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Autore: CowgirlSara    20/04/2005    11 recensioni
Quando in una notte che senti estranea, mentre i ricordi ti assalgono, la voce dell'amore chiama, tu non puoi che rispondere.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alessandro il Grande, Efestione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Io un giorno arriverò al confine del mondo

Questa storia è frutto di un’ispirazione fulminante, spero che gli eventuali lettori la gradiranno; i personaggi sono ovviamente storici, ma non è con la storia che hanno a che fare. Ringrazio anticipatamente chi vorrà lasciare un commento. I versi in introduzione sono tratti dalla canzone “Oriente” dei Nomadi, contenuta nel cd “Corpo Estraneo”. Baci a tutti!

~ Il Richiamo ~

 

“Amor

Che guardi verso oriente

Verso il mare

Qual è il nome che pronunci piano

Prima di dormire”

 

“Un giorno arriverò al confine del mondo!” Proclamò Alessandro, indicando l’orizzonte di quell’estate giovane come le loro vite.

Efestione, seduto sul prato, gli sorrise con scettica tenerezza. “Pensa se quel confine non esistesse.” Mormorò poi, ironico. “E se, arrivato alla fine del viaggio, tu ti ritrovassi al punto di partenza?”

Alessandro si girò verso di lui, lanciandogli un’occhiata torva con i suoi occhi così particolari, poi corse verso di lui e gli piombò addosso stendendolo sull’erba.

“Quello che dici è impossibile.” Gli disse serio. “Dopo quel confine c’è solo il mare, un grande oceano e io mi ci tufferò, e nuoterò fino al punto in cui confina con il cielo!”

Efestione sorrise e gli carezzò i capelli. “La tua impresa, è impossibile, non basterà una vita intera per raggiungere quel confine.” Affermò con dolcezza.

“Allora morirò provandoci!” Dichiarò sicuro l’altro ragazzo, fissandolo con decisione; Efestione lo guardava, come sempre preoccupato della sua irruenza.

All’improvviso, però, il volto di Alessandro si rabbuiò ed un’ombra d’ansia passò nei suoi occhi scintillanti.

“Tu verrai… verrai con me, vero?” Chiese all’amico, afferrandolo per le spalle.

“Ovunque.” Rispose Efestione; allora Alessandro sorrise e lo abbracciò.

Rimasero sul prato, mentre il sole cominciava a calare ad occidente, stretti l’uno all’altro, cullati dal frinire delle cicale, sotto un cielo azzurro cobalto.

 

No, non dormiva. Stava steso sul letto, con gli occhi chiusi, a domandarsi come il ricordo di quella remota estate potesse essere così vivido nella sua mente; rammentava perfino gli odori, e gli sembrava impossibile.

Eppure era tutto così reale, reale come gli aromi delle piante medicinali, come l’erba verde e fragrante, bagnata dalla rugiada del mattino, come la pioggia improvvisa e balsamica, fastidioso come i gelsomini sotto il sole del pomeriggio.

La sua mente… sempre rivolta al futuro, protesa verso nuovi confini e orizzonti, alla ricerca perpetua di qualcosa… qualcosa ancora…

Credeva di aver conservato solo ciò che gli serviva per essere un re ed un generale, dai suoi studi di ragazzo, ma erano rimasti anche quegl’odori, i gesti, gli oggetti; chissà perché ci pensava ora.

Stava cavalcando tra gloria e conquiste sempre crescenti, era imperatore, faraone, figlio degli Dei e favorito da essi, nessun nemico era tanto forte da resistergli, nessuna battaglia troppo ardua per essere vinta; eppure la sua fame non si placava e cresceva il desiderio di andare avanti, per guardare in faccia la fine di tutte le cose.

E più andava avanti più la sua inquietudine cresceva, era impaziente, come se ogni montagna che valicava, fiume che guadava, nemico che sconfiggeva lo portasse più vicino a ciò che stava cercando. Ma cosa stava cercando?

La pace sentiva di averla perduta, forse, mai posseduta; c’era stato un tempo, un luogo, dove avesse trovato la serenità?

Sì, esisteva quel luogo, e quella notte si era trasformato in un bisogno, che gridava in tutto il suo essere, con voce più alta di qualsiasi altra, una voce antica e pura, di conforto e salvezza.

