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Autore: Nadine_Rose    06/11/2017    0 recensioni
Nadine ballava, rideva ed era viva.
[Continuo di “Un amore diviso da un filo spinato”]
Nadine e Werner sedettero vicino alla riva del lago all’ombra di un’alta conifera e restarono lì, stretti l’uno all’altra, avvolti dall’aria fresca dell’estate berlinese mentre dentro di loro scoppiava la primavera. Una nuova stagione era cominciata per la loro vita ma i due contavano ancora i loro inverni.
[Capitolo 33: Il dono della vita]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
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Capitolo 30

 

Tra sorrisi accesi e lacrime asciutte

 

“Forse la vita è come un fiume che va al mare. Non è andata dove intendeva andare, ma è finita dove aveva bisogno di essere”.

Fabrizio Caramagna

 


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Città di Fürstenberg/Havel, 1 luglio 1968

 

Dopo una lunga giornata di lavoro, Nadine tornò a casa. Ad accoglierla il buio e il silenzio, binomio perfetto per concludere un malinconico compleanno. Questa volta, per qualche strano motivo, nessuna delle persone a lei più care lo aveva ricordato, nemmeno suo marito e suo figlio. Si appoggiò con una mano alla parete e, dolorante, sfilò dai piedi le décolleté, tirando un sospiro di sollievo. Nel giorno del suo compleanno era sempre difficile non richiamare alla mente Ravensbrück, coincidendo infatti con il suo ultimo giorno di libertà prima della deportazione, e da lì, fare un bilancio della propria vita intervallato da tanti se e perché. In momenti come quelli, si domandava come sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate diversamente, se non fosse mai stata deportata a Ravensbrück oppure se fosse riuscita a scappare prima con Kurt. A tal proposito, non provava rimpianti perché di sicuro non sarebbe diventata la donna che era, non avrebbe mai incontrato Werner e suo figlio non sarebbe stato Andrej. Senza le ferite di Ravensbrück sarebbe stata una donna un po’ più fragile e, conoscendolo meglio, con Kurt non avrebbe avuto una vita felice. Ma in fondo anche il suo essere era stato condizionato dagli eventi passati e da ciò che aveva vissuto, dall’orrore nazista visto e provato sulla propria pelle. Grazie all’aiuto di Kurt, era riuscita a realizzare il suo sogno di raccogliere fondi a favore dei sopravvissuti che, a differenza sua, attendevano ancora un riscatto dalla vita, mediante cene di beneficenza e serate di ballo. Un sogno scaturito non soltanto dal suo desiderio di fare del bene ma anche da un nascosto senso di colpa: quello di non aver fatto nulla per gli altri a tempo opportuno, di non essersi ribellata davanti alle scene di crudeltà nel lager, di essere sopravvissuta. Aiutare gli altri era una delle risposte al perché della sua sopravvivenza a Ravensbrück ed anche un modo per espiare il suo debito con la vita. Tolse la giacca, restando con la camicetta di seta bianca e liberò dallo chignon i capelli, adesso un po’ più corti e scuri, che ne uscirono arruffati. Casualmente, volse lo sguardo verso lo specchio sulla parete e incrociò la malinconia della sua immagine riflessa. Quarantotto anni e nella sua vita la felicità era sempre stata un qualcosa per cui combattere, da rincorrere e, una volta afferrata, facile da sfuggirle ancora; a volte di cui vergognarsi e da nascondere ai fantasmi di chi aveva lasciato fra i tormenti di Ravensbrück. Nonostante i sogni realizzati, i sorrisi accesi, l’affetto delle persone che la circondavano e l’amore dei suoi cari, per quanto potesse sforzarsi, non riusciva ad essere pienamente felice e spesso si ritrovava a piangere lacrime asciutte, come in quel momento. Ventitré anni dalla fine della seconda guerra mondiale, del nazismo e il mondo, pur cambiando