Fanfic su artisti musicali > The GazettE
Ricorda la storia  |      
Autore: NamelessLiberty6Guns_    06/11/2017    2 recensioni
Erano passati tanti anni. Lo sapeva. Ma era stato così difficile dimenticare.
Anzi. Purtroppo non aveva mai dimenticato. Fece scivolare il disco fuori dalla tasca in carta. Lo pulì con un apposito panno per rimuovere la polvere. Lo inserì nel giradischi posizionato sulla sua scrivania. Fece gentilmente appoggiare la puntina nel primo solco. La musica iniziò a fluire dalle casse e lui dovette sedersi, quasi sentendosi mancare dal peso dei ricordi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Reita, Ruki
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Dedicata a me. 
Prima o poi lo lascerai andare, Yukiko.
Ma lo sai, lo sai bene, che in qualche maniera farà sempre parte di te.



 

Era una giornata splendida per Takanori. Finalmente aveva iniziato a sistemare le sue cose in enormi scatole per abbandonare la casa della sua infanzia e adolescenza. Sarebbe da lì a poco andato a convivere con il suo ragazzo e proprio quel giorno aveva iniziato il trasloco. Aveva deciso prima di tutto di portare via le cose non di prima necessità, dato che nella casa nuova mancavano ancora poche ma importantissime cose come il letto e l’allacciatura dell’acqua. Preso un enorme scatolone, aveva iniziato con estrema cautela a riporre la sua preziosa collezione di dischi all’interno. 

I dischi erano la sua grandissima passione. Il rock anni ’60 e ’70 era ciò che prediligeva, ma anche la buona musica che stava uscendo negli ultimi anni non gli dispiaceva. Scorrendo ogni LP con febbrile attenzione, li riponeva gentilmente nella scatola, frapponendo fra ognuno un foglio di giornale per essere sicuro al massimo della perfetta conservazione degli stessi durante il trasporto.  Quando ormai aveva quasi liberato le mensole dove prima li custodiva, si ritrovò un disco che aveva onestamente dimenticato. Sentì distintamente il cuore cominciare un lento batticuore, mentre senza volerlo passò una mano sulla copertina. Era “Wish You Were Here” dei Pink Floyd. Si ritrovò a sospirare, l’alta marea dei ricordi silenziosamente aveva iniziato a salire, arrivandolo a inghiottire. 

Erano passati tanti anni. Lo sapeva. Ma era stato così difficile dimenticare.
Anzi. Purtroppo non aveva mai dimenticato. 
Fece scivolare il disco fuori dalla tasca in carta.
Lo pulì con un apposito panno per rimuovere la polvere.
 Lo inserì nel giradischi posizionato sulla sua scrivania.
 Fece gentilmente appoggiare la puntina nel primo solco. 
La musica iniziò a fluire dalle casse e lui dovette sedersi, quasi sentendosi mancare dal peso dei ricordi.

 

Erano passati tanti anni. 

Lui aveva appena iniziato il terzo anno di liceo. Frequentava un enorme complesso scolastico nella cittadina dove abitava, che comprendeva le scuole dalle elementari fino al liceo. Fra i tanti ragazzini che scendevano dal suo stesso autobus, non fu difficile scorgere già da settembre dei luminosi capelli biondi, che immancabilmente poi scomparivano dalla sua vista. Una fredda mattina di novembre, se li ritrovò davanti in stazione mentre aspettava l’autobus. 

Il loro proprietario era un ragazzo alto, profondi occhi castani, un pesante giubbotto grigio chiaro a proteggerlo dal freddo. Al posto delle solite scarpe eleganti alla fine dei pantaloni della divisa, portava un paio di Vans ormai distrutto. E il suo nome era Akira.

Sul momento quel ragazzo non gli disse nulla. Frequentava l’ultimo anno delle scuole medie, anche se in pratica avrebbe dovuto essere al primo anno di liceo. In più, era un vero bulletto: lo vedeva spesso tormentare i ragazzini più piccoli con degli scherzi di cattivo gusto.


 

Però.


 

Vedeva i suoi occhi che lo seguivano attento. Se lo ritrovava spesso davanti quando meno se lo aspettava, complice anche il fatto che prendevano lo stesso autobus che gli avrebbe poi riportati in stazione.

Ma lui non ci aveva fatto poi così caso.