 

Aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu l’opaca luce aranciata di una lampada, poi la pesante tenda che copriva l’unica finestra di quella opprimente camera; il vento la faceva gonfiare lievemente e poi la risucchiava nel vano, tutto con un rumore sordo e ritmico. L’incenso si consumava nel braciere con un filo di fumo verdastro, in un angolo, diffondendo nella stanza una fragranza sconosciuta e cupa.

Alessandro girò il capo e guardò la donna che aveva sposato; sapeva perché l’aveva fatto: lei rappresentava quell’orizzonte che lui continuava ad inseguire e che balenava nei suoi occhi, neri come laghi di pece, ardenti nel presente, ma remoti e misteriosi. Irraggiungibili, proprio come quel confine che, forse, Alessandro non avrebbe afferrato mai.

Lei lo aveva attratto, conquistato, divorato, ed ora, soltanto dopo poche settimane dalla loro unione, tutto era finito, come un fuoco arso troppo in fretta, di cui rimaneva solo acre cenere.

Sì, avere una moglie gli era utile, e Roxane era il compromesso ideale, ma ora era infastidito dal suo sapore che ancora sentiva sulle labbra, troppo dolce troppo amaro, dal suo corpo abbandonato e languido nel sonno, accanto a lui, dell’odore di essenze e oli, che formavano strati sulla sua pelle d’ambra, dalle sue forme femminili che disegnavano curve sinuose tra le coperte.

 

Si liberò con uno strattone dal pesante lenzuolo scuro ricamato d’oro, che lo aveva avvolto troppo strettamente, poi si mise seduto sul bordo del letto; il vento che filtrava attraverso la tenda gli portava alle narici l’odore dell’incenso e quello della sua stessa pelle, e quell’odore non gli piaceva. Sapeva di lei, dei loro corpi confusi nel sesso, del sudore.

Posò le mani ai lati del suo corpo, fissando la finestra davanti a se. Non si era mai chiesto se le sue decisioni fossero giuste o sbagliate, il suo scopo era chiaro nella sua mente, il disegno preciso; perché farsi domande, quando c’era qualcuno che si fidava di lui? Non avrebbe mai tradito quella fiducia e, dunque, non avrebbe mai sbagliato.

Ora, però, si poneva domande, aveva esitazioni e timori nel fare quello di cui non si era mai vergognato. Quante volte, da ragazzo, ritornato a Pella dopo gli studi con Aristotele, era sgusciato via dal suo letto, di notte, per rifugiarsi dove c’era la pace e l’amore?

Quindi perché aver dubbi ora? Perché c’era questa donna? Questa straniera fatta di fuoco, questa estranea che bruciava il suo corpo lasciando intatto il suo cuore. Sì, perché il cuore era protetto, avvolto da un guscio invisibile e impenetrabile, o, addirittura, lui non aveva più un cuore in petto, perché qualcun altro lo conservava con cura al posto suo.

Si guardò intorno, rendendosi conto all’improvviso che, la prigione in cui si stava trattenendo, non era altro che una gabbia aperta, niente chiavi, né guardie, solo vecchie ombre come sbarre. E Alessandro non amava le vecchie ombre.

Le scacciò con un gesto della mano, mentre si alzava. Afferrò qualcosa da mettersi, non era altro che un panno rosso scuro, come il sangue, ma se lo avvolse sui fianchi ed uscì dalla stanza.

 

Quando Alessandro scomparve attraverso l’arco scuro che conduceva alle scale, Roxane aprì gli occhi; guardava fisso davanti a se, il posto vuoto lasciato da lui, ma non fece un movimento, solo, strinse i denti. Sapeva dove stava andando, la battaglia per quella notte era persa, ma lei non si sarebbe arresa. La guerra era lunga. Forse non avrebbe avuto di più da Alessandro, magari nemmeno le interessava, ma la posizione conquistata nessuno gliel’avrebbe portata via. Mai.

 

Alessandro, nel frattempo, scendeva in fretta le scale, strette tra le mura scure, sentendosi sempre più oppresso; quando uscì all’aria aperta gli sembrò di ricominciare a respirare dopo un’eternità.

