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Autore: Padme92    01/11/2017    1 recensioni
Il protagonista di questo racconto è un uomo che ha cara l'infanzia, quando viveva con sua madre in grande tranquillità. Ma dal giorno dell'incidente, altro non ha fatto, quietamente, che aspettare qualcuno che curasse la sua solitudine, per tornare così a sentire il calore della vita: condividere il dolce gusto dei frutti di stagione e il profumo dei fiori di primavera, con qualcuno da amare. [Quarto posto al concorso Premio Chiara Giovani 2017]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fiori, frutta e un gatto cinese



Attraversavo il vialetto ogni mattina, il più delle volte correndo, appena udivo il comico suono del clacson che annunciava l'arrivo del pullmino della scuola: la fermata si trovava proprio di fronte a casa mia. George, l'autista, cercava di mettermi fretta facendo schiamazzare il suo Gatto Cinese, come lo avevamo soprannominato noi della quarta A. Questo perché il bus scolastico era giallo (e tutti sapevano che il giallo era il colore da associare alla Cina), con un tettuccio nero, che a causa della pioggia era come sbrodolato su ambo i lati del mezzo, striandolo di scuro similmente al corpo di un'ape o, per l'appunto, a un gatto tigrato.
Il Gatto miagolava il suo lamento ogni mattina che ero in ritardo, riempiendomi di urgenza nell'uscire di casa e percorrere il viale che era in parte composto di terreno nudo e in parte ricoperto di fini sassolini bianchi, quel tanto che bastava ad evitare il formarsi di enormi pozzanghere quando pioveva.
Quando pioveva, le nuvole piangevano pioggia, e anche il Gatto sembrava come piangere ombre d' inchiostro, con quelle striature tristi e sbiadite che si allungavano sempre di più verso la pancia. Tutte le mattine però, o quasi, prima di avventurarmi lungo quel sentiero, e poi fuori dal cancelletto di ferro, riservavo sempre un momento per chiudere gli occhi e dare un bacio sulla guancia di mia madre. Sempre, sulla porta di casa, lei si chinava verso di me, incitandomi a correre per non perdere il passaggio a scuola, dopo avermi sistemato nello zaino un pacchettino di carta che conteneva la merenda per la pausa delle dieci. Non capitava mai che io rinunciassi a quell'istante di unione fisica ed emotiva tra me e mia madre, anche a costo di far aspettare il vecchio George tra sbuffi e imprechi di impazienza. Anche a costo di farmi prendere in giro dai miei compagni che, già li sentivo, mi puntavano il dito contro gridando “Mammone!”, appena salivo a prender posto con loro, e ripetendomelo a volte anche per tutto il tragitto.
Io, tuttavia, non badavo granché a loro, e come mio solito prendevo silenziosamente posto sul lato destro del Gatto, schiacciavo la guancia contro il finestrino, e lanciavo un'ultima occhiata a mia madre, la quale mai mancava di ricambiare da lontano il mio sguardo, levando una mano in saluto. Sul suo volto si apriva sempre un dolce sorriso, a cui in verità non potevo fare a meno di sorridere in rimando. Quando il Gatto Cinese ripartiva, il grande faggio del nostro giardino subito oscurava la vista della casa, io traevo un profondo respiro voltando gli occhi verso la strada, e poi affrontavo la giornata.
Al ritorno, il ritratto della mia casa non mancava di offrire una scena simile a quella dell'andata: una donna, ovviamente sempre mia madre, aspettava mite che io scendessi dal Gatto, per salutarmi con un famigliare tenero bacio e, delle volte, con in mano una ciotolina di mirtilli, o lamponi, o ciliegie, fragole, pronti per essere da me divorati prima di mettermi a fare i compiti.
Nella bella stagione, capitava che anch'io tornassi con in mano qualcosa: magari un vasettino vuoto di yogurt, rubato dalla mensa della scuola, riempito invece con un mazzo di margherite, o campanelle di prato e denti di leoni, insomma fiorellini facilmente recuperabili nel verde che la circondava. Se trovavo un non-ti-scodar-di-me, mi sentivo particolarmente gioioso, e tornavo a casa canticchiando, perché a mamma piacevano tanto. Allora poteva avvenire una sorta di scambio: lei mi dava i frutti di bosco, io la ringraziavo coi fiori, e viceversa. Era come se in questo modo ci ringraziassimo l'uno dell'esistenza dell'altro, proprio lì, in cima a quei tre gradini prima di entrare in casa. Mamma annusava sempre i fiorellini che le portavo, come se anche le margherite sapessero di buono, poi entravamo in casa. Il resto del tempo io lo passavo coi miei giochi, e qualche raro amico, ma quei momenti tra me e mia madre, senza quasi rendermene conto, per me erano effettivamente diventati sacri. E il tutto era quasi divenuto scontato, seppur sempre importante, un po' come la Messa della domenica. Tutto questo fino a che, un giorno come tanti, ma diverso da tutti gli altri, tornando a casa, inaspettatamente, sulla porta non trovai nessuno.

Si susseguirono per me anni di profonda solitudine, dopo la morte di mia madre. Una morte banale, causata ufficialmente da una perdita di equilibrio sulla scala lunga che adoperava per salire sul nostro ciliegio. In alto si trovano le più buone, mamma lo diceva sempre. Il ciliegio aveva 25 anni e lei lo amava molto, e mi aveva insegnato ad amarlo. Inoltre, le ciliegie avevano continuato ad avere il sapore del suo amore anche dopo l'accaduto, e non sapevano di morte, come sembrano pensare tutti gli altri. Dopo quel giorno nessuno mi offrì più una ciliegia, e ci misi un bel po' a capire il perché. Mia madre le stava cogliendo per farmene dono al mio ritorno da scuola, lo sapevo, ma non capivo perché questo avrebbe dovuto rendermi triste o collerico.
Comunque, tutti dissero appunto che mia madre era caduta dalla scala, ma io segretamente sapevo che non si trattava di questo. In realtà era scivolata da qualche ramo dell'albero, perché lei era solita fare così: amava il contatto con la natura, specie con la pelle degli alberi, e snobbava le scale, semplicemente, anche se le posizionava sempre per aiutare me a salire.
Da quel giorno, ogni volta che mi sono sentito solo, mi sono arrampicato sul ciliegio. Sul ciliegio ho pianto, ho riso, ho pensato, e mi sono innamorato. Parlo di Linda.
Linda è la donna che ho sposato, proprio stamattina, ed era la mia vicina di casa. Lei stava sul prugno, io sul ciliegio. Lei era l'unica con cui parlavo e con cui mi scambiavo dei doni: tre ciliegie per una prugna, questo era il nostro baratto, il nostro segreto, il nostro cominciamento. Iniziò coi frutti, proseguì coi biglietti, e finì con gli anelli. Semplicemente.
E ora, i fiori.
Cammino verso casa, poi mi fermo al cancelletto di ferro che dà sul viale. Lo percorro con lo sguardo fino ai gradini dell'uscio e poi sorrido: lei è lì, sulla porta di casa, ancora vestita di bianco, e ride mentre mi lancia addosso una palla gialla che prendo al volo: una prugna. Stringo più forte il mazzo di rose dietro la schiena e apro il cancello. Poi, correndo come se stessi udendo ancora il Gatto Cinese, vado a dare un bacio a mia moglie, e le porgo i fiori. Lei ci sprofonda il naso, e riemergendo ride allegra, e io rido di rimando. “Non sono più solo”, penso. Poi, insieme, andiamo a cogliere le ultime ciliegie.

   
 
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