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Autore: Bluelectra    10/11/2017    2 recensioni
One shot legata a "Una Stella Danzante". Un piccolo affresco della vita di Ophelia Zabini, la madre di Elena.
"E poi il giorno del suo compleanno le aveva mandato un mazzo di gigli bianchi direttamente in camera, per non causarle imbarazzo in Sala Grande.
Ophelia non aveva mai capito come avesse fatto ad indovinare che amava i colori solo per dipingere. Per il resto il suo mondo era bianco, i suoi vestiti, i suoi pochi ed essenziali oggetti, le piume con cui scriveva, la carta dei suoi libri, le tele dei suoi quadri. Il bianco le dava pace in un mondo caotico, che non comprendeva quasi mai.
E così periodicamente Alain le inviava quei fasci opulenti di fiori, tutti diversi gli uni dagli altri, anche a seconda delle stagioni. Vi riconosceva lo stelo di una rosa accanto a una calla, un rametto di mughetto intrecciato ad una margherita, un narciso solitario."
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Fiori bianchi Image and video hosting by TinyPic

 

Fiori bianchi

I

Sull'onda calma e nera dove le stelle dormono
Fluttua la bianca Ofelia come un gran giglio, fluttua
Lentissima, distesa sopra i suoi lunghi veli...
- S'odono da lontano, nei boschi, hallalì.

Da mille anni e più la dolorosa Ofelia
Passa, fantasma bianco, sul lungo fiume nero;
Da mille anni e più la sua dolce follia
Mormora una romanza al vento della sera.

La brezza le bacia il seno e distende a corolla
Gli ampi veli, dolcemente cullati dalle acque;
Le piange sull'omero il brivido dei salici,
S'inclinano sulla fronte sognante le giuncaie.

Sgualcite, le ninfee le sospirano intorno;
Ella ridesta a volte, nell'ontano che dorme,
Un nido, da cui sfrùscia un batter d'ali:
- Un canto misterioso scende dagli astri d'oro.

II

Pallida Ofelia! Come neve bella!
In verde età moristi, trascinata da un fiume!
- Calati dai grandi monti di Norvegia, i venti
Ti avevano parlato di un'aspra libertà;

Poi che un soffio, attorcendoti la chioma folta,
All'animo sognante recava strane voci;
E il tuo cuore ascoltava la Natura cantare
Nei sospiri della notte, nei lamenti dell'albero;

Poi che il grido dei mari dementi, immenso rantolo,
Frantumava il tuo seno, fanciulla, umano troppo, e dolce;
Poi che un mattino d'aprile, un bel cavaliere pallido
Sedette, taciturno e folle, ai tuoi ginocchi!

Cielo! Libertà! Amore! Sogno, povera Folle!
Là ti scioglievi come neve al fuoco:
Le tue grandi visioni ti facevano muta
- E il tremendo Infinito atterrì il tuo sguardo azzurro!

III

- E il Poeta racconta che al raggio delle stelle
Vieni, la notte, a prendere i fiori che cogliesti,
E che ha visto sull'acqua, stesa nei lunghi veli,
Fluttuare bianca come un gran giglio Ofelia.

Arthur Rimbaud, Ofelia

 

A

veva conosciuto Alain l’estate precedente al suo diploma ad Hogwarts.

L’aveva visto nella grande sala della villa in cui era cresciuta, che aveva sempre faticato a chiamare casa, bello come un principe di antiche fiabe arabe. Lo aveva spiato dalla colonna di pietra dell’ingresso principale.

Capelli scuri come la notte, alto, con occhi penetranti e attenti, calamitava gli sguardi con una forza irresistibile, e ne sembrava perfettamente conscio.

Alain Zabini, recentemente diventato Lord a causa della morte del padre, era fratello maggiore di uno dei ragazzi di Serpeverde che lei conosceva di sfuggita. In realtà Ophelia conosceva chiunque di sfuggita.

Le persone non la interessavano. Non riusciva a capirle, preferiva i pennelli e i libri.

“Che fai lì impalata? Avanti entra e saluta i nostri ospiti! E, per Salazard, non dire cose sconvenienti. Sono quasi tutti convinti che tu sia tocca, non levargli ogni dubbio.” Le parole di sua madre le trafiggevano sempre il cuore come una manciata di spilli, ma nulla era peggio delle occhiate sconsolate con cui la analizzava.

“Sì, madre.” Aveva mormorato Ophelia chinando il capo.

L’abito che aveva scelto per lei era dello stesso verde cupo dei suoi occhi, il cui scollo pudico metteva in mostra le clavicole sporgenti del suo fisico così deprecabilmente magro. Non le piaceva quel vestito, era troppo scuro sulla sua pelle pallida, troppo pesante.

