Capitolo 30
Tra sorrisi accesi e lacrime
asciutte
“Forse
la vita è come un fiume che va al mare. Non è andata dove intendeva andare, ma
è finita dove aveva bisogno di essere”.
Fabrizio
Caramagna
Città di Fürstenberg/Havel, 1 luglio 1968
Dopo una lunga giornata di lavoro, Nadine tornò a
casa. Ad accoglierla il buio e il silenzio, binomio perfetto per concludere un
malinconico compleanno. Questa volta, per qualche strano motivo, nessuna delle
persone a lei più care lo aveva ricordato, nemmeno suo marito e suo figlio. Si
appoggiò con una mano alla parete e, dolorante, sfilò dai piedi le décolleté,
tirando un sospiro di sollievo. Nel giorno del suo compleanno era sempre
difficile non richiamare alla mente Ravensbrück, coincidendo infatti con il suo
ultimo giorno di libertà prima della deportazione, e da lì, fare un bilancio
della propria vita intervallato da tanti se e perché. In momenti come quelli,
si domandava come sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate
diversamente, se non fosse mai stata deportata a Ravensbrück oppure se fosse
riuscita a scappare prima con Kurt. A tal proposito, non provava rimpianti
perché di sicuro non sarebbe diventata la donna che era, non avrebbe mai
incontrato Werner e suo figlio non sarebbe stato Andrej.
Senza le ferite di Ravensbrück sarebbe stata una donna un po’ più
fragile e, conoscendolo meglio, con Kurt non avrebbe avuto una vita felice. Ma
in fondo anche il suo essere era stato condizionato dagli eventi passati e da
ciò che aveva vissuto, dall’orrore nazista visto e provato sulla propria pelle.
Grazie all’aiuto di Kurt, era riuscita a realizzare il suo sogno di raccogliere
fondi a favore dei sopravvissuti che, a differenza sua, attendevano ancora un
riscatto dalla vita, mediante cene di beneficenza e serate di ballo. Un sogno
scaturito non soltanto dal suo desiderio di fare del bene ma anche da un
nascosto senso di colpa: quello di non aver fatto nulla per gli altri a tempo
opportuno, di non essersi ribellata davanti alle scene di crudeltà nel lager,
di essere sopravvissuta. Aiutare gli altri era una delle risposte al perché
della sua sopravvivenza a Ravensbrück ed anche un modo per espiare il suo
debito con la vita. Tolse la giacca, restando con la camicetta di seta bianca e
liberò dallo chignon i capelli, adesso un po’ più corti e scuri, che ne uscirono
arruffati. Casualmente, volse lo sguardo verso lo specchio sulla parete e
incrociò la malinconia della sua immagine riflessa. Quarantotto anni e nella
sua vita la felicità era sempre stata un qualcosa per cui combattere, da
rincorrere e, una volta afferrata, facile da sfuggirle ancora; a volte di cui
vergognarsi e da nascondere ai fantasmi di chi aveva lasciato fra i tormenti di
Ravensbrück. Nonostante i sogni realizzati, i sorrisi accesi, l’affetto delle
persone che la circondavano e l’amore dei suoi cari, per quanto potesse
sforzarsi, non riusciva ad essere pienamente felice e spesso si ritrovava a
piangere lacrime asciutte, come in quel momento. Ventitré anni dalla fine della
seconda guerra mondiale, del nazismo e il mondo, pur cambiando nella cultura,
nelle mode, nella politica, negli stili di vita, nella società, era rimasto
sempre uguale a se stesso, un po’ come lei. All’odio verso gli altri avevano
dato nomi diversi, le persecuzioni erano più sottili e silenziose, le guerre e
le rivolte continuavano ad esplodere e lei restava sempre lì, inerme, senza
poter fare nulla di concreto per cambiare le cose. Del passato nessuno sembrava
aver fatto un buon maestro di vita. Nel giorno del suo compleanno, questa
volta, a distoglierla dai suoi malinconici pensieri non vi erano stati la
vicinanza e l’affetto dei suoi cari, le attenzioni e la colazione a letto di
suo marito, le sorprese di suo figlio, la telefonata di primo mattino di sua
cugina Edith, il pranzo a lavoro con Kurt, le chiacchierate e le risate con
Engel e Käthe davanti ad un’enorme fetta di
torta. Attraversando il corridoio, iniziò a sbottonare la camicetta, quando
all’improvviso sentì il rumore sordo di qualcosa che cadeva a terra seguito da
un brusio di voci e, intimorita, si diresse lentamente verso il salotto. Con
mano tremante, accese la luce e un botto le fece chiudere gli occhi, emettendo
un urlo. “Sorpresa!” dissero tutti in coro e lei rimase impietrita, ricoperta
di coriandoli. Ritrovandosi davanti i volti sorridenti dei suoi cari, di suo
marito e di suo figlio, di Edith, di Kurt e delle loro famiglie, riuscì a
trattenere per poco la commozione e, tuffandosi tra le braccia di Werner che le
porgeva un enorme mazzo di fiori, scoppiò in lacrime. Il suo non era soltanto
un pianto di gioia ma anche liberatorio: era amata, non era sola e si diede
della stupida per averlo pensato, anche se solo per qualche istante. Le persone
che aveva davanti non meritavano i suoi dubbi. “Scusatemi, devo essere
impresentabile.” disse, asciugandosi le lacrime e abbozzando un sorriso. “Non è
vero, sei bellissima.” rispose Werner e lei sorrise ancora. Poi volse lo
sguardo verso suo figlio e, fingendo un tono di rimprovero, aggiunse: “Vorrei
tanto sapere di chi è stata questa idea.” “Della stessa persona che ha
rischiato di rovinare tutto.” replicò Brigit e anche lei volse ad Andrej uno
sguardo canzonatorio. Il giovane alzò le braccia, ostentando un segno di resa
mentre Kurt, chinandosi ad accendere la prima delle tante candeline di una
torta grandissima, disse ironico: “Caro Andrej, adesso toccherà a te solo
prendere la colpa per aver urtato la permalosità di tua madre.” Il sorriso di
Nadine divenne una smorfia. La tristezza aveva ceduto già il posto
all’allegria. “Zia Nadine, non dargli retta. Vieni a spegnere le candeline.”
intervenne la figlia di Edith con affettuosa determinazione, prendendole la
mano per farla avvicinare al tavolo. Guardando alla tenerezza di quella
ragazzina, dai capelli rossi e gli occhi verdi e i tratti simili a quelli delle
fate descritte nelle fiabe, ritrovò la speranza per quel presente costruito
sulle ceneri di un terribile passato e il coraggio di ricacciare i fantasmi
delle sue paure per vivere pienamente e godere degli affetti e di tutto ciò che
la vita le aveva donato. Un palpito di gioia scaturì dal suo cuore, mentre la
fiamma danzante delle candeline arrossiva le sue gote. Sentì di dover essere
felice per amare liberamente, pienamente coloro che le stavano accanto e
affinché il sacrificio di quanti l’avevano aiutata negli anni bui del nazismo
non diventasse vano. Il suo volto si distese in un ampio sorriso e, soffiando
sulle candeline, promise a se stessa di non perdere mai più, neanche per un
istante, la gioia di vivere, di sperare, di amare.
E
nonostante le bombe alla televisione,
malgrado
le mine,
la
penna sputò parole nere di vita:
“La
guerra è finita,
per
sempre è finita,
almeno
per me”.
Baustelle,
La guerra è finita