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Autore: Simply Yeats    06/11/2017    1 recensioni
[Joaquin Phoenix]
Gloria sogna fin da quando era ragazzina di diventare un'attrice di successo. Vive la sua adolescenza sognando su qualcosa di difficilmente realizzabile, rifiutando di impegnarsi a scuola. A soli 14 anni incontra casualmente Joaquin Phoenix per le strade di Roma, ma ciò rappresenterà solo un evento di breve durata e non avrà particolare influenza sui suoi anni futuri.
Il vero cambiamento avverrà diciotto anni dopo, quando, per chissà quale scherzo del destino, lo incontrerà nuovamente nel giorno della Vigilia di Natale.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona (Joaquin Phoenix), nè offenderla in alcun modo.

Quando incontrai per la prima volta Joaquin Phoenix avevo appena 14 anni.
 Correva l’anno 1999. Lui era una star semi-emergente, io una studentessa indisciplinata dal futuro incerto.
Joaquin si trovava a Roma per chissà quale evento, ma allora non si era mai troppo informati su ciò che facevano o non facevano i vip, e difatti, non ne ero venuta a conoscenza.
Erano le 15:13 del Luglio ’99 quando lo vidi passare per via Condotti. Con “lo vidi passare” non intendo dire che io mi trovassi a Spagna e da lì lo avessi intravisto tra la folla; intendo dire che alla stessa ora dello stesso giorno e dello stesso anno, io e lui ci incrociammo in quello scorcio di via Condotti; che calpestammo lo stesso suolo a distanza di un secondo l’uno dall’altro e che fra decine di persone che battevano i loro tacchi su quella strada contemporaneamente a noi, soltanto io lo riconobbi.
Ebbi il tempo di girarmi, per assicurarmi di non avere commesso un errore e tornai d’istinto sui miei passi senza in alcun modo riflettere su ciò che avrei voluto dirgli.
-Joaquin! - Lo chiamai, sfiorandogli appena una spalla, ostacolata dal suo passo veloce. E lui si girò.
Quando lo vidi voltarsi e potei finalmente inquadrare il suo volto, a pochi centimetri dal mio, non seppi cosa dire.
- Hi. - esordì lui, con l’aria di chi giustamente si aspettava qualcosa come “una foto e via”.
E invece rimasi muta come un pesce.
Certo che nel frattempo il caos della via non si placava, non si chiudeva a sua volta nel silenzio di quegli istanti... anzi , sembrava farsi più intenso. Cominciai a sentire il mio corpo surriscaldarsi, succede sempre quando si è in imbarazzo, no? Come se tutto il sangue contenuto nel mio corpo stesse iniziando a ribollire, mentre la faccia, presumibilmente divenuta d’un accesso rosso carminio, mi bruciacchiava e mi prudeva come quando ti ha appena punto una zanzara. Dicono sia il sudore a scatenare questa reazione, ma a quell’età, nella mia ingenua ignoranza, mi limitai a dire qualcosa come “è stata colpa di Joaquin Phoenix!” (che di solito pronunciavo Gioachin Fòenics, e grazie al cielo, non lo avevo chiamato per cognome). 
- Hi. - risposi finalmente, dopo svariati istanti di esitazione - You... You-you are - continuai, balbettando esattamente come il maialino dei Looney Tunes. Gli chiesi se lui fosse Joaquin Phoenix. Chiaramente era Joaquin Phoenix, ma nell’ansia del momento e per di più senza conoscere bene la lingua, cosa mai avrei potuto chiedergli? Avrei soltanto voluto scappare e cancellare tutto quello che era successo.
Quando mi rispose con un palesissimo “Yes!”, scoppiai nella risata più forzata ed imbarazzante di tutta la mia vita. E cosa poteva fare quel poveretto? Ricambiò con un sorriso almeno tre volte più forzato del mio, un sorriso che celava pensieri come “Che diavolo vuoi?”, “Posso andare adesso?”, “Fatti fare questo maledetto autografo e finiamola qua.”
Non avevo con me né una penna, né un pennarello, né tantomeno un pezzo di carta. Consapevole soltanto dell’ultimo problema gli tesi d’istinto il mio braccio sinistro e balbettai: “ A-a-autografff?”.  Si, proprio così, un autografo sul braccio.
Mi chiese se avessi una penna. Lo capii dalle parole “have” e “pen” e ricaddi nuovamente in quella sensazione di profondo sconforto di quando si era girato dicendomi “Hi.”.
Non avevo una penna. Non avevo neanche una macchina fotografica. Non avevo niente che mi permettesse di testimoniare quell’incontro.
- Ah... no, I-I don’t have a pen. - Risposi dando finalmente sfoggio delle mie sottospecie di abilità in Inglese.
- Oh, ehm... I’m sorry. - disse lui, insieme a qualcos’altro che non capii.
Lo ringraziai intercalando una serie di “sorry” tra un “Thank you” e l’altro. Ci salutammo velocemente e ognuno riprese la propria strada.
Non lo vidi più, naturalmente. 
Non lo vidi più fino alla Vigilia di Natale di diciotto anni dopo.
  
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