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Autore: melville    07/11/2017    0 recensioni
Ricominciare.
é una parola semplice, ma forse metterne in pratica il significato non lo è altrettanto. E Peter lo sa bene, purtroppo.
Una storia dove il passato e il presente sembra continuino a inttreciarsi senza lasciarsi andare. Tra università, turni di lavori part-time e coinquilini impiccioni, Peter cerca di andare avanti con la sua vita senza dover affrontare i fantasmi del passato... ma a volte nemmeno la più forte delle volontà può bastare. Non quando, a dirla tutta, non si è pronti a voltare per sempre pagina per primi.
Una storia dove ricominciare non vuol dire necessariamente chiudere per sempre il libro, ma iniziare semplicemente un nuovo capitolo.
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Rimaniamo tutti qualche istante in silenzio prima che la voce di Jace mormori qualcosa come: “E chi era quella fica?”
Non so se sentirmi geloso per l’apprezzamento rivolto alla ragazza o ridere per il solito modo inopportuno di Jace. Scelgo l’indifferenza, che forse mi salva più di tutto ormai.
“Nessuno d’importante Jace”, solo il mio più grande amore e immenso rimpianto.
Martyn mi guarda male e Marie Claire alza un sopracciglio scettica, perché alle donne certe cose non sfuggono.
“Allora”, sospiro “Riprendiamo il lavoro?”
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo I

domenica

 

La luce è spenta e le persiane sono chiuse. La camera è completamente oscurata e il mio dormiveglia totalmente tranquillo e spensierato. La testa è comodamente poggiata sul materasso morbido, proprio nel mezzo dei due cuscini freschi. Sono piuttosto certo che il piede destro sia uscito da sotto il piumone, ma la mia posizione è troppo comoda e la voglia troppo poca, per rimediare a quel senso di gelo che mi sta attanagliando le dita.

Ed ecco che questo momento perfetto viene presto interrotto da una fastidiosissima luce che improvvisamente entra nella stanza, e la voce del mio coinquilino che urla: «Peter dobbiamo essere lì tra dieci minuti! Se non alzi il culo ti mollo a piedi.»

Il risveglio più bello di sempre.

«‘Fanculo, Charles» è l’unica cosa che il mio cervello riesce a far uscire dalla bocca, mentre copro gli occhi sotto uno dei due cuscini.

«Peter non sto scherzando!»

Odio quando le persone mi dicono quello che devo fare come se fossi un dannato moccioso.

Presto le coperte mi vengono tolte da sopra il corpo, così come il mio riparo agli occhi viene scagliato per terra. Adesso posso sentire il gelo impossessarsi del mio intero corpo e inevitabilmente maledico la mia abitudine di dormire in boxer.

Apro gli occhi svogliatamente e metto a fuoco la figura vestita di scuro, con i riccioli color cioccolato acconciati ad opera d’arte con il gel, ritta in piedi davanti a me. Charlie mi sta guardando con un cipiglio severo sul volto, gli occhi verdi inondati di impazienza e le mani poggiate sui fianchi, come una perfetta madre arrabbiata. Potrei essere abbastanza certo di vedere del fumo uscire dalle sue narici, dilatate per il fastidio causato dal mio ‘comportamento immaturo’.

Nonostante i due anni di differenza, i miei ventitré anni e i suoi miseri ventuno, è sempre stato lui quello responsabile. Sempre se ubriacarsi il sabato sera per poi finire a urinare nelle aiuole dei giardinetti possa essere considerato maturo. Ma questa è comunque l’idea comune che la gente ha di noi.

«Peter, possibile che da quando sei tornato dall’Irlanda non fai altro che dormire? Torni da lavoro e dormi, vai a comprare il pane, torni e dormi, vai a studiare, torni e dormi. La tua vita ormai è un letargo con intervalli regolari per i tuoi bisogni primari quali mangiare, fumare, e sì ogni tanto lavarsi e studiare.»

Probabilmente non si è reso conto di aver lasciato sul letto un cuscino perché non è abbastanza rapido da evitarlo quando glielo tiro contro. Ho beccato la faccia: cento punti!