Sua madre avrebbe voluto una figlia solare e avvenente come lo era stata lei in gioventù, la gioia della casa da esibire a quelle feste come un animale esotico. Una creatura da esposizione.

Invece era nata ombrosa e taciturna e a un certo punto dell’infanzia i suoi genitori si erano arresi all’evidenza dei fatti. Il malcontento di sua madre, per quanto doloroso, era per lo meno indice di essere sulla buona strada per rimanere sé stessa.

Era entrata al seguito di Lady Margareth nel grande salone addobbato con i colori della famiglia Rosier, blu e bianco, di cui lei era l’ultima discendente. Gli invitati erano tutti Purosangue, amici di famiglia da generazioni, una casta più o meno impenetrabile, in fermento dall’inizio di quell’estate perché il Signore Oscuro aveva dichiarato pubblicamente il proprio ritorno con una battaglia al Ministero della Magia.

Ophelia trovava tutto nauseante, dal doversi lasciare toccare la mano dagli estranei per il consueto saluto, al manifestare interesse per ciò di cui parlavano con sua madre e suo padre. E per non mettersi a strillare in mezzo a quella festa così bene educata, si era sforzata di focalizzare la sua mente sulle cose che più amava. I pomeriggi estivi in giardino a dipingere, le sere tiepide con un libro sulle ginocchia e il gracidare delle rane nelle orecchie, la voliera enorme in cui curava e ospitava gli uccellini trovati feriti o regalati da suo padre.

Aveva compiuto i propri doveri di ospite in un’apnea emotiva e si era rifugiata davanti all’arazzo medievale che svettava sul fondo della sala, per quel breve intervallo in cui sua madre l’avesse lasciata in pace. Era rimasta in un angolo defilato, ad occhi chiusi, respirando a fondo.

Mancavano poche ore alla fine di tutto, poteva farcela. Poteva farcela…

“Avete salutato tutti tranne me.”

Si era voltata sorpresa e aveva trovato un paio di occhi azzurri che la guardavano incuriositi.

“Stavate parlando con mio padre, non volevo disturbare.” Si era giustificata con un filo di voce senza distogliere gli occhi da quelli di Alain Zabini.

“Oh capisco. Beh, allora permettete?” aveva chiesto con un sorriso chinandosi verso di lei e tendendole la mano.

La sua, piccola come quella di una bambina, era scivolata quasi senza peso nel palmo dell’uomo, che aveva baciato l’aria sovrastante alle sue dita e l’aveva lasciata andare con garbo. Le era piaciuto sinceramente il suo modo di fare, privo di secondi fini e di artifici, di ciò che Ophelia trovava incomprensibile e deviante negli altri esseri umani.

Lo aveva fissato come se fosse stato uno dei suoi soggetti per gli studi di prospettiva.

Che fosse bello non c’erano dubbi. Un fisico prestante, un volto dalle proporzioni canoniche come una statua greca, mani curate e forti, un incarnato quasi bronzeo. Tuttavia Lord Zabini emanava anche il sicuro fascino dell’uomo consapevole, perfettamente a proprio agio col suo corpo da poterlo dominare senza difficoltà. Aveva osservato la pelle attorno alle palpebre e aveva intuito che dovesse essere più grande di lei di parecchi anni.

L’uomo aveva spostato il peso da un piede all’altro e l’aveva guardata cercando di dissimulare il proprio disagio.

“Oh perdonatemi. Vi ho messo in imbarazzo! È una cosa che faccio sempre, mia madre detesta quando fisso le persone. Vi chiedo scusa.” Aveva distolto lo sguardo sentendo nitidamente un fiotto di calore salirle alle guance.

“Non preoccupatevi, non intendevo interrompere la vostra… ehm… valutazione. Sembravate piuttosto assorta.”

“Vi chiedo nuovamente scusa.”

“Non c’è nulla di cui scusarsi. Siete un’attenta osservatrice, Ophelia.”

La giovane aveva sollevato il capo sorpresa. Generalmente nessuno faceva caso a lei, né tanto meno si prendeva la briga di ricordarsi del suo nome o di qualsiasi altra cosa la riguardasse. Il suo passo nella vita era tanto lieve da sembrare quello di un fantasma. Non amava calpestare e fare rumore.

Alain aveva corrugato visibilmente la fronte e un’espressione gli aveva incupito gli occhi chiari.

“Pensavate che mi presentassi a casa dei miei ospiti senza sapere chi fossero?” era offeso, anche se non lo aveva lasciato trasparire dalle sue parole. Erano i suoi occhi a parlarle molto più sinceramente della sua voce e Ophelia sapeva ascoltare.

“No, ma di solito le persone si dimenticano di me.” Aveva risposto lei con semplicità, intrecciando le dita alla base della schiena.

