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Autore: Carlo Di Addario    01/11/2017    0 recensioni
E tutti si chiesero in principio, cos'era la gravità? Era assodato l'avesse inventata un certo Isaac Newton secoli prima, con una mela, si, ma come? Nel ginnasio di Bergamo, all'alba della Grande Guerra, un italo-francese e una italo-austriaca tenteranno di rispondere a queste grandi domande sulla natura, in un contesto degradante e degradato, tra cacce al tesoro, alcolici e cigni di cartonato.
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Storia scritta a quattro mani con SuperGoat.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Il Novecento
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Sul Muro di Cinta
Macchine Volanti

“1° Ottobre 1913, ore 7.30 del mattino, antico Egitto. Il prode esploratore Renè Os, ultimo superstite della sua valorosa squadra di archeologi…”

“Hey!” protestò uno voce.

Renè annuì distrattamente: “Ultimo di due superstiti, della valorosa squadra di archeologi, si appresta ora con il fido compare a entrare nelle viscere della…”

“…Piramide!” esclamò la voce.

Os sospirò: “Nono, Cincin, non la piramide! Le piramidi son noiose!”

“Ah…” mormorò il rampollo dei Candélabre, perplesso.

“La sfinge!” esclamò Renè: “Non la vedi, proprio davanti a te in questo momento, come si innalza nel cielo, coi suoi millenni di storia e mistero??” e il giovane italo-francese indicò dinnanzi a se.

Cincin guardò, vedendo in fondo alla via solo la tetra e decadente sagoma del ginnasio che si faceva sempre più vicina, man mano che i due bimbi camminavano con i loro piedini per le sudice vie di Bergamo.

Renè gli sussurrò: “Usa l’immaginazione…!” e gli diede una leggera gomitata.

Cincin scattò: “Sissignore! Uao! Che sfinge meravigliosa!!” e il ragazzo sgranò gli occhi in un espressione di pura meraviglia che neanche un bambino a Natale.

Renè sorrise compiaciuto, sistemandosi il colletto della giaccia: bravo ragazzo, attore nato, dava tante soddisfazioni.

“Col corpo da leone e la testa d’aquila!” aggiunse Cincin, continuando la recita.

Renè sospirò.

Sorridendo, commentò: “Con la testa d’aquila…? Dio mio, Cincin, ma tu hai mai visto almeno la foto, di una sfinge…?”

Il piccolo si rabbuiò: abbassò il capo e si guardò i piedi, sentendosi ignorante.

“No…” mormorò.

L’amico, di un anno più grande e di una testa più alto, lo guardò comprensivo.

Gli poggiò una mano sulla spalla e gli spiegò: “Vedi, Cincin, mio ingenuo compare, le sfingi non hanno la testa d’aquila, ma di serpente! E il corpo da caribù!”

Cincin guardò l’amico come si guarda una enciclopedia: “Quante cose sai, Renè! Ma chi ti ha detto tutte queste cose esotiche che mi spieghi ogni mattina??”

Renè sorrise: “Eh-eh! Ho le mie fonti!”

Poi, dando una seconda volta una pacca sulla spalla del giovane amico, lo rassicurò: “Un giorno ti porto con me in stazione, è pieno di guru un po’ trasandati ma che per qualche monetina ti raccontano di tutto e di più sul mondo!”

“In stazione?!” domandò stupefatto Cincin, che di certo non si aspettava che persone tanto dotte potessero stare in un luogo sempre definito “sporco, sudicio e pericoloso” dalla madre.

“Già anch’io non ci credevo all’inizio, ed ero diffidente, eh! Ma poi, un signore con la barba e che stava rovistando nella spazzatura, mi ha detto che per dieci soldi mi spiegava come mai le mele cadono dagli alberi!!” spiegò emozionato Renè, come se avesse appreso una qualche rivelazione cosmica.

Cincin guardò l’amico semplicemente sbigottito… perché le mele cadono dagli alberi…? Neppure si era mai chiesto una cosa del genere…!

Curioso come non mai, esclamò: “Perché?!”

“Perché un certo Isaac Newton ha inventato la gravità nel 1600, tu pensa!” spiegò Renè, concitato.

Cincin aggrottò lo sguardo.

Anche Renè fece lo stesso: dov’era la consueta espressione di pura meraviglia e idolatrazione nei suoi confronti quando gli rivelava qualche ancestrale verità?

Il giovane Candélabre scosse il capo: “Ma scusa Renè, questo non può essere vero, le mele cadevano anche prima del 1600…”

Renè guardò l’amico, confuso.

“Ma cosa dici, ovvio che prima del 1600…” poi si ammutolì.

Già, le mele cadevano da sempre, non poteva esser stato quel tale, Isaac Newton, a iniziare a farle cadere…

“Oh beh, le mele non centrano nulla ne’ con l’Egitto ne’ col ginnasio, andiamo su, che siamo quasi in ritardo!!” esclamò di colpo il rampollo degli Os, prima che al giovane amico potessero venire in mente altre considerazioni pericolose per la sua già precaria immagine di tuttologo.