Sospiro e guardo la sveglia ammaccata, poggiata sul comodino. «Cinque minuti e sono pronto.»

«E sarà anche l’ora!», brontola uscendo finalmente dalla stanza.

Gli voglio bene e provo per lui tutto l’affetto che si può provare per un amico che conosci da anni, ma diavolo non ho mai firmato per una seconda madre quando abbiamo decisi di convivere.

Chiudo gli occhi e provo, ma non riesco, a immaginare come se quest’anno non ci sia mai stato. Odio la svolta che ha preso la mia vita in questi dodici mesi: sono diventato un fallito a tutti gli effetti.

E comunque io nemmeno voglio andarci alla dannata festa di laurea della sorella di Charlie. Tralasciando il fatto che mi fa sentire ancora più fallito ricordandomi che io non ho combinato nulla di buono in questi anni, odio le feste e le persone che ci sono alle feste: gente che vedi giusto una volta all’anno, di cui non ti frega niente e ai quali non frega nulla di te, ma inevitabilmente quando vi incontrate a questi tipi di eventi sono subito lì pronti a fare moine e domande, come se davvero fossero interessati. Per non parlare del fatto che la festeggiata e la mia ex ragazza sono come il burro e la marmellata. E onestamente è un anno che cerco di evitare Dianne in tutti i modi, non vorrei che questa serata rovinasse tutto. Certo, magari il mio non è il comportamento più maturo ed esemplare, lo so che non bisognerebbe correre via dai problemi ma sono un sostenitore più che convinto che ognuno ha il diritto di scegliere le proprie battaglie e le proprie ritirate. Quando una persona a cui tenevi più di ogni altra ti ferisce in modo irreparabile, chiunque ha il diritto di scappare da essa, soprattutto quando tutto quello che desideri è dimenticare ma ogni cosa sembra riportarti alla mente quel volto che tanto vorresti odiare ma che non fai a meno di rivolere indietro. So che è contro ogni logica e questo ragionamento fa acqua da tutte le parti, ma io di Dianne ero davvero innamorato ed è proprio perché non c’è giorno in cui non la rivorrei al mio fianco che preferisco evitare ogni contatto con lei. Mi ha già ferito una volta e non ho nessuna indole al masochismo.

Diamine!, mio nonno me lo ripeteva fino allo sfinimento che mai avrei dovuto innamorarmi: «L’amore fa male Peter!» era la sua frase preferita. Ed è vero che l’amore fa male, ed è terribile quando un amore sincero diventa difficile da portare avanti, ma niente mi ha mai fatto sentire vivo quanto l’amore. E ora che se n’è andato mi sento come morto: uno zombie, ecco cosa sono diventato da un anno a questa parte. Un morto vivente che ripete le azioni in modo automatico perché ormai sono inscritte nei suoi geni.

Mi avevano detto che un cuore rotto si cura solo andando avanti eppure io non ho ancora visto risultati, e non è che con questo voglia dare la colpa ad altri per il mio stato d’animo, è solo che ho provato a seguire un consiglio!

«Peter cazzo!», oh mio Dio Charlie deve darsi una calmata.

«Eccomi, calmati dai» rispondo uscendo dalla camera. Subito il suo sguardo ostile mi è addosso: è già accanto all’uscio di casa, tiene la porta aperta con una mano e nell’altra ha le chiavi. Il suo piede sinistro batte impazientemente il tempo per terra e mi scappa da ridere perché Dio mio!, è senza dubbio una situazione esilarante. Mi allungo verso il comò nel corridoio d’entrata e afferro velocemente il portafoglio prima di precipitarmi fuori di casa e correre giù per le scale.

«Charlie dai sbrigati che siamo in ritardo!» gli urlo per prenderlo in giro e oltre al rumore della mia corsa sento le sue imprecazioni che tentano di raggiungermi.