“E perché mai?” ora sembrava quasi indignato. La giovane aveva sollevato le spalle e sporto inconsapevolmente il labbro inferiore.

“Suppongo perché io sia la prima a dimenticarmi di loro.”

Fu la prima volta che udì la sua risata. Era forte e faceva venire voglia di ridere a propria volta, la risata di qualcuno che non aveva alcun desiderio di nascondere la propria felicità. Ophelia si guardò attorno, sorridendo di piacere per aver suscitato la sua ilarità, e notò che un paio di persone li stavano osservando.

“Dopo stasera sarete eletto come Lord più coraggioso della nazione per aver parlato con me.”

“Ma davvero? E a che cosa si deve un tale atto di coraggio?”

“Qui tutti pensano che io sia pazza. Non me la sento di persuaderli del contrario.”

Alain Zabini aveva riso un’altra volta ed era rimasto con lei per tutto il ricevimento.

Aveva operato l’incredibile magia di farle sentire di avere un posto nel mondo.

***

La cosa dei fiori bianchi era iniziata dopo il suo ritorno ad Hogwarts.

Alain alla fine dell’estate aveva chiesto il permesso ai suoi genitori di scriverle e sua madre era rimasta tanto attonita che Ophelia l’aveva dovuta far sedere. Nemmeno nelle sue più rosee speranze Lady Margareth aveva mai immaginato che un partito del calibro di Zabini potesse interessarsi a sua figlia. Ophelia aveva dedotto invece che fosse successo proprio perché lei non si era interessata a lui in prima istanza, come del resto non si interessava a nessuno.

Tuttavia ricordò negli anni a seguire come i momenti più belli del suo ultimo anno a scuola fossero stati quelli in cui riceveva una lettera da lui. Il loro scambio era quasi quotidiano, sincero e privo delle formalità a cui si erano attenuti nel loro primo incontro.

Alain viaggiava molto, le mandava cartoline, le descriveva paesaggi che poi lei riusciva a riprodurre sulle tele, come sei i suoi occhi fossero stati nei luoghi dove Alain la trasportava.

E poi il giorno del suo compleanno le aveva mandato un mazzo di gigli bianchi direttamente in camera, per non causarle imbarazzo in Sala Grande.

Ophelia non aveva mai capito come avesse fatto ad indovinare che amava i colori solo per dipingere. Per il resto il suo mondo era bianco, i suoi vestiti, i suoi pochi ed essenziali oggetti, le piume con cui scriveva, la carta dei suoi libri, le tele dei suoi quadri. Il bianco le dava pace in un mondo caotico, che non comprendeva quasi mai.

E così periodicamente Alain le inviava quei fasci opulenti di fiori, tutti diversi gli uni dagli altri, anche a seconda delle stagioni. Vi riconosceva lo stelo di una rosa accanto a una calla, un rametto di mughetto intrecciato ad una margherita, un narciso solitario.

Quando a Natale non si erano potuti rivedere a causa dell’ennesimo viaggio di lavoro, Ophelia aveva trovato la propria stanza invasa da un mare bianco e fragrante. Era caduta in ginocchio davanti a quella bellezza così sfrontata che si apriva davanti a lei e le chiedeva solo di essere ammirata.

Alain, i fiori bianchi, la neve fuori dalla finestra e il suo cuore che per la prima volta da quando aveva memoria batteva come un tamburo da guerra.

Si era innamorata.

***

Il loro fidanzamento era passato in sordina di fronte agli avvenimenti che avevano travolto il Mondo Magico nell’estate del ‘97. Alain, dopo un anno di relazione ufficiale, aveva insistito coi suoi genitori per sposarsi il prima possibile.

Affermava di non avere alcuna intenzione di restare in Inghilterra alla luce di ciò che stava accadendo. Eppure Ophelia sospettava che la ragione di tanta premura fosse lei; che, come suo padre, Alain pensasse che non fosse in grado di sopravvivere alla guerra che si profilava all’orizzonte.

La conferma le era stata data una sera di agosto, quando aveva origliato casualmente una breve conversazione tra suo padre e Alain, intenti a sfidarsi a scacchi magici sulla veranda.

“Desidero parlarti di una cosa, Alain.” Aveva iniziato suo padre con la voce fumosa e roca che contraddistingueva.

“Certo.”

“Riguarda Ophelia. So che non sei così ansioso di andartene dall’Inghilterra solo per i rischi diretti a cui questo nuovo… governo potrebbe esporti. Sono lieto che tu conosca tanto mia figlia da sapere che se restasse verrebbe letteralmente distrutta da ciò che accadrà. Perché entrambi sappiamo che cosa accadrà. Verranno uccise molte persone, verranno torturate in modo orribile, il panico invaderà le case. Saranno giorni di terrore, di lutto e Ophelia non riuscirebbe a sopportarli. Tuttavia… Tuttavia voglio che tu sappia veramente chi stai sposando, prima di portarla via da questo luogo, in cui per quanto si senta inadeguata è al sicuro.”