Cincin, prontamente, si destò dai propri pensieri e annuì: “Sissignore!” iniziando ad affrettare il passo col compare.

E i due, borse in spalla, finalmente varcarono il cancello d’ingresso alla loro scuola, mentre rimbombava nell’aria il tetro suono delle campane.

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“SERENA!! SVEGLIA!!”

“Zzz… uh?! Che succede?! La guerra…?!” mormorò confusa la bambina in questione, stropicciandosi gli occhietti.

Poi, sbadigliando, si destò dal comodo giaciglio.

Seduta, si grattò l’ascella, ancora assonnata.

“Ma perché m’hanno svegliato…?” pensò fra se e se, perplessa.

“DEVI ANDARE A SCUOLAAAAA!!” urlò nuovamente la madre, quasi l’avesse letta nel pensiero.

“Oh quanta gioiaaaaaa…” mugugnò la bimba.

Sbaf!

E si ributtò sulle lenzuola, con la testa riversa sul cuscino.

Decisamente la giornata non era cominciata nel migliore dei modi.

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Una maglietta e una gonna grigia, una colazione a base di uova e una borsa con dentro due libri, un quaderno e un astuccio rigido, questo era l’arsenale con la quale la più grande (per non dire l’unica) rampolla dei Wagner era stata solita prepararsi per andare a scuola quando viveva in Austria. E ora che era in Italia, la routine della giovine non era cambiata.

“Guten Tag, Serena!” la salutò il padre con un cenno della mano, sull’uscio di casa a fumare la pipa.

“Auch zu Sie, Vater!” esclamò Serena, forzandosi di sorridergli, benché dentro volesse solamente risprofondare nelle lenzuola e dimenticarsi anche solo che esisteva, quella diabolica invenzione che era la scuola. Si era illusa, che in Italia non ci fosse, e invece…

Dentro la sua testa se ne immaginò l’inventore: doveva sicuramente esser stato un individuo basso, brutto e stupido, senza capelli, col naso a patata e la mascella storta, i denti gialli e… anzi no, senza denti e pure zoppo! Si, necessariamente doveva esser stato così, solo a una persona tanto orribile poteva esser venuta in mente una cosa orribile come la scuola!

Camminando per i sudici viali della periferia di Bergamo, l’italo-austriaca ebbe un brivido, ripensando a quanto erano stati terribili gli anni passati come studentessa in Austria, sempre emarginata e presa in giro perché mezza italiana… ripensò a quando tutti l’avevano presa in giro perché sua madre lavorava nel mondo dello spettacolo, additandola come donna di facili costumi per la sua nobile professione d’artista…

Serena scosse il capo, deglutendo: basta, basta ripensare a le cose orribili che avevano insinuato sul suo conto…

E così, sforzandosi di pensare a qualcosa di meno brutto, decise di concentrarsi sul paesaggio attorno a se, man mano che si avvicinava alla scuola: un lungo viale di pietra, sporco e maleodorante, con i vestiti scesi ad asciugare fra le case, un piccolo viavai di massaie e operai, qualche sacco della spazzatura ai lati del marciapiede e pure un topo seminascosto su una grondaia arrugginita.

Lo sguardo della piccola si concentrò sull’animale: magro, deperito, con due costole visibili tanta era poca la carne su quella povera creatura…

Presa da un moto di disgusto e repulsione, la giovane distolse lo sguardo, tornando a guardare il vuoto: no, decisamente guardarsi in torno per cercare sollievo non era la cosa migliore, la periferia della città era un luogo squallido e decadente, ed era meglio farci il caso il meno possibile, a quanto facesse schifo.

Cosa le rimaneva da fare allora?

Innanzi tutto accelerare il passo, per fare prima, pensò fra se e se.

E così fece, iniziando a camminare a passo svelto: superò un piccolo naviglio e finalmente giunse in una strada ben più spaziosa del vicolo dal quale era appena uscita.

Si mise dunque a percorerla, passando sotto una fila di alberi ingialliti: mentre camminava, osservò la luce del sole filtrare tra le foglie degli arbusti, che di tanto in tanto si staccavano volteggiando al vento, per poi posarsi delicatamente al suolo.

A volte si chiedeva come mai le foglie cadessero così lentamente, se tutte le cose cadono alla stessa velocità nonostante il peso.

Aggrottò lo sguardo, contemplandone una che stava volteggiando da parecchio tempo: possibile che la gravità fosse diversa, per le foglie…

Così, d’istinto, alzò la mano, facendo depositare la foglia sul suo palmo.