Ansimava, appoggiato con la schiena contro un muro, il cortile era buio e silenzioso; alzò gli occhi, ma non vide la luna, solo un cielo lontano e pieno di stelle. La voce del bisogno rombava ora più forte nelle sue vene.

Il suo respiro, infine, tornò normale, così fece per muoversi, ma si ricordò di qualcosa.

Alzò un braccio e lo avvicinò al viso, annusando la sua pelle; trovò l’odore rivoltante e offensivo, non poteva andare in quelle condizioni, non poteva portarla con se. Si spostò lentamente, circospetto, verso un barile pieno d’acqua che stava in un angolo, ma si fermò dopo pochi passi.

Cosa stava facendo? Lui era l’imperatore, perché si stava muovendo come un ladro nella sua proprietà? Nemmeno nelle limpide notti macedoni, quando tentava di sfuggire all’ossessivo controllo di sua madre, era stato così attento. Gli venne da ridere.

Raggiunse a lunghi passi il barile e ne scostò il coperchio; affondò la testa nell’acqua fredda, gettando poi indietro i capelli, quindi prese un ramaiolo di legno e si gettò l’acqua sul corpo, bagnandosi completamente. Voleva purificarsi. Usò le mani per lavare gli odori della prima parte di quella notte, poi si bagnò di nuovo, lentamente, per ritrovare la sensazione di pulito. Quando ebbe finito si scosse i capelli bagnati, strizzò il panno e se lo rimise sui fianchi.

 

Adesso era pronto a rispondere al richiamo che lo invocava dal silenzio di quella notte.

 

Oh, se conosceva quella voce! Aveva imparato ad amarne ogni sfumatura da quando era poco più che un bambino e la riconosceva anche quando, come adesso, gli parlava da un luogo altro, dalle profondità di se stesso, senza parole.

Lo aveva cullato, nelle veglie estive, riscaldato, nelle notti d’inverno, chiamato, nelle stanze dei palazzi, confortato, prima delle battaglie, eccitato, nei sussurri dell’alcova, accompagnato sempre, sotto cieli stranieri. Come la persona cui apparteneva.

Nemmeno per un minuto aveva pensato di poterne fare a meno, non un matrimonio può cambiare le cose. Perché mangiare non significa nutrirsi. Perché può mancarti il pane, ma non l’unica cosa che ti tiene in vita.

Si rendeva conto, però, che era avvenuto un distacco strano, dopo le nozze. Lui lo aveva ignorato, l’altro lo aveva evitato, come ci fosse una specie di accordo non detto, a proposito di lasciar andare le cose come venivano, di aspettare.

Ma il richiamo reciproco non si era mai fermato, lo avevano dominato, costretto nelle viscere, soffocato, ma lui era là, imperioso, e rialzava sempre la testa. E stanotte la voce era diventata un grido, un ordine, che aveva strappato Alessandro da ogni catena che lo aveva trattenuto nei giorni passati. Quella era una battaglia che non aveva mai voluto combattere, perché la sapeva persa, quindi perché cominciare ora?

Attraversò un arco e salì altre scale, conosceva la strada, l’aveva fatta un paio di volte, anche di giorno, fermandosi sempre, e poi l’aveva ripassata a lungo nella mente.

L’entrata della stanza era coperta da una tenda pesante e troppo lunga, arrivava a terra formando un complicato drappeggio, lasciando appena uno spiraglio da cui filtrava una luce azzurra e opaca. Alessandro si avvicinò, facendo per scostarla, ma si trattenne.

Rimase per un attimo lì, in piedi, immobile, a farsi cullare dal battito impazzito del suo cuore; era emozionato, quell’emozione che non ti potrà dare mai una battaglia o una scoperta, ma soltanto il primo bacio, la prima carezza d’amore, lo sguardo di chi ami. Non erano passati che pochi giorni, eppure sembrava di essergli lontano da anni. Era imbarazzato di essere stato lui a cedere, ma sapeva che questa unica debolezza era, in fondo, la fonte della sua forza, una resa che era vittoria.

Se non avesse scostato quella tenda e non fosse entrato, non avrebbe ritrovato lo stimolo ad andare avanti; la sorgente della sua energia vitale era là, solo pochi passi li dividevano.