“Io conosco Ophelia. So perfettamente chi sto per sposare e di sicuro non permetterò che le venga fatto del male.” Il tono di Alain non era risentito, ma sicuro di sé e vibrante.

“Questo lo so, non avrei acconsentito altrimenti al vostro matrimonio. Il punto, Alain, è che dovrai proteggerla da sé stessa oltre che da resto del mondo. Ophelia, come dire… si porta addosso strane ombre. Come se da un secondo all’altro il lume della ragione in lei si spegnesse e prendessero vita pensieri… diciamo…”

“Autodistruttivi.”

“Precisamente. So che siete giovani e innamorati, ma dovrai proteggerla da sé stessa in quei momenti. Mi devi promettere che te ne prenderai cura.”

“Non c’è bisogno che glielo prometta. Lo sapevo. L’ho sempre saputo, non per questo potrei amarla di meno.”

Ophelia se n’era andata pervasa da un senso di disagio prepotente, confusa dalle parole di suo padre e del suo fidanzato, consapevole che chi le era vicino fosse in grado di leggere dentro di lei con tanta facilità.

Aveva guardato con disinteresse ai preparativi del matrimonio, lasciando a sua madre il piacere di fare tutto secondo i propri gusti. Solo su una cosa si era imposta con caparbia testardaggine: i fiori e il suo abito dovevano essere bianchi. Candidi.

In un giorno di settembre, quando il Mondo Magico già iniziava a sanguinare per il regno del terrore del Signore Oscuro, Ophelia Rosier era diventata Lady Zabini con una cerimonia raccolta e discreta.

Come spesso le accadeva in situazioni di confusione o tensione aveva vissuto tutta la giornata praticamente estraniata dal mondo reale, chiusa nella propria bolla.
Di quel giorno ricordava principalmente due cose: il sorriso incontenibile di Alain e il fatto che si fosse rovesciata lo champagne sulla gonna dopo il brindisi, guadagnandosi un bacio ridente dal suo nuovo marito.

Erano partiti la mattina seguente per la loro luna di miele, a cui Alain non aveva dato una data di ritorno. Sarebbero stati lontani finché il loro mondo non fosse tornato sicuro.

Ophelia non aveva sofferto nel salutare i suoi genitori. Sarebbero stati protetti defilandosi anche loro sulle coste del Galles, nonostante fossero Purosangue, per evitare ogni possibile coinvolgimento. Sarebbero stati bene, soprattutto perché non avrebbero più dovuto badare a lei.

***

Non aveva mai capito come fosse nata la sua malattia, solo che un giorno vi si era ritrovata talmente immersa da non riuscire più a mangiare, a dipingere, a leggere, a respirare.

Per tutta la sua vita, prima dell’arrivo di Alain, era stata in equilibrio con il mondo che la circondava principalmente ignorandolo e lasciandosi ignorare. Da quando si era aperta a lui per lasciarlo entrare anche tutto il resto era riuscito a penetrare le sue fragili barriere.

Forse era sempre stata dentro di lei, scritta nei percorsi delle sue vene come un destino già tracciato, sopita e pronta ad aggredirla.

Forse era incominciata quando avevano girato l’Europa e tutti quei luoghi nuovi, quei profumi nuovi, quei colori nuovi la spossavano per giorni e appena vi si abituava, dovevano ripartire.

Forse quando erano tornati in Inghilterra e avevano trovato la loro patria devastata, famiglie massacrate, giovani che avevano frequentato la scuola con lei morti, bambini orfani, l’odio serpeggiante tra i vinti e i vincitori che non era stato estinto dalla pace. E Ophelia purtroppo non amava stare a contatto con gli altri perché sentiva i loro sentimenti come se fossero stati propri, li riconosceva con un istinto infallibile e se ne lasciava travolgere, incapace di difendersi.

O forse quando dopo anni di tentativi non era riuscita a dare alla luce nessun figlio.

Aveva sentito nuovamente il peso dello sguardo di sua madre, come quando indossava goffamente gli abiti scuri da cerimonia o quando diceva quello che pensava, causando incidenti diplomatici per la sua sincerità. Sentiva la disapprovazione nelle parole gentili con cui la rassicurava che la prossima volta sarebbe andata bene.

Il suo grembo rimaneva arido, incapace di generare quel figlio che voleva disperatamente dare ad Alain. E quando lui l’aveva trovata a singhiozzare su una copertina fatta a mano, preparata all’inizio del loro matrimonio quando pensava di essere incinta, le aveva alzato il volto con decisione piantandole in viso i suoi occhi azzurri.