Qui, si fermò e l’osservò: era leggerissima, quasi non si percepiva… che fosse quello? Forse, tutte le cose cadono uguali a discapito del peso, solo se il peso supera una certa massa critica… ma certo, doveva necessariamente essere così! Anche le piume e i coriandoli ci mettevano più tempo a cadere, dopotutto, e di certo nessuna delle tre cose aveva nulla in comune con le altre, se non il peso neppure percettibile!

La giovane Wagner sorrise, lasciando andare la foglia e lasciandole continuare la sua dolce e poetica caduta: possibile che così, quasi per caso, avesse appena svelato uno degli infiniti misteri della natura con il semplice ragionamento e la semplice osservazione…?

“Esercitare liberamente il proprio ingegno, ecco la vera felicità” pensò, ricordando una delle frasi che le ripeteva sempre il padre quando lo osservava armeggiare con le sue macchine in fabbrica.

L’aveva pronunciata un certo Aristotele… chissà chi era, forse anche lui un ingegnere collega del babbo.

E doveva ammettere che aveva ragione… si sentiva quieta in quel momento, serena…

“…ahahah!!” la bimba scoppiò in una fragorosa risata, rendendosi conto come quello fosse anche il suo nome.

Don-don!

La campana, pensò fra se e se, udendo di colpo il tetro eco.

“Ahah… ah…” il sorriso le si congelò in volto.

Se era la campana vuol dire che era in ritardo. In Austria non era piacevole essere in ritardo. Lì in Italia poteva essere solo peggio.

E deglutendo, la bambina iniziò quasi a correre per la strada.

“Zum Teufel die Erfinder von Schulen!!” fu l’ultima cosa che pensò prima di svoltare in direzione del ginnasio. E lo pensò in tedesco, che faceva più cattivo.

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Diritto davanti lo specchio, Francesco, osservava la sua figura. Nonostante facesse ancora caldo aveva indossato i soliti vestiti da scuola: lo rendevano più serio, più maturo. Notò con piacere come le maniche gli andassero un po' corte, risultato dei pochi centimetri dei quali era cresciuto durante l’estate.

Nonostante i suoi quasi quattordici anni aveva ancora il corpo di un bambino.

Scese dabasso e raggiunse suo padre in sala da pranzo. Nicola, questo era il nome del babbo: professore di storia al liceo, aveva ripreso a lavorare da un paio di giorni. In quel momento non mangiava ancora ma fissava il vuoto mentre passava le dita su un libro aperto.

"Buongiorno figliolo" disse mentre Francesco era ancora sulla soglia.

"Buongiorno padre" rispose lui, avvicinandosi per prendere posto a tavola.

Il genitore aveva perso la vista due anni prima della sua nascita, ciononostante era in grado di riconoscerlo dalla cadenza del passo, quando gli si avvicinava da lontano.

"Buongiorno Francesco" fece sua sorella Margherita, che, mattiniera come al solito, aveva già preso posto alla destra di loro padre. Il posto di Venezia, gemella di Margherita, invece, era ancora vuoto.

La ragazzina fece il suo ingresso veloce come un fulmine, rossa in viso, a difficoltà tratteneva le risate: "Scusate il ritardo!" disse solare, toccandosi le guance accaldate: "Dovete capirmi, sono troppo emozionata per l'inizio della scuola!” spiegò: "Siamo in terzo anno, Margherita" esclamò: "Quest'anno studieremo filosofia" disse sognante.

La sorella le sorrise: "Non vedo l'ora, in effetti, scommetto che Platone sarà il più interessante"

"Socrate sarà meglio!" ribatté la sorella.

"Saranno interessati entrambi" cercò di calmarle Francesco.

Venezia lo ringraziò con un sorriso a trentadue denti: "Non vedo l'ora di scoprirlo io stessa".

Il primogenito se la rise sotto i baffi: condivideva lo stesso amore per la scuola delle sue sorelle e di suo padre,  tuttavia era certo che la maggior parte dei suoi compagni di classe avrebbe trovato esilarante la felicità della piccola Venezia per la ripresa delle lezioni.

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Pensava ancora a questo mentre camminava tranquillo per il viale che conduceva al ginnasio insieme alle sorelle.

Le classi femminili si trovavano in un altro edificio poco distante,  con il quale condividevano fra l’altro lo stesso cortile, separato da un muro di cinta alto tre metri. Presto si sarebbero separati.

"Cos'hai da ridacchiare tanto?" chiese Venezia. Prima che Francesco potesse rispondere un brutto colpo gli si abbattè sulla nuca.

"Ouch" gemette.

Non ebbe bisogno di controllare per sapere di essere stato appena colpito dietro la testa da un pallone, e sapeva perfettamente anche chi fosse il tiratore scelto.

"Vuoi iniziare il quarto anno portando quel maledetto pallone in classe, tu?" chiese, voltandosi verso il suo migliore amico.

Nicolò recuperò la palla e iniziò a passarsela con abilità dal piede destro, al sinistro, al ginocchio, alla testa e così via.