Charlie, quando ancora ne parlavamo, diceva che Dianne era l’unica capace di mettere un freno alla mia linguaccia. Diceva che con lei mostravo sempre la migliore parte di me. Credo sia per questo che ormai mi sono ridotto a essere un cinico bastardo senza la speranza di pulire la mia vita dalle macerie e dalla spazzatura: quando l’ho abbandonata a piangere contro il muro dell’appartamento e le ho lanciato l’ultima occhiata ferita, deve essermi scivolato via qualcosa e oltre alla felpa della Obey –la mia preferita, diamine!- devo aver dimenticato nel nostro appartamento tutto il buon potenziale che c’era in me.

 

In macchina Charles accende la radio e la sintonizza sulla BBC Radio, che sta passando una canzone troppo commerciale anche per le sette di sera.

Prendo il telefono di Charlie, appoggiato in mezzo allo spazio dei sedili e cerco un brano decente nella collezione di album troppo indie che tanto appassionano il mio coinquilino. She’s a rebel dei Green Day finalmente mi pare un’ottima colonna sonora per questo corto viaggio ma il mio pollice non fa in tempo a premere sul titolo che il cellulare vibra e l’icona dell’arrivo di un nuovo messaggio appare in alto sullo schermo. Non è tanto il messaggio in sé a bloccarmi quanto il nome del mittente. Dianne.

Sospiro. Almeno Charlie sa che fine ha fatto. Anche se con me non ne vuole più parlare pochi giorni fa si è lasciato scappare che stasera probabilmente non sarebbe potuta venire: problemi con i turni di lavoro. Io non sapevo nemmeno avesse cominciato a lavorare.

Prendo una Chesterfield dal pacchetto che tengo nella tasca dei jeans e l’accendo con il clipper nero che lascio sempre vicino al cambio dell’auto. Inspiro.

«Dio Peter, almeno abbassa il finestrino che già tutto in quest’auto puzza come le tue dannate sigarette!»

«Hm sì, scusa amico» farfuglio velocemente abbassando il finestrino davanti, e anche quello dietro. Per sicurezza.

«E sistemati i capelli che sembri un barbone!»

Sbuffo e mi tiro il cappuccio della felpa sopra la testa, un cipiglio forzato e imbronciato a dipingermi il volto, «Contento adesso?»

«Peter non fare il bambino» brontola Charlie, mettendo la freccia appena vede un parcheggio libero.

Alzo gli occhi al cielo e mi pettino i capelli con le dita, cercando di sistemarli alla meglio. Forse dovrei tagliarli perché ormai questo ciuffo è ingestibile ed è un miracolo se ancora riesco a vederci, tanto è diventato lungo. Li scosto malamente dalla fronte e cerco di mettere su la mia espressione migliore.

Scendiamo dall’auto e ci dirigiamo verso l’insegna luminosa del pub, affittato da Alice appositamente per la serata.

Charlie, che sta camminando di tre o quattro passi avanti a me, si gira d’un tratto e fermandosi mi guarda serio negli occhi: «Comportati bene. Non insultare, non dire troppe parolacce, sorridi e per favore non fumare dentro!»

«Charlie so come mi devo comportare in mezzo alla società, tranquillo! Non sono diventato improvvisamente un cavernicolo.»

«Be’, ci stai andando vicino.»

Scuoto la testa sorridendo e gli tiro un pugno sul nervo della spalla, lui impreca ma non ribatte: sa di esserselo meritato.

Entriamo nel pub e subito la musica, grazie al cielo nemmeno troppo alta, ci invade le orecchie. Il locale è già straripante di persone, c’è un lungo buffet sul lato sinistro della sala e nell’angolo destro sul fondo un Dj che dirige la musica. Noto qualche faccia conosciuta che mi lancia sorrisi di saluto, ai quali ricambio svogliatamente.

«Vieni, andiamo a congratularci con Alice» mi esorta Charlie, come se oggi non l’avessimo già chiamata abbastanza per farlo.

La sorella del mio coinquilino è ovviamente circondata di gente ma questo non fa demordere Charlie dall’andarsi a congratulare di persona, trascinandosi dietro anche me, ovviamente. Lo seguo bevendo un lungo sorso della Ceres che sono riuscito a prendere dal tavolo delle bibite.

