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Autore: sereinki    07/11/2017    3 recensioni
[ AkuAtsu soldier!AU ] [ 100%angst ]
"Ryunosuke era debole, così debole da nascondersi dietro ad un ideale che non era nemmeno il suo, ma che si ostinava a difendere per puro masochismo, per quell'ostinazione nel pensare che, se non fosse cambiato il modo di ragionare che l'aveva spinto a vivere fino ad allora, ce l'avrebbe fatta anche da solo, seguendo quella pista di ombre che la sua guida si era lasciato dietro."
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsushi Nakajima, Osamu Dazai, Ryuunosuke Akutagawa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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W I N D

 

 

Ryunosuke è debole, una fragile foglia inerme davanti alla forza distruttrice del vento, che feroce e
spietato si abbatte su di essa, strappandola dalla sicurezza che si celava nella possente corteccia
a cui si attaccava disperata. La presa di Ryunosuke sulla sua ancora, talmente sottile da essere
spezzata da un semplice sospiro d'aria, si stava allentando in un modo lento e terribile;
era rimasto solo ed indifeso, mentre la sua unica figura di riferimento scompariva al di là della
nebbia invernale, fredda e tagliente come il più affilato dei coltelli. Quando anche l'ultima lieve
speranza in un appiglio più saldo si vaporizzò sotto le sue dita, Ryunosuke si rese conto di quanto
in realtà, senza nulla a cui appoggiarsi, fosse dannatamente debole. E, nell'ambiente in cui era
costretto a vivere, ciò significava essere inutile e senza valore. La prospettiva di essere tagliato
fuori gli fece paura, tremendamente paura, perché nonostante la odiasse, quella era l'unica
aspettativa di vita che gli era rimasta. E si era rialzato, Ryunosuke, tendendo la mano verso qualcosa
che non c'era più, ma che, sperava, avrebbe continuato a spingerlo ad andare avanti.


 

 

Il Maggiore Akutagawa era l'uomo più forte che avesse mai conosciuto, Atsushi non può fare a meno
di pensarlo, mentre il corpo esile ed altrettanto agile del superiore si muoveva scattante tra i corpi sudati e
insanguinati dei soldati, il viso in una smorfia di fatica, la sua voce profonda che impartiva ordini ai comandanti.
Anche Atsushi avrebbe dovuto ascoltarlo, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo dall'uomo, dalla sua figura
fasciata dall'elegante, seppur rovinata e sudicia, uniforme, le medaglie che brillavano nell'oscurità della battaglia.
Non era solito per i soldati di alto grado prendere parte agli scontri, questo lo sapeva bene, eppure Akutagawa era lì,
a pochi passi da lui, da tutti loro. Sapevano che il loro Maggiore non li avrebbe ma abbandonati. E lo vide dai volti
determinati della fanteria, lo percepì dalle urla attorno a lui,che nonostante tutto e tutti, sotto la sua guida, loro
avrebbero vinto; perché Akutagawa era forte, come una roccia contro la violenta aggressione della pioggia portata
dalla tempesta, contro il fuoco e il gelo. Sembrava non provasse emozioni, un enorme blocco di pietra senza sentimenti,
eppure era suo, il sangue che vide sgorgare sul terreno fangoso, provocato da una ferita che non era destinata a lui,
ma a quel tenente scivolato al suolo, il viso tra la terra bagnata. Atsushi lo guardò e tutto ciò che avrebbe voluto fare era
agrapparsi a lui e non lasciare mai la presa.

Il rientro alla base non fu seguito da festeggiamenti, nonostante la vittoria sul campo di battaglia, perché nessuno
avrebbe riportato indietro i sessantacinque soldati morti sotto il rombo delle bombe, la pioggia di proiettili e i pugni e
caduti nel sudiciume che era il suolo, impregnati nell'odore del sangue, che tingeva il terreno come un torrente scarlatto.
Le loro esistenze erano svanite, i corpi chissà dove, appassiti come i fiori con i primi freddi dell'autunno, le loro anime
volate vie, trasportate dal vento pungente; lo stesso che ora gli gelava le lacrime che cadevano silenziose sul suo viso pallido.
Atsushi era rimasto l'unico sveglio all'interno della tenda che condivideva con altri dieci, gli occhi verso il soffitto scuro, i rumori
soffusi di ciò che accadeva fuori che gli impedivano di prendere sonno, l'entrata spalancata per permettere all'odore del sangue
e del sudore di uscire, grazie all'aria che fresca avvolgeva i loro corpi tesi. Gli faceva male la testa, le garze stringevano in
modo troppo stretto il suo petto, ma non c'era stato tempo per una medicazione più accurata, i feriti erano troppi, il tempo troppo poco.
Erano state ore d'inferno, quelle che aveva appena passato, quasi più traumatiche delle numerose battaglie a cui aveva preso parte;
era il momento peggiore, quando l'adrenalina dello scontro calava, lasciando dietro di sé solo la consapevolezza del dolore e di ciò che,
in quei pochi minuti, si era perso per sempre. Avevano vinto una battaglia, ma non la guerra contro la morte.
Atsushi se ne accorse troppo tardi, di quel corpo senza battito accanto ai suoi piedi, ci era inciampato sopra,
finendo con il viso in una pozza di sangue e terra
bagnata e poi aveva voltato appena il capo, la paura negli occhi. 
Atsushi aveva perso di nuovo.
Sospirò, passando delicatamente le dita sopra la targhetta d'argento che portava al collo, i kanji in rilievo gli accarezzavano
la pelle dei polpastrelli. Era così giovane, Junichirou, un viso pulito e un sorriso sincero sempre sulle labbra, ma i suoi occhi erano bui,
oscuri, spenti dall'orrore della guerra che era stato costretto a combattere. Aveva tutta la vita davanti, il sogno di finire gli studi
e trasferirsi all'estero, la voglia di vivere che gli faceva scoppiare il cuore. E lo aveva perso per sempre, senza nemmeno aver avuto
il tempo di dirgli addio. Aveva provato a portarlo via, lo aveva trascinato con sé per quelli che gli sembravano chilometri,
ma gli spari non erano cessati, le urla lo stordirono, le forze iniziarono a mancargli, la ferita al petto a bruciargli sempre di più.
Aveva pianto, quanto aveva pianto, quando si era reso conto che non sarebbe riuscito a riportarlo a casa, a fargli riabbracciare
la sorella di cui tanto gli parlava e che tanto amava. Si sentiva uno schifo, Atsushi, perché aveva fallito, perché non era stato abbastanza forte,
perché se solo avesse stretto i denti per ancora qualche centinaio di metri ce l'avrebbe fatta. Ma il suo corpo aveva ceduto,
le sue ginocchia avevano colpito il suolo, le sue urla strazianti accompagnate dal sibilo del vento di Gennaio.