"Lo tengo nello zaino" gli rispose distrattamente, sorridendo ben poco credibile.

"Stiamo facendo tardi" protestò Francesco “E sbrigati, idiota" aggiunse.

Si avviarono dunque a tutta velocità verso la scuola, mentre Margherita e Venezia li salutavano da lontano.

"Il nostro penultimo anno" annunciò Nicolò con un sorriso "Sarà bellissimo, vedrai"

"Sarà impegnativo" gli ricordò Francesco: "E dovrai lasciare da parte il pallone per non essere bocciato"

Nicolò gli diede una spinta: ”Ma se sono più bravo di te"

Francesco rispose scherzosamente colpendolo con la cartella "Solo perché hai la fortuna di memorizzare tutto senza studiare" disse.

"Tu non verresti nemmeno a scuola, se non ci fossi io a ricordartelo" aggiunse, continuando a picchiarlo mentre quello si ammazzava dalle risate.

"Eih" una voce familiare li sorprese alle spalle: "Vi interrompo in un momento intimo?"

"Vittorio!" gridò Nicolò, affrettandosi ad abbracciare l'amico.

Francesco, Nicolò e Vittorio, la triade del terrore era ora al completo.

"Mentre venivo qui ho superato due ragazzi che dovevano essere nuovi" raccontò l’ultimo commilitone, mentre si dirigevano in classe: "Mi sembravano francesi" disse, con aria disgustata.

"No!" Esclamò Nicolò: "Odio i francesi!" "

Sempre meglio degli austriaci" gli ricordò Vittorio.

Francesco annuì distrattamente, osservando l'istituto femminile dalla finestra, mentre le campane rintoccavano: le lezioni erano appena cominciate, e sicuramente le sue sorelle erano già dietro i banchi in quel momento. Solo una ritardataria correva ancora per il viale.

"Gli austriaci sono davvero i peggiori" risuonò la voce di Vittorio, mentre Francesco osservava la ragazza.

"Ma anche i francesi non scherzano" insistette Nicolò.

La porta si aprì, tutti scattarono in piedi all'ingresso dell'insegnante.

La scuola era ufficialmente iniziata anche per loro.

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Mentre Renè entrava in classe pensava fra se e se quale fosse il modo migliore di presentarsi ai compagni: Avrebbe potuto esordire con un entusiasta "Bonjour a tout le monde!", per la gioia di grandi e piccini... e così non venir capito, perchè con origini francesi a Bergamo di sicuro c'erano solo lui e Cincin. Si sedette sul primo banco disponibile e, sovrappensiero, continuò a riflette: sicuramente un bel "buongiorno" era d'obbligo, ma cosa dire poi? "Quant'è bella Bergamo!" poteva esclamare. Se non fosse stato che la periferia di Bergamo era tutt'altro che bella, pulita o con qualunque altra cosa degna di merito, e la stessa struttura del ginnasio gli era parsa decadente. Si mise coi capelli a giocherellare col ciuffo castano: no, meglio evitare riferimenti a Bergamo. Allora un "Viva la scuola...?" ma chi voleva prendere in giro, tutti odiavano la scuola, tranne i malati di mente. Va bene, doveva buttarla sul personale, dire qualcosa di se come... "Buongiorno ragazzi, mi chiamo Renè, e sono un genio!" Sisi, bellissimo! Poi si grattò il mento, mentre in aula tutti correvano a sedersi: forse però un filo prematuro partire con il suo encomio il primo giorno a una classe di perfetti sconosciuti... Mmmsi, doveva buttarla sul lavoro, come faceva il padre quando si presentava e diceva che era imbianchino. Renè sorrise, proprio mentre il docente entrava: forse sapeva come presentarsi.

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L'assordante rumore di ventidue sedie che si spostano per consentire ad ogni ragazzo di alzarsi in piedi annunciò l'arrivo del professore. Era il professor Contagalli, quarant'anni portati malissimo ed una folta barba nera a coprirgli il mento.

"Buongiorno ragazzi, e ben tornati" disse sedendosi, solo allora gli studenti potettero fare altrettanto. "Iniziamo quest'anno scolastico con una bella notizia, abbiamo un nuovo compagno di classe" disse accennando un sorriso nella sua direzione "Prego venga, signor Os".

Renè avanzò verso la cattedra e si rivolse ai compagni con un sorriso, prese fiato ed enunciò la sua presentazione. "Buongiorno cari compagni! Mi chiamo Renè e sono un aspirante archeologo". Contagalli gli rivolse un sorriso imbarazzato, magari si aspettava una presentazione più dettagliata o meno originale. "Una gran bella aspirazione" disse infine "Non trovate anche voi? Tutti abbiamo delle ambizioni ed è per questo che tutti devono impegnarsi nello studio. Dovreste prendere esempio da Francesco Draghi, il primo della classe, tu cosa vuoi fare dopo gli studi, Draghi?" Prontamente un ragazzo seduto a primo banco scattò in piedi "Io vorrei fare l'avvocato" affermò "O magari il professore"

"Fantastico!" Esclamò Contagalli

"Sono due mestieri degni di grande stima..."

