semplice fatto che apparteneva alla sua stessa generazione, stava sistemando i grandi pacchi di quotidiani della giornata. Era già mattino, ma si salutarono egualmente in silenzio, parlando colla voce bassa che ispirava loro la sensazione persistente che non ancora fosse esattamente giorno.

Sulla via del ritorno verso casa, Fuji aprì il giornale e lesse: Isola Cannella – Scompare Mew, l'esemplare unico al mondo del Laboratorio Pokémon. La Silph SpA offre ricompensa milionaria per il ritrovamento.



Ciao a tutti!

Sono veramente contenta di poter finalmente dare alla luce questo progetto sul quale sto lavorando ormai da almeno un anno e mezzo, la cui genesi è perfettamente riassumibile con queste parole: questo è quello che viene fuori quando vaghi per un paio d'ore nei sotterranei della Villa Pokémon dell'Isola Cannella per trovare un Ditto per eseguire un secondo Mew Trick.

Occorre prima di tutto chiarire un assioma fondamentale: per una mia precisa scelta, questa storia si baserà quasi esclusivamente (salvo laddove non sia possibile fare altrimenti) sui videogiochi di prima generazione, con qualche accenno alla seconda che costituisce con essa una sorta di unicum geografico e narrativo. Non è una scelta dettata da imperizia o ignoranza dei giochi successivi, ma è mio preciso intento cercare di rendere il più possibile quell'atmosfera che ha vissuto chi, come me, giocava a Pokémon Rosso o Blu ai tempi della loro uscita. Kanto non era una regione magica e ricca di leggende come quelle successive: era una regione collocata nel nostro mondo, impegnata nella lotta all'inquinamento e nella ricerca scientifica e genetica. Cercherò di attenermi a questa versione il più possibile, spiegando capitolo per capitolo le scelte fatte; naturalmente avrò piacere di discutere di queste scelte con chiunque abbia domande o sia interessato a confrontarsi al riguardo.

Per il momento non mi rimane davvero altro da dire, spero che non mi sia sfuggito nulla!

Un caro abbraccio a tutti


Afaneia


   
 
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