E le lacrime ricominciarono a scendere, calde e appiccicose, mentre i singhiozzi lo piegarono su se stesso, straziato dal dolore. 
"Perdonami, Jun"

 

Settantasei, quello era il numero aggiornato dei deceduti; Atushi percepiva l'odore acerbo della morte a pochi metri di distanza.
Quando si era svegliato, il silenzio lo accolse pesante e doloroso, come un masso che gli schiacciava il torace.
Era uscito dalla tenda, avvolto in ciò che rimaneva del suo equipaggiamento di capitano; non che avesse più importanza il suo grado,
non all'Inferno, dove i suoi meriti non si distinguevano più dalle sue colpe. Nessuno parlava, là fuori, gli occhi persi nel vuoto,
seduti in ogni spazio disponibile, adagiati persino su letti di bottiglie di vino vuote, perché le tende servivano ai feriti e ai medici,
che veloci si muovevano come fantasmi bianchi in quel mare di fumo e disperazione. Atsushi scorse i biondi capelli di Kunikida,
impegnato ad avvolgere una garza attorno alla testa di un ragazzino dai capelli color grano e le lentiggini spruzzate come stelle sulle sue guance.
Sorrise amaramente, notando quanto giovane fosse e gli ricordò Tanizaki e la sua dolce voce. Un groppo gli si formò in gola,
mentre distoglieva lo sguardo, pregando che, almeno quel piccolo, tornasse a casa sano e salvo, la guerra solo un brutto ricordo da dimenticare. 
"Capitano, cosa ci fa qui? Dovrebbe riposare, i punti potrebbero riaprirsi." Haruno era apparsa al suo fianco,
i guanti sporchi di sangue stretti in una mano. Il biondino portò una mano alla camicia stropicciata, facendo segno che andava tutto per il meglio.
La crocerossina sospirò sconsolata, poggiandogli una mano sulla spalla, come a consolarlo.
"Non è colpa tua, Atsushi, non potevi fare nulla." E così com'era venuta se ne andò, il camice sudicio che svolazzava tra gli spifferi di aria fredda.
Atsushi la guardò allontanarsi, con un'ombra di quello che doveva essere un sorriso sulle labbra, la testa che girava e il petto che bruciava.
Sospirò, prima di riprendere a camminare verso la tenda dell'ospedale improvvisato.
La vista lo fece rabbrividire, l'odore insopportabile del disinfettante gli riempì le narici, facendolo tossire. Un'infermiera gli urtò la spalla,
nella fretta dell'uscire per andare a prendere acqua fresca, facendogli stringere i denti per il dolore.
Si fece strada tra i lettini, cercando di mantenere la testa alta, gli occhi lontani dalle figure distese, il cuore che batteva forte e violento.
Strinse i pugni, quando non riuscì a distogliere lo sguardo dai volti sofferenti dei soldati. Intravide la dottoressa Yosano,
ora curvata sul lettino di quello che riconobbe essere Ranpo, ancora privo di sensi, il viso in una smorfia di dolore,
la sua gamba destra non più presente, il ginocchio fasciato da coperte intrise di sangue.
Portò una mano alla bocca, reprimendo l'istinto di rigettare. Il petto gli faceva talmente male da fargli desiderare di poterselo strappare;
il cuore gli martellò dolorosamente, quando raggiunse la figura dai lunghi capelli scuri,indaffarata nel cambiare i bendaggi di un ferito.
Si accorse di lui, lo notò dall'irrigidirsi della sua schiena.
Si voltò lentamente, Atsushi tremò alla vista di quelle borse nere sotto i suoi occhi, segno di una notte frenetica e tormentata.
Ma era comunque bellissima, proprio come diceva sempre lui.
"Mi dispiace, Naomi." Avrebbe voluto dire altro, qualsiasi cosa d'altro, ma era debole, Atsushi, debole ed inutile;
inerme davanti al destino crudele che il mondo aveva riservato a quella ragazza dagli occhi viola,
scuri ed espressivi come il cielo nelle notti stellate.
Aveva allungato la mano, la targhetta che pendeva dalle sue dita graffiate e tremanti come foglie.
Naomi aveva sorriso, il sorriso più triste e rassegnato che Atsushi avesse mai visto, poi si era alzata,
silenziosa ed elegante come una ballerina dell'opera 
e Atsushi si convinse che quel sogno che la ragazza teneva nel cassetto non fosse poi così irrealizzabile.
Lo aveva abbracciato, la sua testa premuta sulla ferita che gli pulsava dolorosamente, ma non disse nulla.
Strinse il suo esile corpo a sé, le mani che le carezzavano le spalle scosse dai singhiozzi.
E l'ultima cosa che sentì, prima di perdere i sensi, fu la dolce voce di Naomi. 
"Grazie"

 