"Certo, se vuoi ammuffire dietro una scrivania son perfetti" Quello di Renè era stato appena un sussurro, non voleva certo far brutta figura col professore già dal primo giorno, ma il compagno di banco di Francesco Draghi lo aveva sentito ed era scattato subito in piedi.

"Parli di muffa proprio te, che nella muffa ci vuoi scavare!" Esclamò. "Piattelli!" Gridò sconvolto Contagalli. Il resto della classe, che aveva iniziato a sghignazzare si calmò immediatamente. "Vai con la faccia al muro" sospirò il professore. Piattelli si alzò con un ghigno trionfante e si avvicinò al muro con la faccia di chi ottiene un premio.

"Non è un bel modo per iniziare l'anno scolastico" sentenziò Contagalli, poi tirò fuori alcuni manuali di testo dalla borsa "Letteratura italiana" spiegò "A che punto eravate nella tua vecchia scuola Os?"

Colto alla sprovvista dalla domanda Renè si grattò il mento per ricordare, non che fosse mai stato molto attento durante le ore di letteratura, andiamo, bastava un autore a caso "Ehm" esordì "Foscolo" disse, eh sì, ricordava A Zacinto, dopotutto "Si Foscolo"

"Un po' indietro rispetto a noi ma non importa, va a sederti, Piattelli adesso ci ripeterà tutta la vita e le opere di Manzoni".

Mentre tornava al suo posto Renè si aspettava di vedere l'irruente compagno di classe preoccupato, ma non fu così, Piattelli si era voltato col più grande dei sorrisi verso l'insegnante ed aveva iniziato a parlare sicuro e con fare teatrale. "Per poter parlare della vita e delle opere di Manzoni, per poterlo comprendere come uomo, letterato e patriota, penso che potremmo partire da un'analisi della lettera a monsieur Chavet..."

Dal suo banco Renè godeva di un'ottima visuale della finestra, volse il suo sguardo fuori pensando a quali posti sconosciuti ed esotici avrebbe potuto esplorare magari andando in quella direzione per miglia e miglia, che direzione era poi? Ma certo, oriente, il muro di cinta del cortile proiettava ombra verso di lui. Appoggiò la testa alla mano e rimase assorto per alcuni minuti, pensando all'oriente.

Intanto Piattelli ripeteva a memoria le ultime parole del principe longobardo Adelchi e Francesco Draghi si era voltato verso il vicino di banco di Renè sussurrando "Ma come diamine fa ogni volta?".

"Ed il cosiddetto brodo della storia dei Promessi Sposi rappresenta dunque il coronamento della..." "Va bene, va bene" Contagalli sorrideva divertito "io avrei voluto punirti, Piattelli, ma purtroppo sono costretto a metterti un ottimo voto".

Mentre Piattelli tornava a posto non tratteneva le risate "Ecco come iniziare un anno alla grande" sussurrò a Francesco.

"Grande" disse Renè di rimando, sognante: "Si, la muraglia cinese è proprio grande..."

"Ma questo è cretino o mi prende per i fondelli?" Chiese Nicolò Piattelli ai suoi amici, sconcertato.

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Driiiiiiiin!

Suonò la campanella.

Lentamente, tutta la scolaresca si riversò nel cortile, per l’intervallo mattutino.

Cincin fu tra i primi a uscire, bisognoso d'aria.

Appena i suoi piedi scesero le scale di marmo e toccarono il terriccio del piccolo spiazzo che avevano per giocare, sorrise: respirò a fondo, sentendo l’aria fresca entrargli nei polmoni invece di quella pensante e viziata che si era accumulata in classe, una sorta di bunker anti-aereo dove Dio sa solo non si capiva perché non si potesse tenere aperta almeno una finestra per arieggiare o la porta socchiusa.

Professor Ippolito era un individuo strano e con delle strane fisime.

Non conosceva ancora nessuno ma, orecchiando un bisbiglio dei suoi compagni di classe aveva una strana fissazione, era, era, com’è che avevano detto? Misofobico, tipo.

Il giovane rampollo dei Candélabre aggrottò lo sguardo, mentre si sedeva su una sbilenca panchina in pietra all’ombra del grosso melo che incombeva sul cortile con la sua ombra.

Non sapeva cosa significava quel termine così strano, ma sicuramente andava a indicare qualcuno che aveva paura dell’aria fresca. E delle cose sporche, perché metà della lezione il docente l’aveva tipo passata a pulire la cattedra. Perfino mentre gli aveva detto di presentarsi ai compagni, con la coda dell’occhio l’aveva osservato lucidare il pomello della porta.

“Mah…” commentò il giovine, facendo spallucce.

Il mondo era pieno di gente strana.