 

Passate le brevissime vacanze in occasione del Natale, quando era ritornato a scuola si era persino dimenticato di Akira.

Dovette arrivare addirittura febbraio per accorgersi che quegli sguardi invece avevano avuto effetto. Avvenne in una maniera così semplice che dovette chiedersi che cavolo fosse successo: stava semplicemente passando a fianco all’autobus per salirci quando lui, Akira, che era in piedi davanti alle porte posteriori, semplicemente lo salutò. Lui ricambiò, ma una volta allontanatosi si ritrovò a gioire, con pensieri da ragazzina quali “OH MIEI KAMI, MI HA SALUTATO”. Ma una volta arrivato a casa, dopo essersi chiesto cosa cavolo gli fosse preso, semplicemente la risposta era davanti ai suoi occhi: evidentemente aveva iniziato tanto silenziosamente che improvvisamente a provare qualcosa per lui. 



 

Da quel momento fu tutto in discesa.

Fremeva per poterlo incrociare. A lezione non faceva altro che osservare l’orologio nell’illusione di far muovere quelle lancette più in fretta. E quando finalmente lo vedeva, non capiva letteralmente più niente. Il cuore gli sembrava esplodere in petto ogni volta, per poi ritrovarsi quasi in uno stato d’ebrezza fino a quando non rientrava in casa. Ma anche Akira faceva ben poco per nascondere il suo interesse, tanto che un giorno, trovato Takanori seduto da solo in autobus, gli si sedette accanto attaccando subito conversazione. Scoprirono immediatamente di avere una passione in comune: la musica. Entrambi ascoltavano rock del decennio precedente, e anche quello che stava uscendo in quel preciso momento storico non era assolutamente meno pregiato. 



 

Il sedersi accanto divenne un’abitudine

Ogni mattina e ogni pomeriggio, i due si sedevano accanto parlando di tutto e di nulla. Takanori aveva ormai capito di essere completamente spacciato. Aveva mai provato qualcosa di simile prima? No. Ne era certo. Era a malapena passato un mese da quando si era accorto di provare qualcosa per lui e già era letteralmente annegato nell’amore che provava per lui. Aveva scoperto che faceva di tutto per sembrare un poco di buono, ma invece era un ragazzo gentile, estremamente timido e molto simpatico. Raramente riusciva a non ridere alle sue battute. Alle volte era molto sfacciato, ma nulla di troppo esagerato. Ma anche i suoi difetti arrivarono a piacergli.



 

Un pomeriggio dei primi giorni di marzo, Takanori se ne stava tranquillo alla scrivania, un album dei Kansas nel giradischi, i compiti abbandonati alla sua destra. Il diario scolastico era diventato il rifugio dove confidava tutto ciò che ad Akira non riusciva a dire, riempiendolo di frasi, disegni e confessioni. Lo stava appunto aggiornando, quando il telefono di casa suonò quasi insistentemente. Stranito, abbandonò la penna sulle pagine per andare a rispondere. 

Moshi moshi?
“Ciao, sono Akira.” 

Amaterasu, stava per avere un infarto. Come aveva fatto ad avere il suo numero di telefono? “A-ah, ciao Akira… Come s-stai?” chiese, le mani che tremavano, il cuore ormai in panne.

“Bene, e tu?”
“O-oh, io benissimo, grazie.”

“Non mi chiedi come faccio ad avere il tuo numero?” 
Takanori impallidì, preso come sempre in contropiede da Akira. “E-ehm, volevo chiedetelo, i-infatti, ma…”
“È stato il tuo compagno di banco. Gliel’ho chiesto io.”
“Ah, davvero?” non sapeva veramente che dire, ma, insomma, aveva chiesto a Takahashi-kun il suo numero di telefono! Era un’ottima cosa, no?
“Senti, questo sabato hai impegni?”
Sentì chiaramente la mente urlare “COSA?”, andando se possibile ancora più in panne.“No, non ho impegni. Perché?”
“Mi chiedevo se ti andava di fare un giro a Tokyo insieme a me.”
“Volentieri!”
“Allora facciamo che sabato pomeriggio appena arriviamo in stazione prendiamo subito il treno?”
“D’accordo!” 
“Bene, allora ciao!”
“Ciao.” ma dall’altro capo c’era già il silenzio.



 

La felicità aveva davvero un bel sapore.