Ryunosuke era debole, così debole da nascondersi dietro ad un ideale che non era nemmeno il suo,
ma che si ostinava a difendere per puro masochismo, per quell'ostinazione nel pensare che, se non fosse cambiato il modo di ragionare
che l'aveva spinto a vivere fino ad allora, ce l'avrebbe fatta anche da solo, seguendo quella pista di ombre che la sua guida si era lasciato dietro.
Se fosse per imprigionarlo nel ricordo di sé, Ryunosuke non lo sapeva, ciò di cui era certo, però, era che non combaciavano più, i loro ideali.
Ma era troppo fragile, Ryunosuke, come avrebbe potuto voltare le spalle a colui che per anni era stato il suo maestro,
la sua ancora, la sua salvezza, per buttarsi nel vuoto di una nuova concezione del giusto e sbagliato?
Ryunosuke era debole, perché non voleva rischiare, eppure, una parte di sé, seppur cercasse di metterla a tacere,
gli urlava a pieni polmoni che non era quello ciò che voleva.
A Ryunosuke piaceva combattere, trovava intrigante il volto della disperazione umana sul campo di battaglia,
amava l'acerbo odore di sangue e di morte,
ma odiava se esso proveniva dai suoi uomini, dai suoi sottoposti.
Ryunosuke amava combattere, ma odiava perdere e presto si rese conto di come nel combattimento non esista vittoria,
ma solo perdita da entrambi i lati.
Non esistono né vincitori, né vinti, ma solo morte e dolore e il colore rosso del sangue che sgorga a fiumi.
Ryunosuke combatteva da solo, perché da soli non si hanno responsabilità,
non si sente la paura della possibilità di perdere qualcuno o qualcosa di importante,
perché si ha solo la propria vita da difendere e se c'era una cosa che a Ryunosuke non importava,
quella era proprio la sua esistenza.
Il suo corpo era deturpato dalle decine di battaglie combattute, le cicatrici di vecchi e nuovi orrori marchiavano
la sua pelle come carne da macello, eppure il vento continuava a rifiutare la sua anima, lasciandolo imprigionato a terra,
legato al suolo da catene invisibili.
Un rumore sordo lo portò a spalancare le palpebre, gli occhi inchiodati sul soffitto di quella che riconobbe non essere la sua tenda.
Il chiasso in sottofondo era insopportabile, le grida gli arrivarono alte e fastidiose ai timpani, facendogli voltare leggermente la testa.
Erano tre, forse quattro, le persone che frenetiche e in preda al panico correvano tra i letti dalle lenzuola candide.
Riconobbe la dottoressa Yosano e si sorprese,
notando l'espressione di puro terrore sul suo volto normalmente in una maschera di indifferenza e calma.
E presto, la ragione di tale sconforto, gli si presentò palese e terribile, facendogli mancare il respiro.

 

Nakajima Atsushi era il ragazzo più forte che avesse mai conosciuto, Ryunosuke se ne accorse fin dal loro primo incontro,
quando i suoi occhi avevano incontrato quelli dell'altro, notando le sfumature giocose delle sue iridi e la fierezza del suo sguardo.
Non si lasciava mai abbattere, Nakajima, nemmeno quando era con l'acqua alla gola e una spada puntata al petto.
Lo aveva osservato a lungo, combattere al suo fianco, la sua vita sempre posta in prima linea.
Sembrava non avesse paura di nulla, ma Ryunosuke conosceva fin troppo bene quella strana e cupa luce nei suoi occhi,
era la stessa che per anni e anni aveva portato lui e che, ancora, decorava il freddo grigio del suo sguardo. 
Paura, rassegnazione, tristezza.
Eppure sorrideva, Nakajima, e tutti lo guardavano con ammirazione e lode e perfino lui, per la prima volta nella sua vita,
si trovò a bocca aperta davanti alla presenza di qualcun altro.
Nakajima era determinato e aggressivo, come una tigre selvaggia in procinto di azzannare la sua tanto ambita preda,
con il corpo agile e silenzioso di un elegante felino e l'adrenalina pura che circolava veloce nel suo corpo.
Ma era così pallida la sua pelle, in quel momento, fusa con il colore candido delle lenzuola, le palpebre abbassate,
le labbra chiare e screpolate, il sangue che tingeva il suo petto come un manto di petali di rose rosse scarlatte. 

Il suo magro e delicato polso che pendeva nel vuoto.

 

La prima cosa che vide, quando riprese conoscenza, fu il buio della notte e, per qualche secondo, pensò di essere morto,
ma i lamenti dei soldati lo riportarono a quella tenda dall'odore terribilmente fastidioso, al via vai silenzioso dei medici,
alle piccole luci accese, che riuscì a notare con la coda dell'occhio.
Provò a schiudere le labbra, la gola gli bruciava terribilmente, la bocca screpolata, il corpo immobile e pesante.
Riuscì ad emettere solo un debole sospiro spezzato, sperando che riuscisse a riaddormentarsi presto.
Faceva male, troppo male, sentiva il corpo in fiamme, la pelle d'oca che pungeva a contatto con le lenzuola.
Stava forse morendo?
Atsushi non lo sapeva, ma per un momento sperò di sì, perché era insopportabile, ogni cosa della sua miserabile vita lo era.
Sentiva di star impazzendo, ma non poteva muoversi di un millimetro, ogni muscolo tirava e pulsava dolorosamente.
"Hai la febbre alta." Atsushi smise di respirare, per quelle che gli sembrarono ore.
Non aveva bisogno di voltarsi, non che ci sarebbe riuscito, perché quella voce la conosceva fin troppo bene.
Sentì un fruscio e poi una lieve pressione sulla sua fronte.
Atsushi cercò di mettere a fuoco, adattando la vista alla poca luce presente.
E la vide, la magra e bianca mano che premeva uno straccio bagnato sul suo volto e quel viso in penombra,
illuminato solo dalla lampada ad olio che aveva acceso pochi secondi prima accanto al suo lettino.
L'uomo uscì dal suo campo visivo, solo per riapparire pochi secondi dopo con un bicchiere tra le mani.
La sua gola bruciò e solo allora Atsushi si rese conto di star morendo di sete.
Sentì una pressione dietro al collo, che lo aiutò ad alzare il capo quel poco che sarebbe servito per non farlo soffocare
e il vetro del bicchiere appoggiato delicatamente sulle sue labbra. Il sollievo dell'acqua fresca lo aiutò a rilassarsi,
la gola non più secca ora gli faceva meno male, portandolo a sospirare. 
"Grazie." Era stato solo un debole sussurro, ma fu l'ultima cosa che Atsushi ricordò di aver detto,
prima di ricadere in un sonno senza sogni.