Poi, alzando lo sguardo, si destò da quelle considerazioni: basta pensare a Ippolito, ora che c’era l’ora d’aria.

Così si guardò attorno: c’erano ragazzini che si rincorrevano, altri che chiacchieravano ridanciani… ma non conosceva nessuno.

Restò qualche minuto imbambolato, seduto a osservare cinque dei suoi coetanei prendere un pallone e giocare prima a un qualcosa che gli era parso calcio, ma che ben presto era degenerato in una sorta di misto tra il Rugby e il Basket, più precisamente nel momento in cui uno di loro aveva furbamente preso il pallone con le mani, un altro l’aveva placcato e un terzo, per sistemare le cose, aveva preso un grosso ramo da terra a mo’ di mazza.

Però, certo che li a Bergamo i ragazzi avevano sviluppato dei giochi veramente affascinanti: chissà come si chiamava ora l’azione di gioco che stava osservando, mentre i due contendenti scappavano all’interno dell’istituto per fuggire dal manesco battitore.

“ROMEO!! POSA SUBITO QUEL BASTONE, O APPENA RIENTRI TI BASTONO LE MANI!” urlò all’improvviso Ippolito, dall’uscio del portone.

Romeo trasalì e con una velocità sorprendente per la stazza lanciò il bastone dietro di se.

Tentando di fare la faccia più angelica possibile, nonostante fosse tozzo, basso e tarchiato, disse: “Quale bastone, signor professore??” e si sforzò di sorridere.

Ma Ippolito si limitò a fissarlo, truce.

Romeo deglutì.

“Ringrazia che è il primo giorno di lezione, e che non voglio iniziare la giornata sporcandomi le mani” mormorò il docente.

“Sissignore…” mormorò il virulento ragazzo, abbassando lo sguardo.

“E comunque…” aggiunse: “…visto che ti piace così tanto usare i bastoni, dopo vedremo se hai imparato a fare i problemi di geometria con i segmenti, durante l’estate”

Romeo trasalì: era sempre stato impedito nella geometria, e l’idea di mostrare davanti alla classe la sua incapacità nel capire concetti come il teorema di Pitagora e l’essere messo alla pubblica gogna lo terrorizzava.

“La prego, signor professore, mi prenderanno tutti in giro…” mormorò, arrossendo.

“Se hai studiato, non vedo cosa tu debba temere” rispose secco Ippolito, che era perfettamente conscio come la punizione che attendeva il ragazzo era ben peggiore che qualche dolorosa, e potenzialmente sudicia, bacchettata sulle mani.

Poi rientrò nell’edificio, continuando a buttare un occhio sul cortile dal portico.

Romeo ringhiò

Lì per lì a Cincin sembrò sul punto di esplodere: l’espressione inviperita, i pugni socchiusi, i denti digrignati… tutto davano l’idea al piccolo franco-italiano che il compagno di classe stesse per fare qualcosa di malsano, come dare la testa sul muro.

Invece questi di colpo si calmò e, afflitto, si trascinò fino in un angolo del cortile, lontano da tutto e da tutti, sedendosi al suolo.

Rimase a fissarlo qualche istante: era sicuramente un ragazzo stupido e manesco, dal vestiario anche poco facoltoso, forse di estrazione proletaria. Era grosso, forse il padre lavorava in fabbrica?

Tante domande, alle quali di certo non avrebbe risposto alzandosi e andandoglielo a chiedere di persona: un suo braccio era grande quanto la sua testa, e già solo quello era un motivo sufficiente a stargli lontano.

Così Cincin decise di guardare altrove, e concentrarsi su altro: tipo la misofobia di Ippolito. Scosse il capo, contrariato: ma no, ma perché aveva sempre questa brutta abitudine di ripensare alle parole strane che sentiva? Come a lezione, gli ci erano voluti dieci minuti buoni dopo essersi presentato per non pensare più ad Isaac Newton! A proposito di Newton…

Il ragazzo alzò lo sguardo, verso le frasche dell’albero che lo sovrastava: era un melo, proprio come quello del racconto di Newton.

E infatti, esattamente sopra la sua testa, una grossa mela rossa che penzolava. Sorrise, contemplandola: possibile, che potesse cadere solo perché un tizio secoli prima aveva inventato la gravità? Ma poi, cos’era esattamente questa gravità…? Una cosa che faceva cadere le mele??

Cincin batté le palpebre. Per un istante si sentì spaesato: le mele..? Ma non solo le mele cadevano! Cadeva di tutto, dalla matita alla gomma, dalla pioggia alla torre di Pisa, tutto pendeva e cadeva, al mondo! Ecco cos’era la gravità, ciò che tutto faceva pendere e cadere!

Sorrise, entusiasta.

Non era sicuro di ciò che aveva compreso, ma aveva compreso qualcosa di grandioso, ne era certo. Qualunque cosa fosse.