“Ho sposato te, Ophelia. Ho sposato te, non una donna qualunque che mi sfornasse degli eredi. Non mi importa di avere dei figli, io amo te, io voglio te!”

“Scusami.”

“Non c’è nulla di cui scusarsi.” Le aveva detto baciando le sue lacrime e abbracciandola.

Lui l’amava, sentiva la verità di quelle parole come se fosse stata un balsamo su un’ustione dolente. Lui era l’unico che le facesse sentire di avere un posto nel mondo.

Tuttavia il dolore, che aveva gettato radici dentro di lei, era tenace come solo l’erba cattiva sa essere. E quel dolore aveva cominciato a divorare tutto il resto.

Aveva cessato di curare il giardino progettato da lei stessa perché fornisse tutto l’anno fiori con cui decorare la casa, dipingeva poco e svogliatamente, le parole di Alain avevano iniziato a scivolarle addosso mentre la sua testa si riempiva di immagini laceranti.

Il suo Alain con in braccio un bambino coi suoi stessi occhi azzurri, Alain con un’altra moglie felice e attorniato da numerosi figli, lei sola nella loro casa ormai abbandonata…

Quando Alain partiva per i brevi viaggi di lavoro, ogni fibra della sua carne le urlava che la stava lasciando. Lo salutava con la morte nel cuore, consapevole che avesse il diritto di trovare la felicità oltre quel matrimonio, che non sapeva portargli altro che disperazione e preoccupazione.

Lei non gli aveva dato altro che disperazione e preoccupazione.

Ma Alain tornava sempre, costante come la marea, pieno di premure e racconti nuovi. Facevano l’amore spensierati ed euforici per essersi ritrovati, intrecciati l’uno all’altra, consapevoli della grazia ricevuta per aver incontrato il proprio incastro perfetto nel mondo.

Quella bolla fragile di spensieratezza durava qualche giorno, per essere spazzata via dalla tenebra che ghermiva la mente di Ophelia senza lasciarle tregua.

E ricominciavano i suoi silenzi, il suo vagare senza una meta per le stanze vuote della casa, il suo non sapersi dare pace per non essere stata in grado di diventare madre, tutto sotto lo sguardo impotente di Alain, che provava inutilmente a tirarla fuori dalla sua apatia.

Poi quando ogni speranza l’aveva abbandonata, accadde. Dopo quasi dieci anni di matrimonio Ophelia rimase incinta.

Il giorno più felice della sua vita fu quello in cui lei e Alain diventarono genitori. Pensò che non sarebbero mai più tornati i giorni orribili in cui ogni cosa le sembrava morire tra le dita. Pensò che sarebbero invecchiati insieme e sarebbero stati finalmente sereni.

***

Elena era nata minuta e vispa e così era rimasta nonostante la crescita.

Non aveva ereditato gli occhi del padre, bensì i suoi. Le somigliava in modo sconcertante, tuttavia l’eredità si estingueva nei tratti somatici e di questo Ophelia ringraziava Dio ogni giorno.

Elena era una bambina ridanciana, piena di fantasia e di curiosità, cinguettante come un uccellino, era il sole che aveva invaso la sua vita e che aveva tenuto lontano le tenebre del passato. Aveva scelto lei stessa quel nome, tanto assonante a quello del padre, desiderava che chiamandola una parte di lui venisse evocata in segreto, come un silenzioso incantesimo di cui solo Ophelia conosceva le origini.

Tutto in Elena era minuto, dalle sue manine sempre macchiate di colore, alle sue orecchie tanto sottili da sembrare di carta velina. Prenderla tra le proprie braccia era semplice come sollevare un pulcino ed Elena si abbandonava al suo tocco con docilità del tutto inusuale per il suo spirito, facendo sbocciare in lei ogni volta la commozione più pura per la fiducia cieca che riponeva nella propria mamma. Era l’unica creatura al mondo ad aver bisogno di lei, a fidarsi di lei.

Le aveva insegnato a disegnare e a scrivere, d’estate andavano a nuotare nel laghetto coi cigni che piacevano tanto a sua figlia e ogni giorno scopriva cose di lei sempre più straordinarie. Il suo modo scomposto di dormire, le sue smorfie di gelosia quando Alain baciava prima la mamma che lei, il suo entusiasmo genuino per tutto…

Era incontenibile. Era la sua gioia.

Alain, avendo un carattere decisamente più riservato e pacato, provava a correggere quello della figlia così estroverso, sostenendo che dovesse imparare a controllarsi. Ophelia invece, memore della propria infanzia, sosteneva che Elena dovesse essere libera.

Libera di essere rumorosa ed esagerata, perché il suono caotico di giochi e di risate che portava con sé dovunque andasse, colmava tutti i vuoti della sua anima.