 

 

Il rombo frastornante delle bombe che si mischiava alla polvere alzata dal passare funesto degli eserciti,
le urla strazianti dei soldati, i corpi che cadevano al suolo come le foglie d'autunno dagli alberi secchi,
il fumo che volava in alto, verso le nuvole cupe e possenti che tuonavano prepotenti e minacciose; tutto si offuscava alla sua vista.
Atsushi correva ascoltando solo l'istinto, ora che la sua vista e il suo udito non erano più affidabili,
la vecchia ferita al petto che pulsava in modo regolare, come la tacchetta di un orologio, come a segnalargli il pericolo imminente.
Non poteva fare altro che correre e pregare, correre e sperare, correre e pensare a quanto fosse bello poter respirare.
Un tonfo sordo, una luce accecante e del corpo del soldato poco dietro di lui non rimasero che brandelli misti alla terra
che secca e dura si sgretolava in sottili granelli scuri.
Atsushi non ebbe il tempo di compiangere il compagno che un'altra esplosione, più forte e vicina, lo fece cadere al suolo,
il fucile stretto tra le mani tremanti.
La nube di sabbia lo investì, rendendo quel poco di orientamento che gli era rimasto inesistente,
le orecchie che fischiavano in modo violento, l'acuto che le fece sanguinare, la gola troppo secca per emettere qualsiasi suono.
E poi si sentì tirare, una stretta ferrea al polpaccio lo trascinò con violenza. Atsushi ebbe paura, così tanta che pensò di poter morire.
La terra gli sporcava il viso, entrandogli nelle labbra spalancate in cerca di ossigeno,
i sassi gli ferivano i palmi aperti nella speranza di trovare un appiglio che frenasse quella corsa.
Atsushi non sentiva più i proiettili tagliare l'aria, né le bombe esplodere, nemmeno le urla dei soldati;
ciò che inondava la sua mente era il caos totale e un fischio talmente doloroso da farlo sboccare. 
Quando rinvenne dallo stato confusionale, l'odore acerbo del sangue gli arrivò forte alle narici, il groppo alla gola ancora più concreto.
Quando la vista gli tornò, seppur ancora lievemente sfuocata, dovette piegarsi di lato e vomitare.
Sbatté le palpebre tra i singhiozzi, una macchia rossa scarlatta accanto al suo viso, le labbra che sapevano di ferro.
"Capitano!" Si chiese per quale motivo la voce di Kunikida suonasse così disperata, perché il suo volto fosse rigato dalle lacrime,
perché le sue mani fossero coperte di sangue, perché sentisse così freddo e perché le bombe non facessero più tremare l'aria.
Ma non gli servì chiedere, gli bastò abbassare lo sguardo su di sé, il respiro affannato, il sudore che gli bagnava la pelle,
l'odore nauseante di tabacco e alcool e la sua gamba ridotta ad un mucchio di stoffa macchiata di sangue.
Atsushi non sentiva dolore, Atsushi non ci credeva, eppure la sua gamba non c'era e Kunikida piangeva.
"Dobbiamo fermare l'emorragia"
"Abbiamo bisogno di un dottore,dannazione"
"La base è lontana, non ce la faremo mai, dobbiamo agire ora!"
"Non possiamo permettere che muoia"
"Lui non morirà." Atsushi tremò, la testa gli girava,
rendendo la sua vista precaria ancora una volta, ma riuscì comunque a voltarsi, un lieve sorriso sulle labbra.
Sollievo, era quello ciò che rilassò le sue spalle, che gli permise di respirare profondamente, nonostante il dolore
e il sudore freddo che gli colava sul collo. Sentì gli occhi lucidi, mentre calde lacrime gli percorrevano le guance pallide.
Lui era lì, alla sua destra, il volto in una smorfia di determinazione, le scure ombre sotto gli occhi che ne tradivano l'espressione dura,
rendendo l'immagine del superiore instancabile ed eroico un po' più vulnerabile, un po' più umana.
E Atsushi decise di fidarsi di lui, ancora una volta, forse spinto da tutti gli anni passati sotto le sue direttive,
forse per pura fedeltà, forse per qualcos'altro.
L'unica cosa di cui era certo, però, era che si sarebbe fidato fino alla fine, fino a quando avrebbe esalato il suo ultimo respiro.
Aveva alzato un braccio tremante, senza rendersene conto, seppur di pochi centimetri,
lo sguardo sereno e al tempo stesso sofferente su quello grigio dell'altro.
E le sentì, le lunghe e forti dita di Akutagawa che stringevano le sue,
il sangue e la polvere che si mischiavano con il contatto delle loro pelli.
E abbassò le palpebre, rassicurato, perché il maggiore Akutagawa era l'uomo più forte che avesse mai conosciuto e,
per pure egoismo ed un po' di amor proprio, ignorò quel barlume d'incertezza nei suoi occhi chiari che gli ricordò di come in realtà,
il suo comandante, fosse solo un umano.

 

Nakajima soffriva, la febbre alta, l'infezione che si propagava a macchia d'olio, l'emorragia che non cessava,
le lacrime dei soldati che si mescolavano al suo sangue in un veleno fatale.
Ryunosuke strinse l'ennesima maglietta bagnata attorno al suo ginocchio, non potendosi permettere niente di meglio.
Il respiro del capitano si era fatto più lento, il suo cuore batteva in modo sommesso, portandolo a stringere di più, ancora di più.
Non poteva perderlo, non tra le sue braccia, non quando lo aveva guardato in quel modo così caloroso,
come mai nessuno aveva fatto prima di allora.
Si fidava di lui a tal punto da affidargli la sua vita e quella dei suoi sottoposti e non poteva deluderlo, non voleva farlo.
Lo guardò in viso per una frazione di secondo, la carnagione normalmente ambrata ormai sfumata in un bianco malato,
le labbra secche e il sudore che gli imperlava la fronte.
Scostò delicatamente le ciocche di capelli bagnati con le dita, passandogli un panno umido sulle tempie,
cercando di donargli un poco di sollievo.
Era così fragile, così indifeso, eppure Ryunosuke non poté fare a meno di pensare che Nakajima fosse l'uomo più forte
che avesse mai conosciuto e sapeva che ce l'avrebbe fatta,
che si sarebbe rialzato come sempre e avrebbe combattuto al suo fianco, ancora una volta.
Per questo ignorò le lacrime del tenente Doppo, per questo si rifiutò di pregare per la sua anima, per questo gli strinse la mano;
un altro straccio a fermare l'emorragia.