«Charlie, Peter siete finalmente arrivati!» ci accoglie con entusiasmo Alice, abbracciando prima il fratello e poi me. Ho sempre pensato fosse una gran figa ma stasera è proprio bella: i capelli marroni, tendenti al ramato, le scendono lungo il busto, mossi ad opera d’arte. Il viso è raggiante e i suoi grandi occhi verdi oggi sembrano ancora più luminosi. Il vestito viola che ha indossato le fa risaltare le curve dei fianchi, il colore scuro è in contrasto con la pelle chiara.

«Wow Peter, come sei… elegante!» esclama sarcasticamente Alice, guardando il mio abbigliamento casual.

In effetti avevo già notato quando siamo entrati che tutti nella sala sono vestiti eleganti, compreso Charlie, con quella camicia nera senza una piega e i jeans stretti del medesimo colore, e , forse io stono un po’… Ma oh!, già grazie che sono presente! Che poi non sono nemmeno così mal messo: giusto le Vans sono leggermente rotte sulla punta, ma per il resto indosso semplici jeans grigi e una felpa nera con cappuccio. Con un buco sul polsino della manica.

«Dai Ali, almeno sono venuto, non sei contenta?»

«Certo che sono felice Pete! Come potrei non esserlo?», mi risponde con un sorriso sarcastico, stringendomi affettuosamente un braccio con le dita affusolate e ricoperte di anelli. Poi si rivolge a Charlie e i due cominciano a parlare di noiosissime questioni familiari, dalle quali mi ritiro.

Comincio a vagare disperato per la sala quando fortunatamente m’imbatto in Clyde, il mio vecchio compagno di banco durante letteratura.

«Pete cazzo, è una vita che non ci vediamo!», ah Clyde, che bello riaverlo intorno: ammetto che mi è decisamente mancato.

Cominciamo così la conversazione che finisce per dirottarsi verso i bei vecchi anni da adolescenti, mentre noi beviamo sempre più birra e le nostre frasi diventano più strascicate. Mi presenta la sua nuova fidanzata, stanno insieme da un anno e io non ne sapevo nulla. Mi accorgo di aver perso ogni contatto con il passato da un po’ di tempo a questa parte. Mi informo così sui recenti avvenimenti e cambiamenti. Clyde è sempre stato un po’ pettegolo e non è difficile farsi raccontare un po’ di tutto su tutti. E di certo la birra non lo aiuta a tenere la bocca chiusa.

«… L’altra sera sono uscito per una birretta con Dianne, erano secoli che non la vedevo! Tu l’hai più vista?»

Sento il mio corpo avere uno spasmo involontario e irrigidirsi di colpo. La mano destra stringe in modo eccessivamente forte la birra e sento arrivarmi addosso vampate di caldo. Scuoto meccanicamente il capo e Clyde strabuzza gli occhi sorpreso: «Ma dai, davvero? Quindi non la vedi da quando… Si insomma, sai… Ehi ma è qui anche lei l’ho vista prima!»

Lo guardo negli occhi, cercando di capire se sia serio o meno e nel suo viso vedo tutta la sincera innocenza delle parole di un ragazzo alticcio. La sala mi sembra diventare troppo stretta e le persone d’un tratto sono troppe e mi sento soffocare.

Charlie. Lo raggiungo che ancora sta parlando con Alice, gli arpiono prepotentemente un braccio e lo faccio voltare nella mia direzione.

«Peter ma che diamine ti è pr-»

«Dianne è qui. Tu lo sapevi?»

Lo vedo aprire la bocca e spalancare gli occhi come un pesce, poi senza proferire parola richiude le labbra e lancia un’occhiataccia alla sorella che ci guarda apatica.

«Vieni Pete, è meglio se andiamo a casa» dice voltando le spalle ad Alice e trascinandomi via. Cerchiamo di farci largo nella folla il più in fretta possibile. Tengo lo sguardo basso perché non voglio vedere in faccia nessuno, voglio solo uscire da qui e tornare a casa, sotto il piumone del mio letto.