Quel sabato mattino si era pettinato con estrema attenzione, aveva rassettato con cura la divisa, prima di salire sull’autobus e raggiungere la scuola. Stranamente l’assenza di Akira non lo spaventò, troppo emozionato per quello che lo avrebbe atteso quel pomeriggio.

Ma.

Ovviamente, dopo che il tempo ci aveva messo il triplo per passare, era arrivato in stazione e di Akira nemmeno l’ombra. 

La tristezza, di rimando, aveva un sapore fin troppo distinto.

Dopo aver aspettato due ore, si era infine arreso ed aveva preso uno degli ultimi autobus per tornare a casa. Si era inventato mille scuse per giustificarlo. Magari stava male. O forse aveva perso l’autobus la mattina. O forse se ne era semplicemente dimenticato. Insomma, era scusabile, no? Si era detto di sì. 



 

“Mi devi scusare, Takanori.”
Strinse forte la cornetta all’orecchio. “No, ma che dici, nessun problema.”
“Avevo la febbre, altrimenti sarei venuto.”
“Ripeto: non c’è alcun problema.”
“Vorrà dire che ci vedremo sabato prossimo.”
“Infatti. Non vedo l’ora.” E sorrise sincero. 

Ma il pomeriggio seguente, seduti accanto in autobus, Akira si voltò triste verso Takanori, in quel momento impegnato a trafficare con qualche esercizio che non aveva capito in classe. “Ti ricordi dell’impegno di questo sabato?”

Takanori sentì il cuore implodere, ma fece assolutamente finta di nulla, senza alzare lo sguardo dal foglio. “Certo.”
“Ecco… Nemmeno questo sabato possiamo vederci.”
“Come mai?” un sottile strato di ghiaccio a ricoprire quelle parole. 
“Bè… I miei genitori si sono accorti che anche quest’anno sto andando veramente male a scuola e mi stanno tenendo sotto torchio. Non mi lasceranno più uscire per un bel po’.”
“Mi dispiace…”
“Dispiace più a me. Ci tenevo a quel giretto a Tokyo.”



 

Il quindici marzo pioveva. 

Takanori non aveva dormito nulla per prepararsi ad un’importante verifica, ma ovviamente si era seduto al loro solito posto. Voleva solo rivedere Akira, come ogni giorno. E lui non si fece aspettare. Si sedette accanto a lui, poggiando la cartella sulle ginocchia.
Si scambiarono poche battute, prima che l’autobus partisse e il silenzio stranamente venne a calare. Vinto dal sonno, Takanori s’addormentò, appoggiando però innocentemente la testa sulla spalla di Akira, sulla comoda stoffa del suo giubbotto grigio chiaro. Akira dovette svegliarlo una volta arrivati a scuola.
“Oh… Mi dispiace…” disse Takanori, arrossendo vistosamente.
“Ma dai, stai tranquillo.” 

Messe le cartelle in spalla, i due scesero dall’autobus, uno affianco all’altro. Takanori si voltò verso di lui. 

“Allora ci vediamo dopo.”

Contro le nubi cariche di pioggia, Akira sorrideva, i luminosi occhi castani brillavano di una splendida luce, coperti a malapena dai biondi capelli, imperlati di gocce di pioggia.
E cazzo non seppe resistere. 
Si allungò per posare un bacio sulla sua guancia, ma Akira lo sorprese sfiorandogli le labbra con le sue. 

 

Se lo ricordava ancora come se fosse ieri.
Cinque ore passate con le guance in fiamme.
Le labbra completamente secche.
La gioia che provava dentro non l’aveva mai provata prima.



 

“Mi piaci un sacco, Akira. Davvero.”
Un silenzio che non voleva sentire dall’altro lato del ricevitore. “Anche tu mi piaci, ma… Non credo di essere il ragazzo per te, ecco. E poi, non posso mai uscire…”
Takanori si sentì morire. “Ma… Ma tu lo sei. E lo sai.” Voleva dire molto di più, ma non ci riuscì.
Lo sentì sorridere. “Lo spero davvero. Ora devo chiudere, ci vediamo domani, vero?”
Certo che ci vediamo domani.”



 

Non era questo quello che voleva succedesse. 