nella cultura, nelle mode, nella politica, negli stili di vita, nella società, era rimasto sempre uguale a se stesso, un po’ come lei. All’odio verso gli altri avevano dato nomi diversi, le persecuzioni erano più sottili e silenziose, le guerre e le rivolte continuavano ad esplodere e lei restava sempre lì, inerme, senza poter fare nulla di concreto per cambiare le cose. Del passato nessuno sembrava aver fatto un buon maestro di vita. Nel giorno del suo compleanno, questa volta, a distoglierla dai suoi malinconici pensieri non vi erano stati la vicinanza e l’affetto dei suoi cari, le attenzioni e la colazione a letto di suo marito, le sorprese di suo figlio, la telefonata di primo mattino di sua cugina Edith, il pranzo a lavoro con Kurt, le chiacchierate e le risate con Engel e Käthe davanti ad un’enorme fetta di torta. Attraversando il corridoio, iniziò a sbottonare la camicetta, quando all’improvviso sentì il rumore sordo di qualcosa che cadeva a terra seguito da un brusio di voci e, intimorita, si diresse lentamente verso il salotto. Con mano tremante, accese la luce e un botto le fece chiudere gli occhi, emettendo un urlo. “Sorpresa!” dissero tutti in coro e lei rimase impietrita, ricoperta di coriandoli. Ritrovandosi davanti i volti sorridenti dei suoi cari, di suo marito e di suo figlio, di Edith, di Kurt e delle loro famiglie, riuscì a trattenere per poco la commozione e, tuffandosi tra le braccia di Werner che le porgeva un enorme mazzo di fiori, scoppiò in lacrime. Il suo non era soltanto un pianto di gioia ma anche liberatorio: era amata, non era sola e si diede della stupida per averlo pensato, anche se solo per qualche istante. Le persone che aveva davanti non meritavano i suoi dubbi. “Scusatemi, devo essere impresentabile.” disse, asciugandosi le lacrime e abbozzando un sorriso. “Non è vero, sei bellissima.” rispose Werner e lei sorrise ancora. Poi volse lo sguardo verso suo figlio e, fingendo un tono di rimprovero, aggiunse: “Vorrei tanto sapere di chi è stata questa idea.” “Della stessa persona che ha rischiato di rovinare tutto.” replicò Brigit e anche lei volse ad Andrej uno sguardo canzonatorio. Il giovane alzò le braccia, ostentando un segno di resa mentre Kurt, chinandosi ad accendere la prima delle tante candeline di una torta grandissima, disse ironico: “Caro Andrej, adesso toccherà a te solo prendere la colpa per aver urtato la permalosità di tua madre.” Il sorriso di Nadine divenne una smorfia. La tristezza aveva ceduto già il posto all’allegria. “Zia Nadine, non dargli retta. Vieni a spegnere le candeline.” intervenne la figlia di Edith con affettuosa determinazione, prendendole la mano per farla avvicinare al tavolo. Guardando alla tenerezza di quella ragazzina, dai capelli rossi e gli occhi verdi e i tratti simili a quelli delle fate descritte nelle fiabe, ritrovò la speranza per quel presente costruito sulle ceneri di un terribile passato e il coraggio di ricacciare i fantasmi delle sue paure per vivere pienamente e godere degli affetti e di tutto ciò che la vita le aveva donato. Un palpito di gioia scaturì dal suo cuore, mentre la fiamma danzante delle candeline arrossiva le sue gote. Sentì di dover essere felice per amare liberamente, pienamente coloro che le stavano accanto e affinché il sacrificio di quanti l’avevano aiutata negli anni bui del nazismo non diventasse vano. Il suo volto si distese in un ampio sorriso e, soffiando sulle candeline, promise a se stessa di non perdere mai più, neanche per un istante, la gioia di vivere, di sperare, di amare.

 

E nonostante le bombe alla televisione,

malgrado le mine,

la penna sputò parole nere di vita:

“La guerra è finita,

per sempre è finita,

almeno per me”.

 

Baustelle, La guerra è finita

 

   
 
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