Non tutti i giorni erano così luminosi e sereni come quelli in cui stava bene.

Ogni tanto, momenti tanto radi da passare inosservati a cui poi seguivano mesi interi di felicità, quando Alain stava lontano per alcuni giorni; quando i temporali così frequenti la relegavano in casa senza lasciarle la possibilità di camminare in giardino, facendola sentire in gabbia; quando si rendeva conto che Elena era cresciuta ancora e si stava allontanando sempre più dal cerchio protettivo delle sue braccia per esplorare il mondo; ogni tanto, tutto attorno a lei diventava buio.

Si lasciava vincere da quel senso di impotenza che già aveva conosciuto in passato. Chiudeva le tende e si abbandonava all’inerzia, rimanendo per ore, a volte giorni, nel letto, incurante delle richieste di sua figlia o delle preghiere della governante. Ingurgitava il poco che la sua gola serrata dalla disperazione le concedeva e continuava a dormire o a osservare l’oscurità finché la forza di quegli attacchi non si esauriva. Poi una mattina si alzava e si sentiva nuovamente viva, in grado di crescere e amare sua figlia, di poter affrontare quel mostro vile che abitava dentro di lei e le rubava le energie.

Una volta aveva a tal punto perso il conto del tempo passato a languire tra le lenzuola che aveva dimenticato il ritorno di Alain. Così lui l’aveva vista abbandonata come un oggetto rotto e malfunzionante, con gli occhi arrossati da giorni interi di pianto, la sottoveste impregnata degli umori della sua angoscia e del sudore del sonno. Non l’aveva guardata con quel misto di disgusto e imbarazzo che sicuramente sua madre o chiunque altro le avrebbe riservato, no. Alain l’aveva guardata come si osserva un raggio di sole dopo una tempesta.

Si era sdraiato sul letto dietro di lei e l’aveva tenuta stretta mentre lacrime disperate solcavano il suo viso. Poi l’aveva portata in braccio nel loro bagno, aveva riempito la vasca con acqua calda e sali profumati e l’aveva spogliata con delicatezza, raccontandole di tutto ciò che aveva visto nel suo viaggio. L’aveva deposta con cura nell’acqua e le aveva lavato i capelli riportandoli al loro colore castano dorato, portando via le ombre scure di sporcizia.

Alain aveva lavato via le colpe che le gravavano sul cuore.

“Scusami.” Aveva sussurrato mordendosi le labbra per la vergogna di essersi ridotta così.

Lui le aveva voltato il viso e aveva pronunciato con fermezza:

“Non c’è nulla di cui scusarsi.”

La sua vita riprendeva e impiegava più giorni a ristabilirsi, ma quando ci riusciva provava nuovamente la voglia di piangere, questa volta per la felicità.

Amava con tutto il proprio cuore la sua famiglia, e loro l’amavano, nonostante tutto, nonostante come si comportava. Si sentiva amata dalle mani macchiate di tempera di sua figlia, dagli occhi chiari e penetranti di suo marito, e quell’amore la riportava alla vita.

E quando si rialzava, qualcuno le faceva trovare la casa pervasa da vasi ricolmi di gigli bianchi, di frangipane, di fresie candide, di gardenie... Il bianco cancellava tutto il resto.

*** 

La prima volta che aveva accarezzato il pensiero della morte Elena aveva nove anni.

All’improvviso si era resa conto di quanto sua figlia fosse cresciuta, come se si fosse svegliata di soprassalto nella realtà, dopo aver passato tanto tempo a vederla ancora come la trottola di cinque anni che correva da una stanza all’altra della casa ridendo.

Era successo d’estate, in riva al laghetto a cui andavano a nuotare insieme. Sua figlia aveva tolto con una mossa impaziente il prendisole ed era rimasta in costume da bagno mentre la sua pelle chiara veniva baciata dal sole. Ophelia aveva notato come le sue membra si fossero allungate, come nonostante la statura minuta stesse diventando sempre più grande, come la bimba che conservava nei suoi ricordi più belli fosse quasi una ragazza.

Mentre Elena prendeva la rincorsa e si tuffava a bomba sulla superficie calma del lago, Ophelia si era sentita venire meno il respiro.

Sua figlia presto non avrebbe più avuto bisogno di lei.

I tempi di Hogwarts si avvicinavano.

Gliel’avrebbero portata via.

“Avanti mamma! Tuffati anche tu!” le aveva urlato riemergendo con i capelli appiccicati alla faccia e un sorriso immenso sulle labbra.