Certo, è vero che nella sua mente loro due ormai erano già una coppia, tanto era innamorato di lui. Ma c’erano ancora un paio di cose che lui non aveva messo in conto. Anzi, in verità l’aveva fatto, ma era troppo perso per considerarle seriamente. La prima fra tutte, Akira comunque aveva ancora quattordici anni. Ne avrebbe compiuto sì quindici fra poco, ma ciò non avrebbe cambiato di molto l’equazione. Lui, Takanori, ne aveva sedici. Era ovvio che quella differenza seppur minima avrebbe giocato delle sfide in più. Secondariamente, non poteva pretendere che lui provasse esattamente quello che invece lui custodiva nel suo cuore. E per questo soffriva enormemente. Ma non lo dava a vedere, perché finché aveva Akira accanto era felice. Veramente felice.


 

 

Seguirono mesi difficili. 

Sempre più spesso Akira veniva portato a scuola per assicurarsi che effettivamente ci andasse, dato che in famiglia a quanto pare c’era il forte sospetto che saltasse le lezioni. Quindi si vedevano ancora meno. Ma nulla poteva fermare i due dal telefonarsi giornalieramente, in gran segreto, per tenersi informati di ciò che avveniva nelle loro vite. 



 

Con l’arrivo di maggio però Akira poté tornare a scuola in autobus. 

Quel sabato il sole splendeva raggiante, faceva caldo e in più nella cittadina di Takanori ci sarebbe stato l’annuale matsuri che lui aspettava più di ogni altra festività. Si erano seduti nei posti in fondo, approfittando del fatto che per via di una gita scolastica l’autobus era quasi vuoto. Parlarono e parlarono, anche di quell’uscita a Tokyo che prima o poi andava assolutamente fatta. Fu Akira a baciare Takanori, cercando qualcosa di molto più intimo e profondo, a cui Takanori si arrese immediatamente. D’altronde non aspettava altro. 

 

Un colpo al cuore.
Ogni volta che ci pensava era veramente un colpo forte e secco.
Perché la felicità che provò era ancora più forte, ancora più bella.
E assicurava ulteriormente a Takanori che mai avrebbe lasciato andare Akira dalla sua vita.
Mai. 

 

 

Il dieci giugno, per la prima e ultima volta nella sua vita, Takanori saltò la scuola per poter passare tutta la giornata con Akira. Quello infatti era il suo ultimo giorno di scuole medie, dato che era infine riuscito a sistemare tutte le sue lacune e sapeva di essere stato ammesso all’esame statale. Insieme andarono a Tokyo, passandoci l’intera giornata, mano nella mano. Ma per l’una del pomeriggio dovettero essere presenti in stazione, per non destare sospetti nei rispettivi genitori.
Nonostante tutti i dubbi che ancora attanagliavano Akira, le sue insicurezze e la sua paura, Takanori decise nel suo cuore che quella era ufficialmente la data da cui la loro vera storia d’amore era iniziata. 



 

Ma fu un’estate orribile.

Non solo piovve quasi tutta la durata della stagione, costringendo i giapponesi a dover tenere a portata di mano ombrello e giubbotto primaverile fino a fine agosto, ma Akira scomparve completamente nel nulla. Takanori aveva tentato di telefonargli, ma quando rispose qualcuno (immaginò fosse la madre), il coraggio venne completamente a mancare e ripose la cornetta sul telefono. Sapeva che i suoi genitori non volevano assolutamente sapere di quello che stava accadendo nella vita del figlio, o almeno, Akira gli aveva raccontato così.

 

Forse quella era solo la prima di tante bugie. 

Ad oggi, dopo cinque anni, ancora non lo sapeva. 



 

Dovette arrivare agosto perché accadesse il miracolo.
Una telefonata.
Era Akira.
Takanori non ebbe nemmeno il coraggio di sgridarlo per tutto quel silenzio, da quanta gioia gli aveva procurato il poterlo risentire.

“Senti, il dieci agosto sono di passaggio a Kanagawa. Riesci a venire? Mi manchi da morire.”

Aveva pregato, pianto e urlato contro i suoi genitori per ottenere il permesso di uscire. Ovviamente la storia che aveva saltato un giorno di scuola era inevitabilmente venuta a galla, dopo vari richiami dei professori per la mancata giustificazione. E altrettanto ovviamente la cosa non era stata presa alla leggera dai suoi genitori, quindi Takanori si era preso una punizione esemplare. Ma infine ce l’aveva fatta, i suoi genitori si arresero e lo lasciarono andare. 

