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Autore: Mitrion    09/11/2017    1 recensioni
Una riflessione che nasce e muore nel giro di poche parole, piena di domande e di una futile risposta.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Siamo davvero così speciali?
Ho letto molte frasi, anche di penne famose, come: "nessuno ti capirà mai come me", "a volte mi chiedo se le persone siano incapaci di vedere la sofferenza altrui" e ancora "il mio amore per te non avrà eguali, né ora né mai". Ovviamente non cito testualmente, sia mai qualche sghiribizzo da poetastro o scrittore laureato spinga qualcuno a bacchettarmi le mani con cui amo scrivere. Tuttavia, il succo della questione rimane lo stesso: sono solo parole che riempiono la bocca -e magari i libri e le storie su instagram- oppure vi è un senso più profondo in quelle linee tracciate da altri prima di noi, prima di me?

Qualcuno una volta mi ha detto che odio quando la gente mi capisce. Complici le situazioni del momento, forse non aveva tutti i torti. Mi ha fatto riflettere su come spesso io -e penso molti altri- mi complichi la vita inutilmente, come se diventare qualcosa di astruso e incomprensibile agli occhi del prossimo possa in qualche modo rendermi accattivante, misterioso e, che so io, una qualsiasi delle altre velleità a cui aspiro.
Non voglio essere capito perché non voglio dare a qualcuno la possibilità di toccarmi e ferirmi là dove davvero conta. Una sorta di autodifesa che col tempo mi si è ritorta contro.
Non dovrei, però, ignorare un'altra possibilità, quella che di primo acchito metterei da parte, quasi la ritenessi un peccato, una macchia indelebile da lavare: il volermi sentire, a modo mio, speciale. Perché la parola "incompreso" come cinema, libri e storie di regni lontani insegnano, vuole spesso dire "unico" o "straordinario" quasi ci trovassimo all'incipit di una qualche grande avventura che solo un eroe sconosciuti e ostracizzato da tutti possa intraprendere. Come se la mancanza di tale presupposto impedisse al leggendario stregone di turno o al prode essere spaziale di sceglierci, perché privi di un triste ed oscuro passato da cui apprendere e progredire così da essere, un giorno, capaci di salvare il multiverso.

Io credo che la verità sia nel mezzo. Come è facile tenere il piede in due scarpe quando si parla di sentimenti, vero? Ma rimane il fatto che è più semplice “rimanere incompresi”, urlare al mondo che nessuno ci capisce e incolparlo dei nostri problemi, quando basterebbe soltanto superare la nostra incapacità a comunicare.

Capire e farsi capire dovrebbe essere alla base della comunicazione umana: lingua che batte sul palato, aria che sfiora labbra e denti, occhi che indicano e si illuminano, corpo che si muove e svela ciò che è sconosciuto persino a noi stessi. Insomma, nulla di metafisico, carne e ossa, tendini e muscoli che si muovono al ritmo prima lento e poi, di colpo, frenetico del tango del cuore, magistralmente alternato dal valzer di impulsi elettrici del cervello.
Eppure, quando la natura sembra un susseguirsi di cause ed effetti, di cui comprendiamo al più la metà, ecco arrivare qualcosa, un'infezione, non ben definita, che prende il sopravvento e controlla tutto il resto; alcuni la chiamano psiche, altri preferiscono il termine anima. Questa fonte di irrazionalità, emozioni e sentimenti che tutto può e tutto distrugge. Crea, dona, toglie e dilania. Dirige il tempo di tutti i balli e le sinfonie che vengono rappresentati dal nostro corpo, un direttore artistico che non si fa problemi a riscrivere più volte la coreografia, a cambiare le battute e persino a cancellare uno spettacolo, perché svegliatosi dal lato sbagliato del letto.
In balia di questa maestra d'orchestra, iniziamo a pensare di essere il centro del mondo, un singolarità di eventi e situazioni che mettono in ombra tutto il resto.

Dovrebbe arrivare un ma? Becero moralismo, a mio parere. Nasciamo e moriamo con, tra, per -e tutte le altre possibili preposizioni semplici e articolate- egoismo. Siamo come "frutti di io" che cercano di maturare e differenziarsi il più possibile rispetto ai loro simili sui rami vicini. La botanica, tuttavia, non pare il nostro forte, per rimanere nella metafora.
Possiamo davvero riuscire in questo nostro intento di trasformarci in qualcosa di completamente altro? Può, insomma, un melo partorire un'arancia dai suoi rami? E questa arancia sarebbe poi così diversa dalle arance degli altri alberi carichi del medesimo frutto?
Forse si può pensare di recidere il collegamento, staccarsi dal ramo e infine cadere, così da diventare "differenti e unici", ma ciò non ci porterebbe a marcire? E questa scelta sarebbe giustificabile per un attimo di "unicità"?
Si può essere dunque davvero speciali? Possono le nostre emozioni, così irrazionali, mutevoli e cangianti rimanere uniche ed irripetibili? Può il nostro amore durare in eterno? È possibile rimanere per sempre incompresi? È possibile che nessuno possa sostituirci?

Sono domande a cui non sta a me trovare risposta, né a qualche genio divino disceso dal cielo o scienziato pazzo coi suoi calcoli e integrali in un laboratorio.
Credere è un atto di fede, la capacità di scegliere, senza sapere, senza prove o fondamenti. Guardare una scatola di cioccolatini e dire che al suo interno vi siano unicamente caramelle gommose, anche se nulla può confermare o smentire tale affermazione. Allo stesso modo le risposte a quei quesiti vanno trovate nella fede in noi stessi e, a seguire, nel prossimo. Dobbiamo scegliere se ritenerci "così speciali" e quindi irraggiungibili, oppure cercare di cadere dalla nostra nuvola "paradisiaca" per raggiungere una terra solida e concreta da calpestare. Allora e solo allora potremo veramente distinguerci gli uni dagli altri, seguendo un cammino fatto di bivi, diramazioni e scelte.
O forse mi sbaglio e sono caduto anch'io nel becero moralismo.

   
 
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