 

Quando raggiunsero la base, quasi non riuscivano a crederci; caddero a terra, le bocche a baciare il terreno,
le mani verso il cielo a ringraziare chiunque li avesse aiutati ad arrivare vivi, la speranza di nuovo accesa nei loro cuori.
Ma la tensione non lasciò il corpo rigido di Ryunosuke, i muscoli che pulsavano per la fatica,
Nakajima tra le sue braccia, candido e leggero come un lenzuolo.
La troupe medica corse verso di loro, glielo portarono via, li vide correre frenetici, i guanti già insanguinati,
la ferita liberata per essere curata da mani esperte.
Ryunosuke tornò a respirare, le ginocchia che toccarono il suolo, esauste e doloranti.
Avrebbe voluto chiudere gli occhi e dimenticare tutto, rinchiudere quegli orrori nel mondo degli incubi,
ma l'odore del tabacco di bassa qualità che girava tra le frontiere lo riportò a pochi passi dalla tenda in cui il capitano giaceva,
la sua figura esile e sfregiata nascosta dai corpi chinati su di lui.
E pianse, sotto gli sguardi increduli di decine di soldati, pianse fino ad urlare, perché ancora una volta era stato troppo debole,
perché aveva perso, di nuovo.

 

Quattrocento i soldati dell'armata morti sotto il fuoco nemico, cento dei suoi sottoposti la cui esistenza si era unita al vento gelido,
che violento li aveva strappati alla vita terrena e portati con sé, come fossero solo piccoli granelli di sabbia.
Ryunosuke rimase immobile, la schiena tesa, lo sguardo dritto davanti a sé, i pugni serrati,
mentre la figura del Generale lo squadrava severa, gli occhi cremisi lo perforarono come proiettili.
"Il nemico ha ottenuto terreno sul lato orientale e su quello settentrionale,
pensavo che affidarti il fronte occidentale fosse la scelta giusta, ma a quanto pare mi sbagliavo."
L'uomo si accese una sigaretta, l'odore del fumo riempì la stanza in pochi secondi, dandogli la nausea.
"Perché hai battuto in ritirata, Ryunosuke?"
Strinse i denti, mentre la voce dura dell'altro lo raggiungeva tagliente come la lama di un coltello.
Si ritrovò a tremare al solo pensiero che quello, una volta, era stato la sua unica ragione di vita.
Non era cambiato di una virgola, Dazai, l'egocentrismo palpabile a metri di distanza,
l'aura di onnipotenza che caratterizzava ogni sua mossa,la crudeltà dei suoi ragionamenti, la sete insaziabile di sangue.
"Ho ridotto al minimo le perdite, Generale." Dazai sorrise appena, la sigaretta spenta e buttata a terra.
"Non puoi aspettarti di guadagnare senza rinunciare, pensavo di avertelo insegnato"
"I tuoi insegnamenti li ho dati in pasto ai maiali anni fa." La risata dell'uomo non tardò ad arrivare.
Si avvicinò a passo spedito, silenzioso ed elegante come un felino, sentì la pressione della sua mano sulla spalla,
le labbra a pochi centimetri dal suo orecchio.
"Dopotutto, anche quel Capitano, che ti sei tanto impegnato a salvare, ha perso una gamba per ottenere una medaglia al valore"

E Ryunosuke non pensava di poter arrivare a tanto, ma, quando le sue nocche vennero a contatto con lo zigomo di Dazai,
si sentì finalmente libero.

 

"Non doveva disturbarsi a venire anche oggi." Sembrava sereno, Atsushi, le labbra curvate in un candido sorriso che gli scaldò il cuore.
Ryunosuke fece un cenno di saluto con il capo, accomodandosi sulla sedia di ferro accanto al suo lettino.
Era scomoda e marcia, ma non sembrava curarsene, nonostante il pericolo di cadere al suolo da un momento all'altro.
Era passata una settimana dal loro rientro, la divisione di Ryunosuke era stata richiamata al quartier generale dopo la disfatta
e i feriti trasportati in una struttura più spaziosa e consona. Atsushi era stato portato in un'area dell'edificio fredda e che puzzava di muffa,
Ryunosuke aveva più volte insistito a cambiare la stanza per preservare la sua salute, ma al biondo non importava,
gli bastava un letto e un pasto caldo, un tetto sotto cui ripararsi e i rumori della guerra troppo lontani per essere sentiti. 
"Perché l'ha fatto, Capitano?" Atsushi non parve sorpreso, si limitò a guardarlo con quei suoi occhioni brillanti e intensi,
il viso in un'espressione di infinita pazienza, come se stesse spiegando la cosa più naturale del mondo ad un bambino
che ancora ne ignora le regole.
"Una medaglia non mi restituirà la gamba, Maggiore, ma donandola a lei posso mostrarle la mia immensa gratitudine"
"Non ho fatto nulla di speciale, non la merito"
"Ci ha salvati"
"Non sono un eroe, era il mio dovere"
"Non bisogna essere eroi per compiere qualcosa di eroico"
Ryunosuke zittì, la bocca aperta in cerca di una risposta soddisfacente, ma la voce non corse in suo aiuto,
lasciandolo senza parole davanti al viso ridente del ragazzo.
Sbuffò, distogliendo lo sguardo, puntandolo verso le finestre che davano sull'immenso giardino a confine con la foresta.
Il cielo era cupo, percorso da grosse nuvole scure, il vento soffiava spogliando gli alberi delle poche foglie secche rimaste. 
"Sta per piovere" mormorò, le spalle che si rilassavano, le palpebre che lottavano per non abbassarsi.
A Ryunosuke piaceva la pioggia, gli trasmetteva calma e tranquillità,
gli bastava sentirla arrivare da lontano per stendere i nervi e sentirsi finalmente in pace.
"Mi porti fuori." Il Maggiore strabuzzò gli occhi, voltandosi di scatto verso l'altro.
"Come?"
Atsushi rise appena, disfacendosi delle coperte con uno strattone, la pelle bianca tremò a contatto con l'aria fredda della stanza.
"Mi accompagni fuori." Il moro scosse la testa, alzandosi in piedi e rimettendolo al suo posto, rimboccandogli le coperte.
"Se lo scordi, è ancora troppo debole, potrebbe ammalarsi"
"Potrebbe essere l'ultimo giorno di pioggia della mia vita, non voglio morire senza averla sentita un'ultima volta."
Ryunosuke lo guardò in viso, il suo sorriso non vacillò nemmeno per un istante,
eppure la vide, quella luce nei suoi occhi, triste e rassegnata. 
Sospirò, sconfitto, prima di aiutarlo ad accomodarsi sulla sedia a rotelle,
poi gli appoggiò una coperta sul grembo, coprendo la ferita avvolta dalle candide garze. 
L'aria era gelida, sentì come mille aghi perforargli il petto, oltrepassargli la sottile camicia che indossava.
"State tremando, Maggiore, riprendete la vostra giacca."
Ryunosuke scosse la testa, fermando la carrozzina in mezzo all'erba umida del giardino.
Sorrise, non potendo evitare di pensare a quanto fragile e indifeso e, rabbrividì nel constatarlo, bello fosse il capitano,
avvolto nella sua pesante uniforme nera, le piccole medagliette d'oro che tintinnavano,
accompagnando il dolce oscillare delle sue ciocche chiare.
Atsushì si lasciò cullare dalla potente brezza, l'arrivo imminente del temporale,
la presenza del maggiore dietro di sé, calda e rassicurante. 
Era stata una settimana infernale, per lui, si era trovato così tante volte ad un passo dalla morte
da non riuscire a credere di essere ancora vivo, con polmoni funzionanti e il cuore che batteva forte e chiaro.
Voltò appena il capo, captò con la coda dell'occhio il viso di Akutagawa, limpido e dai tratti delicati,
l'espressione persa nell'orizzonte e non poté fare a meno di pensare che senza di lui non ce l'avrebbe fatta.
Era debole, Atsushi, ma con lui al suo fianco si sentiva invincibile.
"Sa, Maggiore, i suoi occhi sono dello stesso colore del cielo che preannuncia pioggia."
E Ryunosuke incontrò il suo sguardo; oro e argento, sole e luna, caldo e freddo, in un secondo non sembrarono poi tanto diversi.
Atsushi sorrise, le prime gocce che si infrangevano sulle guance di porcellana di Akutagawa.
E pensò di non aver mai visto spettacolo più bello.