E fu stupendo. 

Trascorsero il pomeriggio in una vicina sala prove, dove Akira alle volte suonava con la sua band. Disse a Takanori che aveva approfittato dell’annullamento delle prove (di cui non aveva aggiornato i genitori) per poterlo rivedere. Durante l’estate Akira si era fatto appena più alto, più uomo. E si era tinto i capelli di un biondo ancora più chiaro. Fu quello stesso pomeriggio che gli regalò quel disco. Takanori lo voleva da tanto; non poteva crederci che proprio lui gliel’avesse regalato.
“È per farmi perdonare.”

 

 

Quell’anno scolastico fu ancora più difficile. 

I genitori di Akira avevano scelto per lui un liceo lontano da quello che frequentava Takanori. Tutto questo non faceva altro che far peggiorare i suoi voti, ogni giorno invaso dai ricordi dell’anno scolastico precedente, ogni giorno afflitto dalla costante assenza di Akira, dal potersi sentire una volta ogni tanto. Ma quelle poche volte che riuscivano a vedersi andava tutto come se fossero i protagonisti di una fiaba. Anche quell’anno Takanori aveva scelto il suo diario scolastico come unico mezzo di sfogo dei suoi sentimenti, riempiendolo di qualsiasi cosa sapesse di Akira. Faceva poi di tutto, dall’inventarsi di avere recuperi di lezioni all’aver perso l’autobus pur di stare con lui quando poteva; arrivando ad iscriversi ad un noiosissimo corso di informatica che però si teneva nella scuola accanto a quella di Akira. Tutto pur di poterlo vedere. 




 

Ma poi.

 

Qui sentì palesemente il cuore dolergli.
Era per quella ragione che dopo cinque fottuti anni il suo cuore non era ancora guarito.
E lo sapeva. Lo sapeva bene.

 

Mancavano poche settimane al dieci giugno. Takanori stava già pensando alle mille cose che avrebbe voluto fare per festeggiare degnamente questa importante ricorrenza. Entrambi si erano dati alle più rosee immaginazioni, decidendo ormai di rifare lo stesso giro di Tokyo che avevano fatto un anno prima. Sì, perché nonostante non se lo fossero mai detti ufficialmente, anche Akira aveva iniziato a considerare quella data alla stregua del loro inizio; certo anche se in maniera meno marcata rispetto a Takanori.

Ma durante una delle loro telefonate, Akira disse di voler avere una pausa.

Takanori sentì palesemente il cuore sfaldarsi in mille pezzi.

Perché?” chiese. E lo sentiva, e sapeva che anche Akira l’aveva sentito: c’era dolore puro che gocciolava da quella semplicissima parola. 

Akira cominciò a raccontare le stesse scuse. Sì, aveva iniziato a chiamarle scuse. 

Le stesse identiche scuse che andavano avanti da quasi un anno.

I suoi genitori, i suoi parenti, la scuola… Ma lui era ancora troppo pazzo di lui per smettere per un solo secondo di giustificare qualsiasi cazzata gli dicesse. 

Gli disse che l’avrebbe aspettato. 

A costo di morire solo.

E lo pensava davvero.

 

 

Poi successe. 

Akira gli telefonò l’otto giugno. “Takanori, questa sera io e degli amici andiamo a fare una notte fuori, vicino al fiume. Vieni?”
Non chiese nemmeno il permesso ai suoi. Prese le sue cose e corse a prendere il primo autobus. 

Fu una notte strana. Una notte in cui entrambi scoprirono di avere una sessualità, una notte passata a rincorrersi bacio dopo bacio, ma si ritrovarono addormentati poco prima dell’alba. 

 

Era questa la prova che gli serviva? 
Il Takanori diciassettenne di quella sera disse di sì.
Era quella la prova che la pausa era finita, che si poteva ricominciare.
Per raggiungere quel per sempre che lui avrebbe voluto passare con Akira. 
Silenziosa, in quel momento partì “Wish You Were Here”.
Una singola lacrima gli solcò la guancia.



 

Da quella sera, Akira non si fece più sentire.

Takanori era disperato.

Quella sera non era valsa niente per lui?

Come il solito non rispondeva alle telefonate, come sempre qualcun altro alzava la cornetta e lui iniziava ad essere stanco. 