Ophelia si era alzata lentamente, aveva camminato lungo il pontile con i piedi scalzi e la lunga veste bianca ancora indosso. Aveva raggiunto il bordo estremo della passerella di legno e lì si era fermata, osservando affascinata come l’acqua sembrasse profonda, una promessa di oblio. Elena la guardava divertita e un po’ perplessa. Il cotone candido attorno alle sue caviglie si era gonfiato nel vento estivo prima che lei si buttasse.

Le faceva così male respirare che non voleva più farlo.

L’acqua l’aveva abbracciata con una carezza fresca, appesantendo il tessuto dei suoi abiti e trascinandola verso il fondale.

Aveva svuotato i polmoni, facendo fuoriuscire tutto il respiro con calma, sentendo per la prima volta dopo tanto tempo che il suo corpo era tornato leggero, fluttuante nel silenzio dolcissimo del fondo del lago, isolato da tutto il resto come quando era giovane.

La sua mente era bianca, pulita, immacolata.

Non aveva resistito alla tentazione di godere di quella sensazione più a lungo di quanto non fosse stato normale.

Quando il bisogno di respirare aveva bruciato i suoi organi e l’istinto di sopravvivenza si era fatto forte come un bussare frenetico, i suoi pensieri si erano snebbiati. Aveva cercato di respirare ma nella sua bocca era entrato un fiotto di acqua che le aveva corroso la trachea.

Sarebbe morta se sua figlia, con la forza della disperazione, non l’avesse tirata in superficie.

Si era trascinata a riva con l’aiuto di Elena e aveva tossito evacuando l’acqua, carponi sulla sabbia, in preda ai conati dolorosi che le sconquassavano il corpo magro.

“Chiama tuo papà.” Aveva mormorato senza avere il coraggio di guardarla negli occhi. Elena era scatta come una molla e aveva iniziato a correre a perdifiato.

Ophelia si era lasciata cadere contro la sabbia morbida, sentendo un gelo innaturale penetrarle le ossa nella calura estiva. Le lacrime le avevano appannato la vista e aveva pianto pensando a quello che aveva fatto davanti agli occhi innocenti di sua figlia.

***

“Ophelia, che cosa hai fatto?”

Le mani grandi di Alan sulle braccia la scuotevano.

“Mi dispiace… Oddio… Elena… dov’è la mia bambina?”

“Ophelia! Che cosa è successo?”

La rabbia e l’angoscia macchiavano la voce di suo marito tanto quanto la disperazione spezzava il suo respiro e i suoi pensieri.

“Non lo so… Non… Ero sott’acqua, ero leggera e… mi sono dimenticata di respirare! Dov’è Elena?”

“Elena è in casa, sta bene.”

Altre lacrime le prosciugavano gli occhi, singhiozzi violenti le stringevano il petto.

“Non ce la faccio più così… Non ce la faccio più.”

“Non piangere, amore mio. Sono qui, sono qui con te.”

Il corpo di Alain che la proteggeva dal gelo sottopelle e la consolava, le concedeva un perdono per quel gesto folle, che sapeva di non meritare.

“Ma io ci sono sempre meno! Non capisci che cosa mi sta succedendo?! Ho bisogno di aiuto. Ti prego…”

“Non ti chiuderò in una di quelle cliniche! Non permetterò a nessuno di trattarti come una pazza!”

“Peggiorerà, Alain. Ed Elena… Elena mi vedrà in queste condizioni…”

“Non piangere, Ophelia. Troveremo un modo. Ora lascia che ti riporti a casa.”

“Sei tu la mia casa, l’unica che abbia mai avuto.”

***

Aveva salutato sua figlia davanti al treno per Hogwarts vedendo la sua espressione determinata a non piangere. I capelli scuri e fini erano intrappolati in una coda disordinata, le labbra strette in una linea dura per ridurre il tremito, gli occhi scintillanti.

“Comportati bene. Non farti riconoscere appena arrivata. Cerca di non litigare coi tuoi amici.” Le aveva raccomandato Alain col tono serio che pensava di dover usare per essere autorevole.

“Non sono amici MIEI! Sono i figli dei TUOI amici e mi stanno tutti antipatici.” Il tono di Elena si era fatto polemico e le sue braccia si erano serrate sul petto magro. Era forte e determinata come lei non lo era mai stata, la rendeva orgogliosa, tanto che Ophelia aveva chinato il capo per non farsi vedere a sorridere.

“Elena! Perché non riesci ad essere educata con loro?”

“Forse perché quei ragazzini non sono educati con lei.” Era intervenuta chinandosi per essere alla stessa altezza dello sguardo di sua figlia. “Troverai degli amici tesoro, non aver paura. Sii te stessa, non lasciare che gli altri ti facciano sentire sbagliata. Non lo sei, nessuno lo è.”

“Non intendevo certo dire questo…” aveva borbottato Alain osservando crucciato Elena.