«Peter non potrai scappare per sempre!» sento la voce di Alice urlarmi alle spalle.

Charlie si volta di scatto verso la sorella, ha perso tutto il contegno che mostra solitamente ed esasperato le urla: «Alice piantala! Non lo vedi che non è pronto per affrontarla? Mi avevi detto che non sarebbe venuta, accidenti!»

Vorrei poter dire qualcosa a mia discolpa, riuscire a difendermi da solo e non apparire come un infante disperato, ma sono troppo impegnato ad annegare negli occhi che mi sono ritrovato davanti, uscendo dalla porta.

Dianne è qui, davanti a me. Ed è vera, in carne e ossa, mi sta fissando anche lei e sembra abbia visto un fantasma. Gli occhi sono spalancati e terrorizzati, il viso è pallido e tirato. Le sopracciglia inarcate per la sorpresa e le labbra lasciano uno spiraglio nel mezzo.

«Peter» è tutto quello che le esce dalle labbra rosee, e tutto quello a cui riesco a pensare è quanto il suono della sua voce che pronuncia il mio nome mi sia mancato.

Mi sembra di essere finito in una fotografia: sembriamo congelati da questa situazione, niente intorno a noi si muove, nessuno parla e la musica ormai nemmeno più la sento, vedo solo lei davanti a me.

Tutto questo fa male e fa bene, vorrei urlarle contro ma anche stringermela forte al petto come un tempo. Vorrei piangere perché dopo un anno è davvero di nuovo davanti a me e io capisco che questi mesi non sono serviti a nulla, perché la sensazione che ho nel petto è la stessa che avevo quando uscivo per sempre di casa, dopo che lei mi aveva confessato il suo tradimento.

Mi guarda ed è palese che non sappia come comportarsi, mi guarda e forse si aspetta qualcosa da parte mia. L’unica cosa a cui riesco a pensare in questo momento è che il mio intero corpo si oppone a qualsiasi movimento e tutto quello che il mio cervello riesce a fare e memorizzare ogni piccolo particolare di Dianne.

«Ciao Dianne», riesco finalmente a dire, e forse sono riuscito a non passare per un completo idiota.

Le sorrido e contengo nell’angolo più oscuro del cervello tutti gli istinti animaleschi che vorrebbero controllarmi, tipo quello che mi consiglia di mettermi a piangere o quello che mi impone di caricarmela in spalla e scappare via.

Voglio cercare di apparire tranquillo, come qualcuno che è riuscito ad andare avanti: non voglio sbatterle in faccia la mia disperazione. Continuo a sorriderle e lei mi guarda con gli occhi grandi spaesati e le sopracciglia leggermente crucciate. Accenna un timido sorriso sulle labbra, che hanno ancora quella tonalità rosea naturale che la rende così semplice e bella.

Apre la bocca per parlare, ma semplicemente voglio andarmene il più in fretta possibile quindi la interrompo forse un po’ sgarbato, ma io odio le situazioni scomode, e: «Scusa, ma io e Charlie stavamo andando a casa» dico, facendo un cenno con la testa verso il mio amico, che per tutto il tempo mi è rimasto di fianco, immobile a osservarci.

Lei chiude la bocca e fa scivolare gli occhi da me a Charlie, si lecca le labbra e poi finge, e sì lo so che finge perché la conosco fin troppo bene, un sorriso tranquillo, congedandosi ed entrando nella sala.

Chiudo gli occhi e sembra sia ancora davanti a me, i capelli biondi lunghi sotto le spalle, la frangetta a coprirle graziosamente la fronte. Gli occhi azzurri che un tempo non si stancavano mai di osservarmi. Non le ho nemmeno detto quanto quel vestito verde chiaro le stesse bene, ho sempre avuto un debole per i suoi vestitini floreali.

«Andiamo a casa» mi sprona Charlie con un sorriso storto e gli occhi stanchi, ma non per il sonno.

Annuisco. Sì Charlie, forse è meglio se andiamo a casa.

  
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