Ma non si diede mica per vinto, oh no.

Riuscì ad ottenere il suo indirizzo di casa e gli scrisse una lettera. In due pagine battute a macchina condensò tutto il dolore, la rabbia, l’amore e l’odio che provava per lui. Chiedendogli almeno di rimanere amici. Giurandogli che non avrebbe mai amato nessun altro come aveva amato lui.

 

Lettera a cui non ebbe mai risposta.

 

Passò l’estate intera a piangere su “Wish You Were Here”, macchiando di lacrime i suoi diari, non volendo altro che poter amare Akira per il resto della sua vita. Farlo felice. Essere l’uomo che lui amava. 

 

Di quello che aveva scritto nella lettera, una sola cose delle due si era avverata.
Effettivamente, non aveva mai più provato qualcosa di simile a quello che aveva provato per lui.
Nemmeno per colui che aveva ora al suo fianco.
In fondo, quello che provava ora era un amore adulto.
Un amore diverso, per misura e forma. 
Tante cose separavano Akira da Daisuke.
E forse era meglio così.

 



 

Quando lo conobbe, Daisuke se ne innamorò talmente da raccogliere i cocci di Takanori e piano piano ricostruirlo, conquistandolo, facendolo perdutamente innamorare di lui. Si amavano follemente e Takanori lo sapeva. 

 

How I wish, how I wish you were here...

We’re just two lost souls swimming in a fish bowl

Year after year... 

Running over the same old ground

And what we’ve found?

The same old fears.

Wish you were here”.

 

 

Chissà che fine aveva fatto Akira.

Takanori si augurava sempre che stesse bene. 

La cosa di cui più si sentiva in colpa, era che non aveva mai dimenticato Akira. Mai.

A volte lo sognava. A volte gli ritornava in mente, e lui soffriva tutta la giornata di conseguenza.

E niente, gli mancava. Odiava ammetterlo, ma gli mancava. Anche se era ben consapevole che la sua vita sarebbe stata completamente diversa se Akira fosse rimasto. 

A cinque anni di distanza, faceva ancora fatica a distinguere la verità dalle bugie che il biondo gli raccontava. Non era esattamente sicuro di sapere fin dove si erano spinte.

In fondo, Akira era diventato un bello, seppur doloroso, ricordo.

Rileggere quei due diari scolastici era una giostra d’emozioni. 

Dopo tutti quegli anni si era ritrovato anche a darsi parte delle colpe. Lo amava talmente da essere stato quasi pesante, e lo sapeva. E se ne dispiaceva. 

Ma quello che era stato non si poteva più cambiare.

 

Spense il giradischi, riponendo il vinile nella sua custodia.
Lo inserì nella scatola con più attenzione di tutti gli altri.
Sospirò.
Forse doveva smettere di sentirsi in colpa nei confronti di Daisuke.
Forse doveva solo arrendersi al fatto che Akira faceva ormai parte di lui.
Non era più lo stesso Takanori da quando aveva conosciuto quel ragazzo biondo.
Il suo sorriso sghembo. I suoi occhi castani.
E non era nemmeno più lo stesso da quando aveva conosciuto Daisuke.
Gli fuggì un sorriso, un sorriso di sollievo.

 



 

Ritornò a sistemare i dischi nello scatolone con un peso in meno sul petto.

E la prima cosa che fece quella sera fu telefonare a Daisuke.

Mi chiedevo se ti andava di andare a fare un giro a Tokyo insieme a me.























Erano anni che volevo scrivere questa shot. E quando dico anni credetemi che non sto scherzando.
L'ottanta percento di quello che avete letto è successo davvero, date comprese.
Sì, questa storia andava scritta, principalmente per me stessa. Sì, forse avrei potuto tenere l'ambientazione in cui io l'ho vissuta, ma messa fra gli anni '70 e '80 mi piace molto di più. 
È stata dura. Ma ce l'ho fatta. E alla fine della stesura mi sono sentita proprio come Takanori: libera.

Non è venuta come volevo io, ma non mi ricordo nemmeno cosa significhi scrivere qualcosa che mi soddisfi.
Spero che almeno a voi sia piaciuta. 

Grazie per avermi aspettata.
Vi voglio un bene dell'anima.
Yukiko H.

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > The GazettE / Vai alla pagina dell'autore: NamelessLiberty6Guns_