 

"Dovrebbe riposarsi un po', la vedo stanco."
Ryunosuke distolse lo sguardo dalla vista fuori dalla finestra, il vento che gli scompigliava i capelli scuri.
Atsushi sedeva a letto, le coperte adagiate sul bacino, il libro di poesie tra le mani.
"I Generali si sono riuniti stamattina, il fronte occidentale è caduto nel caos."
Atsushi sospirò, il viso in una smorfia infelice. In quegli ultimi giorni, Akutagawa sembrava sempre più stanco,
i solchi scuri sotto i suoi occhi sempre più profondi, sembrava dimagrito e la pelle ancor più pallida del solito.
Era preoccupato, Atsushi, perché l'uomo che per anni aveva guardato con ammirazione per l'immensa forza di volontà
sembrava lui stesso scordare di essere solo un essere umano e, come tale, di avere dei limiti.
Era forte, Akutagawa, nonostante l'esile e malaticcio fisico, il pesante fardello della guerra che pesava sulle sue spalle
e la morte che gli si presentava davanti ogni volta che chiudeva gli occhi.
Era dannatamente forte, eppure non si sentiva tale.
Atsushi lo notò dai suoi gesti, dalle sue espressioni, da quell'odio represso per se stesso che si portava appresso,
come un parassita che si cibava delle sue insicurezze, rendendolo un involucro
talmente fragile da poter essere spazzato via con un solo tocco.
Akutagawa guardava con disprezzo le medaglie attaccate alla sua divisa, quasi come se ne fosse disgustato,
ma Atsushi sapeva che semplicemente non si sentiva all'altezza di portarle;
declinava con sguardo infastidito chiunque gli mostrasse gratitudine,
perché ai suoi occhi tutto ciò che faceva non era nulla di speciale, non era mai abbastanza.
Akutagawa si reputava un debole e Atsushi se ne accorse solo osservandolo nella sua quotidianità,
ascoltando i pensieri muti che trasparivano dal suo sguardo, i pianti silenziosi a cui si lasciava andare di notte,
quando il buio sovrastava ogni cosa e gli occhi di Atsushi erano chiusi in cerca di sonno.
Cosa stesse provando a raggiungere, a chi stesse rendendo conto, Atsushi non lo sapeva,
ma lo preoccupava il modo in cui Akutagawa si autodistruggeva per raggiungere un traguardo al di sopra dei suoi limiti.
In questo si somigliavano, se ci pensava bene, entrambi sopraffatti dal volere superiore,
entrambi legati ad una vita che non sentivano loro, in cerca di qualcosa che non li facesse sentire un fallimento.
Atsushi rimase imbambolato a fissarlo, un'aria malinconica nei suoi lineamenti.
"Akutagawa..." Il moro sobbalzò, stupito. Era la prima volta che si rivolgeva a lui senza usare il grado militare.
Gli sorrideva, come a volerlo rincuorare e Ryunosuke sentì una fitta al petto,
come se la sua maschera di ferro, che aveva con tanta cura incollato al suo viso,
fosse stata spezzata in piccole schegge taglienti. 
"Abbi cura di te, per favore." Il cuore di Ryunosuke non aveva mai battuto così velocemente.