Poi tornò a guardare la mela: eccola lì, che penzolava. Però ora era troppo curioso, voleva vederla cadere!

Così, il giovane Cincin si mise in piedi sulla panchina e tentò si protrarsi verso il frutto: si braccio, mettendosi in punta di piedi, e saltò. Niente, la sua mano non arrivò neppure a sfiorarlo.

Si morse un labbro e riprovò, con maggiore forza.

“Ngh…” mormorò, senza riuscire comunque nell’impresa.

Sospirò, sedendosi: era troppo basso, e troppo poco bravo a saltare.

Guardò il frutto, ancora ben saldo al ramo: chissà come aveva fatto Newton, a farlo cadere… forse era stato alto tre metri, e l’aveva preso senza sforzo, altro che il suo metro emmezzo scarso…

Poi il giovane si grattò i capelli castani: cavoli, eppure doveva esserci un modo per i nani come lui, di raccogliere le mele su gli alberi e farle cadere!

Si sorresse il gomito con il ginocchio e il mento con la mano e, ricurvo, si mise a pensare: cosa, cosa avrebbe potuto aiutarlo? Una scala avrebbe detto il buon senso, ma il giovane Candélabre ebbe un altra intuizione: un aereoplanino di carta!

“Ma certo!” esclamò fra se e se.

Una macchina voltante, che arrivasse fin lassù, tranciasse il picciolo e facesse finalmente cadere l’agognato frutto!

Nemmeno per un istante Cincin pensò a quanto fosse bislacca la sua intuizione e, nei fervidi minuti creativi che seguirono, il giovane si procurò un robusto foglio carta, un matita che aveva in tasca e creò un grosso aereoplanino, semplice ed essenziali, con due grosse ali spigolose.

Sorrise: cos’altro gli rimaneva da fare, prima del lancio e di osservare la mela cadere? Ovvio, fare una dedica sulla macchina volante: ci pensò su qualche istante, poi scrisse e, una volta finito, aveva un espressione entusiasta sul volto.

Si mise in piedi sulla panchina, alitò sulla punta e, prendendo la mira…

Swing!

Lanciò l’aeroplanino!

Col fiato sospeso, Cincin osservò la propria creazione librarsi nel cielo, verso il sole, staccarsi dal suolo e opporsi alle forze cosmiche che tutto tiravano in giù, verso la mela.

Swung!

“?!”

Di colpo, una folata deviò l’aereoplanino.

Allibito, Cincin lo osservò deviare completamente dalla traiettoria prevista, piroettare e volare oltre il muro divisorio che li separava dal cortile delle ragazze.

“…”

-

Serena stava seduta appoggiata al muro, silenziosa. Era stata messa all’angolo, per esser arrivata in ritardo. Il professore aveva pure fatto brutti commenti sul fatto che fosse austriaca. Le aveva sentite le compagne, ridacchiare di lei, mentre tornava a sedere. Proprio come in Austria. Anzi, peggio, lì almeno il primo giorno nessuno aveva riso sprezzante perché era per metà italiana.

La rampolla dei Wagner giochicchiò con una ciocca di capelli neri, con lo sguardo triste, terribilmente triste. Perché, perché aveva avuto la disgrazia di nascere a cavallo fra due nazioni…?

Ripensò ancora alle risatine. Dio, che fastidio, avrebbe voluto vederle loro, messe alla berlina per la loro origine e poi con le spalle al muro in piedi per mezz’ora. Carogne.

“Sigh…” mormorò, trattenendo un piccolo singhiozzo.

Alzò leggermente lo sguardo: osservò tre delle sue compagne giocare a saltare la corda, altre cinque a mosca cieca e un altro gruppetto a “un due tre, stella!”. Sembravano tutte divertirsi, lei era l’unica in disparte, all’ombra di quel grigio e sbilenco muro che divideva il loro cortile dai maschi.

Perché quella cosa poi, non capiva. In realtà, non capiva tante cose della società in cui viveva, e di cui prendeva semplicemente atto.

Osservò il muro, i mattoni scrostati sotto l’intonaco, i rampicanti che lo ricoprivano… chissà se qualcuno aveva mai provato a scalarlo, così, per il gusto di fare da tramite per le due facce di quello che era ginnasio.

Istintivamente si alzò e, spolverandosi un po’ la gonna, si avvicinò e toccò la pietra: brutta e sporca, ma solida. E con abbastanza incrinature da permettere a una persona leggera e agile di arrampicarcisi, probabilmente. E lei lo era.

Alla bimba venne per un istante l’idea di provarci, così, solo per vedere se la sua osservazione era corretta o fallace. Ma solo un istante, poi si ricordò che era a scuola e che, certamente, non era permesso scalare.

Sospirò, osservando nuovamente quel muro: chissà com’era, guardare dalla sua cima, tutto il cortile…

Swing!

“…?”