 

Alessandro oltrepassò al tenda, e scoprì che quella notte c’era la luna.

Era bassa, a oriente, evidentemente le alte mura del cortile la coprivano, ma quella stanza era esposta ad est e non c’erano tende alla finestra; dunque, quei luminosi tre quarti di luna, rischiaravano la camera, disegnando ombre opache tra gli oggetti. Qualcuno dormiva, dandogli le spalle, con addosso una coperta scura, ricamata d’argento come fosse trapuntata di stelle.

Alessandro si avvicinò al letto, disegnando con lo sguardo quel corpo così familiare, conosciuto, esplorato, ma sempre nuovo, sempre così diverso nelle sue esigenze, nei suoi desideri.

Adesso che era arrivato lì, non sapeva cosa dire, cosa fare, come se fosse la prima volta; pensandoci bene, nemmeno la prima volta era stato così indeciso.

La situazione venne risolta per lui. Efestione sospirò profondamente, poi si voltò verso di lui. Non dormiva, lo aveva sentito, era ben sveglio e ora lo guardava, come in attesa.

Alessandro l’osservò, nelle luce pallida della luna; era scoperto fino alla vita, teneva un braccio sollevato all’altezza della testa e, anche nella penombra, si distinguevano le parti più chiare della sua pelle, dove non era arrivato il sole. Bellissimo, più di come lo ricordava, più di quanto aveva pensato vedendolo quella mattina. I capelli castani un po’ scomposti, i grandi occhi scuri che lo fissavano attenti.

“Mi hai chiamato?” Riuscì infine a mormorare Alessandro, aggrottando la fronte.

Le labbra di Efestione si piegarono in un lieve e dolce sorriso, mentre osservava l’espressione incerta e colpevole di Alessandro; non era facile vederlo in difficoltà e questa cosa gli faceva tenerezza. Allo stesso tempo, si sentiva così colmo di felicità da poter scoppiare, era tornato, tornato da lui… il cuore gli batteva nella gola, fermandogli il respiro.

Il viso di Alessandro era accarezzato dai raggi della luna, i capelli biondi bagnati e tirati indietro facevano risaltare i suoi occhi chiari; di notte non si poteva notare la loro particolarità, Efestione, però, conosceva bene quegl’occhi, da alcuni giudicati inquietanti, ma che lui amava. Erano diversi. Il destro era certamente azzurro, con sfumature dorate, mentre il sinistro era grigio con lampi blu. Questo metteva a disagio le persone, ma a lui non era mai successo, fin dall’inizio, mai.

Perché loro si appartenevano da prima, da un tempo che nemmeno lui sapeva, e Alessandro non era ancora nato che lui già aveva dentro quegl’occhi; la sua vita era cominciata il giorno in cui aveva incontrato il suo sguardo. Avrebbe dovuto sapere che nulla avrebbe mai tenuto Alessandro lontano da lui, ma aveva ceduto ai dubbi, a tratti alla disperazione, in quei giorni di lontananza; adesso però, davanti a quegl’occhi, era così chiara la verità.

Efestione scostò le coperte. “Sapevo che mi avresti sentito, mio dolce Alessandro.” Gli rispose dolcemente; l’altro s’infilò nel letto e lo abbracciò forte, nascondendo il viso contro il suo collo.

La memoria dei giorni, degli anni, passati tornò immediata alla mente di Alessandro; Efestione sapeva di buono, sapeva di casa, era la sua casa. Sentì le sue mani calde carezzargli la schiena, scorrere sulla pelle resa fredda dall’acqua usata per lavarsi, e si rilassò contro il suo corpo caldo, in un tepore familiare e confortante.

Efestione gli passò le dita tra i capelli bagnati e Alessandro sollevò il capo, si guardarono negl’occhi; in quello sguardo il tempo si era fermato: erano fanciulli, adolescenti, uomini allo stesso tempo, erano sempre esistiti, erano sempre stati insieme e lo sarebbero rimasti per l’eternità.

Si scambiarono un bacio lento e dolce, non c’era bisogno di altre parole, il richiamo dell’amore aveva già parlato per loro e quella era l’unica risposta che voleva.

  

   
 
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