 

I frammenti, di quelle che una volta erano state tende, svolazzavano accarezzate dalla brezza invernale,
la neve cadeva in grossi fiocchi bianchi, adagiandosi leggiadri al suolo, ormai ridotto ad un manto candido e freddo.
Atsushi guardava fuori, verso le montagne all'orizzonte, i gomiti appoggiati al davanzale.
Espose un braccio all'aria aperta e la neve si depositò sulla pelle, facendolo tremare, i brividi che percorsero la spina dorsale. 
"Ti verrà la febbre." Sorrise, non appena la calda voce dell'altro arrivò ai suoi timpani.
"E' uno spettacolo splendido, non trovi?" Sentì i suoi passi eleganti raggiungerlo e il corpo di Akutagawa lo affiancò,
le braccia sul davanzale, una mano a sorreggergli il capo.
Rimasero per quelle che gli sembrarono ore a guardare i cristalli ghiacciati cadere dal cielo, come rapiti.
"Vorrei che questo non fosse l'ultimo giorno di neve della tua vita, per cui rientra e mettiti a letto."
Atsushi rise appena, mai stanco dell'iperprotettività dell'altro, si voltò
e notò con immenso piacere che le sue occhiaie sembravano migliorare.
Akutagawa era esausto, lo poteva percepire dal corpo teso e le palpebre che lente si alzavano e abbassavano,
ma sembrava più tranquillo dei giorni precedenti.
"Già, dimenticavo di esseretalmente debole da poter crepare per un raffreddore"
"Smettila di scherzare, non è divertente." Atsushi puntò lo sguardo davanti a sé, verso gli alti pini coperti di bianco,
le montagne ora nascoste da una nebbiolina fine.
Immaginò di poter uscire, di potersi rotolare tra la poltiglia bagnata,
di fare pupazzi di e giocare a palle di neve con Junichirou,
come faceva con i bambini dell'orfanotrofio in cui era cresciuto.
Sentì gli occhi lucidi, il ricordo del suo migliore amico ancora vivido nella sua mente.
"Vorrei essere come te." Era stato solo un sussurro, ma Akutagawa lo captò senza difficoltà,
il capo che si voltava preso alla sprovvista, Il corpo rigido che non poteva credere a ciò che aveva appena sentito.
Atsushi continuò a parlare, la voce bassa e gli occhi fissi nel vuoto.
"Vorrei essere forte come te, vorrei poter camminare a testa alta,
vorrei poter dire di aver fatto qualcosa di concreto per questo mondo,
ma sono solo uno stupido ragazzino terrorizzato dall'idea di morire. Patetico, vero?"
Le lacrime avevano iniziato a bagnargli il volto, senza che se ne rendesse conto, il corpo che tremava per i singhiozzi.
In un primo momento non fece caso a quell'ondata di calore che lo pervase, né a quella stretta che gli mozzava il fiato;
ma poi sentì le dita di Akutagawa, che lente e delicate gli carezzavano la schiena.
Lo teneva stretto, il capo al suo petto e le braccia tremanti.
Atsushi sussultò, alzando di scatto il capo. Akutagawa stringeva i denti, un'espressione arrabbiata sul volto,
eppure le sue mani erano gentili sul suo corpo.
"Sei uno stupido, Atsushi. Tutti hanno paura di morire, tutti hanno paura di perdere, ciò che provi non ti fa essere debole,
ammettere di avere paura dimostra solo quanto tu sia forte. Ti invidio davvero tanto, Atsushi, sono io che vorrei essere come te."
E Atsushi sentì il petto in fiamme, quando le lacrime di Akutagawa caddero sulle sue guance,
le loro fronti a contatto, i nasi che si sfiorarono, i loro occhi incatenati tra loro.

"Torno a casa"
Non era sorpreso, Ryunosuke, eppure si immobilizzò, il respiro si spezzò di colpo;
gli fece male sentire quelle parole, solo la sua naturale compostezza lo salvò dal far trapelare le sue emozioni.
Abbassò il libro, che fino a poco prima teneva in grembo, per sollevare lo sguardo sul viso dell'altro.
Atsushi non lo guardava, le mani appoggiate tra le lenzuola, gli occhi puntati su una qualche cucitura delle maniche della sua maglia.
Il silenzio era teso tra di loro e Ryunosuke non ne capiva bene il motivo, avrebbe dovuto essere felice, Atsushi, di andarsene per sempre,
di tornare nel suo amato paese, lontano dalla morte e dalla guerra, lontano da tutto ciò che era dolore ed orrore,
da tutto ciò che avrebbe accompagnato Akutagawa fino alla sua fine, come parte integrante del suo essere.
E Ryunosuke sapeva che doveva andare così, che Atsushi era troppo puro, troppo innocente,
troppo splendente per poter vivere nel suo mondo di tenebre e peccato.
Eppure non riusciva ad accettarlo, non poteva più a pensare a come sarebbe stata la sua vita senza Atsushi
e non riusciva a capacitarsene, perché aveva vissuto vent'anni senza di lui, ma in quel momento sapeva che non ce l'avrebbe fatta.
"Quando?"
"La settimana prossima"
Gli faceva male il petto, così male che avrebbe voluto urlare, ma si limitò ad annuire nel silenzio caduto nuovamente su di loro.
Chiuse il libro, dimenticandosi di tenere il segno, si alzò lentamente, la testa che girava. Indossò la giacca dell'uniforme,
le medaglie che producevano rumori acuti scontrandosi tra di loro.
"Ho una riunione, ci vediamo stasera."
E senza aggiungere altro si chiuse la porta alle spalle, Atsushi sentì i suoi passi echeggiare sul pavimento del corridoio.
Rimase con il fiato sospeso, fino a quando non fu sicuro che fosse lontano.
E pianse, le lacrime sgorgarono a fiumi, sfuggendo al suo autocontrollo, portò le mani al viso, cercando di eliminarle.
I singhiozzi riempirono la stanza, mentre le lenzuola si bagnarono ad un ritmo cantilenante.
Avrebbe dovuto essere felice, Atsushi, di scappare da quell'Inferno, ma le lacrime non cessavano di cadere.