La ragazza osservò, in controluce col sole, un grosso aereoplanino di carta volteggiare nel cielo, per poi planare a pochi centimetri dalle sue gambe.

Incuriosita, si chinò a raccoglierlo e l’osservo, spolverandolo dal terriccio: geometria semplice ma funzionale, grosse ali e forma squadrata, carta solida e robusta, di ottima qualità. Chissà chi ne era il creatore… così lo osservò meglio, rigirandoselo fra le manine.

“!”

Una scritta, sull’ala destra, fatta con una matita.

Inconsciamente, un sorriso le spuntò in volto e, curiosa, la lesse:

 

“Macchina voltante costruita per studiare la gravità, in onore di Isaac Newton, delle mele e in pace a nome di tutta l’umanità”

Serena piegò la testina, perplessa.

Quello che aveva tra le mani era un esperimento…?

Allora chi l’aveva costruito ne aveva bisogno, era finito dall’altra parte del muro per sbaglio, ne era sicura! Ma come rimandarglielo, ora che la punta era tutta stropicciata?

La giovane si tirò una ciocca, come faceva spesso quando si trovava davanti un problema che sentiva avesse urgenza di risolvere.

Poi sorrise: non v’era che una soluzione, rifarlo.

Così, senza esitare ulteriormente, rientrò in classe, agguantò anch’essa un foglio, un pennino e si mise a creare.

Impiegò circa due minuti, ma alla fine da banco della giovine uscì fuori un arzigogolatissimo aereoplanino di carta, con sei ali e una forma stranissima.

Rigirandoselo fra le mani, Serena contemplò la propria creazione: gran cosa la geometria.

Che rimaneva da fare dunque, prima di rilanciarlo dall’altra parte e permettere al nobile scienziato che stava studiando di continuare a studiare?

Ma certo! La dedica!

Così anche lei ci scribacchiò sopra, questa volta sull’ala sinistra.

E, finalmente, tornò in cortile.

Si avvicinò al muro, si stiracchiò le braccia e, prendendo la mira…

Swing!

L’aereoplanino sfrecciò in volo con una serie di evoluzioni, ruotando più volte su se stesso in una serie di coreografie particolarmente complicate e via via più grandi, fino a superare piroettando in un volo della morte il muro.

Serena lo contemplò finché non scomparve alla sua vista, salutandolo con la mano entusiasta.

-

Cincin sospirò, sedendosi.

Aveva fallito.

“Evvabeh…” mormorò, facendo spallucce.

Infondo non era scienziato lui. Era archeologo.

Sorrise, ripensando a quella mattina mentre chiacchierava con Renè, e parlava delle sfingi… chissà quant’era meraviglioso l’Egitto, terra di mistero, di avventura, di antichi saperi e maledizioni…

Swong!

“…?!”

Il ragazzo osservò un aereoplanino planare dolcemente ai suoi piedi, dopo una serie di stupende piroette. Mai aveva visto un aereoplanino non sfracellarsi al suolo durante la fase di caduta. E mai aveva contemplato anche solo l’idea che potessero esser fatti con più di due ali.

Accennò un sorriso, spaesato. Ma cosa stava succedendo, di grazia? Da dove arrivava, quel coso…?

Si guardò intorno: chi giocava a nascondino, chi col pallone, Romeo ancora ad autocommiserarsi… nessuno dei suoi coetanei stava sperimentando nella nobile arte dell’areomodellismo… possibile, possibile che fosse venuto da dietro il muro…?

Si girò, osservandolo: ma certo, poteva solo essere così. Ma perché?! Possibile, possibile che qualcuno dall’altra parte avesse visto il suo, e ne avesse costruito un altro da rimandare in dietro…?

Il ragazzo scosse il capo, non era possibile.

Poi però, istintivamente, guadò fra le ali: sulla sinistra, un messaggio in bella calligrafia:

 

“A chiunque abbia costruito la prima macchina voltante, eccone un altra per continuare a studiare la gravità. Spero sia ugualmente adatta, e di esserle stata utile. In pace a nome di Aristotele e di tutta l’umanità”

“…”

Era possibile.

Cincin sorrise. Sorrise entusiasta e meravigliato, rigirandosi delicatamente quell’areoplanino fra le mani, come fosse un piccolo prodigio. Non sapeva chi fosse la sua creatrice. Ne’ chi fosse Aristotele. Ma di una cosa era certo, erano due cose che doveva scoprire, assolutamente.

Driiiiiiiiin!

Suonò la campanella.

E il rampollo dei Candélabre, ancora assorto nelle proprie domande, s’indirizzo sovrappensiero verso l’uscio del cortile, insieme agli altri ragazzi mentre Ippolito si sgolava per richiamarli a rapporto.

Poco dopo il cortile, prima tanto rumoroso, diventò silenzioso silenzioso.

Splash!

Fu l’ultima cosa che si udì, come di una mela che si spiattella al suolo.

 

TO BE CONTINUED…

   
 
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