 

Era lui con altri cento, a partire l'indomani.
Ogni cosa era già pronta, eppure gli sembrava di star vivendo una finzione, un incubo da cui avrebbe voluto svegliarsi.
Lo avevano abbracciato in tanti, quella sera, chi con le lacrime agli occhi, chi con un sorriso d'incoraggiamento,
chi con l'invidia scritta in volto. Atsushi non riusciva a dormire, quella notte, l'ansia lo stava divorando.
La luce della luna filtrava attraverso le nuvole, illuminandolo appena, seduto sulla sedia a rotelle davanti alla finestra.
Il vento gelido della sera lo colpì in pieno viso, ma non se ne curò,
continuando a scrutare le stelle che splendevano in quel manto scuro sopra la sua testa.
Sentì la porta cigolare, ma non ebbe bisogno di voltarti, i passi di Akutagawa li avrebbe riconosciuti tra mille.
Il suo respiro sul collo lo fece rabbrividire, mentre i suoi capelli gli fecero il solletico, curvando le sue labbra all'insù.
Ryunosuke appoggiò la testa nell'incavo del suo collo, il respiro che combatteva per rimanere regolare.
"Scusami." La sua voce incrinata lo fece sentire terribilmente male. Atsushi portò una mano tra i ciuffi color pece, carezzandoli piano.
"Non importa. Ora sei qui, questo è l'importante, no?"
Avrebbe voluto dirgli quanto in realtà avesse pianto, quando quella sera non si era presentato,
quanto gli fosse mancato nei giorni a venire, quanto si fosse sentito in colpa.
La verità è che Atsushi era terrorizzato all'idea di andarsene, perché avrebbe voluto dire non vederlo mai più.
Entrambi lo sapevano, entrambi non erano pronti a dirsi addio.
Ed era scappato di nuovo, Ryunosuke, troppo debole per poter affrontare la realtà dei fatti, per guardarlo negli occhi un'ultima volta.
"Puoi portarmi a letto, Ryu?" Il moro alzò il capo, i loro occhi s'incontrarono per interminabili secondi,
non servivano le parole, non tra loro, non quando la luce della luna lasciava trasparire i loro sentimenti così chiaramente.
Lo stese tra le lenzuola, l'esile corpo incrinò appena il materasso mezzo marcio.
Ma le sue mani non lasciarono la sua pelle, le sue iridi argentate trovarono quelle dorate dell'altro, i respiri corti e le spalle tremanti.

"Resta"

Non aveva mai provato nulla di più dolce e afrodisiaco delle labbra di Atsushi. 
La testa si svuotò, il cuore leggero, la bocca che lenta si muoveva pronunciando un solo nome, sussurrato al freddo vento invernale;
la pelle nuda percorsa dai brividi di piacere, lacrime salate sulle loro guance.
Fu sofferente e al tempo stesso magnifico, i loro respiri caldi che si univano ai loro sospiri,
le mani che leggere si muovevano fameliche e disperate,
il desiderio che quel momento non finisse mai, la paura di lasciarsi in ogni loro bacio. 

 

 

Gli ultimi fiori avevano cominciato a sbocciare, colorati e splendenti sotto la luce del sole di Maggio, profumando l'aria di dolci fragranze;
gli ultimi ciliegi che tingono di rosa le strade. Atsushi sedeva su una panchina all'ombra di un grande albero,
le voci dei primi bambini che tornavano a giocare sui prati animavano l'atmosfera, il canale che scorreva limpido sotto il suo sguardo.
Lasciò che la debole brezza primaverile gli scompigliasse i ciuffi biondi, le mani attorno ad un pezzo di carta adagiato sul grembo.
La stretta era così forte da fargli divenire le nocche bianche, gli occhi che lottavano per non cedere alla voglia di piangere.
Se lo aspettava, Atsushi, che quel giorno sarebbe arrivato, eppure dentro di sé aveva coltivato la speranza in un destino diverso,
in un, seppur sciocco e da bambini, lieto fine. Ma era stato stupido, infantile, un vero idiota.
Abbassò lo sguardo, le pupille che agitate rileggevano quelle righe per la milionesima volta.
Se lo aspettava, Atsushi, eppure faceva così male. Avrebbe voluto alzarsi, correre via, tornare a muoversi veloce ed elegante come un felino,
scappare da quella realtà che non voleva accettare, ma non avrebbe potuto farlo mai più, perché non aveva più un luogo in cui rifugiarsi.
Era morto, Akutagawa, portato via dal vento come le foglie d'autunno.
Se ne era andato, la sua esistenza solo un sussurro del vento gelido dell'inverno, un granello di sabbia che sfuggiva tra le dita.
La guerra lo aveva sradicato dal suolo, marchiando il suo corpo un'ultima volta.
La ricordava, Atsushi, la sensazione delle sue cicatrici sotto le dita, l'orrore delle battaglie scavate nella sua delicata pelle.
Le aveva baciate, allora, rendendole solo parte di un passato lontano, di una verità che non apparteneva a loro.
Ma si era vendicata, la morte, glielo aveva portato via, strappandolo dalle sue braccia.
Non c'è vincita nella guerra, questo Atsushi l'aveva sempre saputo, eppure, per puro egocentrismo,
era convinto che almeno quella volta lo avrebbe lasciato vincere.
Le lacrime caddero, bagnando la carta macchiata d'inchiostro tra le sue dita.
Avrebbe dovuto stringerlo di più, senza mai lasciarlo andare, avrebbe dovuto ripetergli ancora una volta che lo amava,
sarebbe dovuto rimanere al suo fianco. 
Il petto gli fece male, il corpo percosso dai singhiozzi, la lettera stretta al cuore.
Si piegò su se stesso, il dolore troppo intenso da superare.
Fu il viso di Ryunosuke, l'ultima cosa che vide, prima di cadere al suolo,
gli occhi socchiusi, le labbra curvate in un lieve sorriso, la presa allentata e la lettera che volò verso il cielo,
le parole nere su bianco che svolazzarono tra i petali di ciliegio.

"Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie" *
(Ungaretti)

E sperò che, almeno il vento, lo aiutasse a raggiungerlo.



 

 

 

Note:
dopo più di dieci mesi di inattività su efp, ho deciso di ricominciare a postare alcuni lavoretti che ho fatto durante questo tempo.
Ultimamente ho pubblicato solamente su wattpad, più per una questione pratica che altro, dato che, come noterete sicuramente, il mio
editor html mi dà qualche problemino e l'allineamento del testo è un casino e non riesco a giustificarlo (stesso problema che mi ha portato a non usarlo
per tutto questo tempo). Spero che questa one shot, per cui ho sudato settiamne e che ancora non mi convince molto ma meh l'ho scritta quest'estate e, onestamente,
dopo aver passato più di un'ora a lavorare per l'html e aver prodotto questa cosa, non voglio più averci a che farE stop.
Grazie mille per aver letto, alla prossima

Naka

 

 

 

 

 

   
 
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