Ophelia sapeva che Alain risultava severo, quasi freddo, nel tentativo di rendere Elena in grado di affrontare le difficoltà della vita. Cercava solo di essere un buon genitore, senza capire che spesso l’allontanava.

Elena si era morsa le labbra e si era fiondata contro di lei abbracciandola con tutta la forza che il suo corpo esile le consentiva.

“Tu starai bene, mamma?” le aveva sussurrato contro la stoffa dei suoi abiti.

Ophelia aveva sentito il cuore stringersi, come se una corona di spine le si fosse avvolta attorno. In quale mondo una figlia di undici anni si preoccupava più per la madre che per sé?!

“Sì. Starò bene.” Aveva mentito, sorridendole con una serenità che non provava.

L’avevano osservata salire sull’Espresso per Hogwarts e poi quando il treno era sparito dietro la curva Alain l’aveva presa per mano.

“Sei bellissima con questa veste bianca.” Le aveva sussurrato accarezzandole il viso.

“Perché ti risulta che abbia vesti di altri colori?” aveva riso lei nonostante la tristezza di veder partire la sua bambina.

“In effetti no. Però manca ancora qualcosa…” aveva mormorato estraendo la bacchetta.

Nel palmo di suo marito era comparso subito dopo un giglio. Alain con delicatezza lo aveva appuntato tra i suoi capelli, dietro l’orecchio. Le sue labbra si erano tese in un sorriso incantato.

Ophelia si era specchiata nei suoi occhi e si era vista attraverso l’azzurro, come la donna che avrebbe voluto essere tutti i giorni. Quella persona che troppo spesso invece soccombeva.

La casa sarebbe stata vuota senza Elena, i giorni sarebbero stati tristi e lenti, ma aveva ancora Alain.

***

“E lì voglio piantare altre margherite…”

“Ophelia, ci sono già due aiuole piene di margherite!”

“Sei per caso tu a doverle concimare?”

All’espressione ripugnata di Alain, Ophelia era scoppiata a ridere. Le loro mani erano intrecciate mentre passeggiavano sotto il sole tiepido di aprile. Lei gli stava mostrando tutte le modifiche che aveva intenzione di apportare con la bella stagione, lui ovviamente aveva da ridire, perché avrebbe preferito che le cose restassero com’erano.

“Pensavo che è da tanto che non invitiamo a cena i Malfoy, ti andrebbe se organizzassi qualcosa con Astoria?” gli aveva proposto mettendosi una mano davanti agli occhi per ripararli dal sole.

“Certo. Basta che non cucini un’altra volta quello sformato orribile alla barbabietola.”

“Non era orribile! E tu sei un villano.” Aveva ribattuto offesa.

Era stato il turno di Alain di ridere, mentre cercava di baciarla e lei si sottraeva mortalmente indignata. Alla fine gliel’aveva data vinta e si era lasciata baciare.

Il suo corpo stava riprendendo forza dopo l’inverno. Ophelia non ricordava di essere mai stata peggio.

Alain frustrato dalla sua condizione aveva acconsentito a che la vedesse un medimago, uno dei luminari del San Mungo con tanto di occhiali e barba canuta, ma questi non aveva trovato in lei altri sintomi preoccupanti se non la malnutrizione. Le aveva detto che doveva smettere di fare i capricci e che doveva ricominciare a mangiare e uscire di casa.

Ophelia ci aveva provato con tutta sé stessa e a piccoli passi era riemersa, insieme alla Primavera che ora si riversava nella natura attorno a loro e grazie alla prospettiva che Elena sarebbe tornata presto.

Le labbra di Alain sulle sue erano dolci e piene di sollievo. Aveva interrotto il bacio guardandolo con un broncio polemico.

“E voglio altri gigli.”

“Tutti quelli che desideri, mia sposa.”

***

I fogli delle lettere di Elena giacevano sulla scrivania. Era ripartita per il secondo anno.

Gli amici, che aveva conosciuto l’anno precedente, colmavano le sue giornate e rendevano la sua vita un’avventura continua. La gioia datale dalla consapevolezza che sua figlia non sarebbe stata sola, come lei invece era stata per gran parte della sua esistenza, era solo un palliativo.

Le rose bianche, raccolte in un vaso di cristallo, stavano appassendo inesorabilmente, lo vedeva da come le corolle si piegavano a terra ingiallendo, dai gambi scuriti e dall’odore dolciastro, quasi nauseante.

Non riusciva ad alzarsi. Le sue gambe rimanevano raccolte contro il petto, chiuse dal calore artificiale dello scialle di lana con cui l’aveva coperta una delle cameriere. L’avevano posta come una bambola su una poltrona, davanti alla grande finestra che gettava a propria luce fredda nella stanza.

Tutto il giardino all’esterno viveva la stagione dell’ultimo autunno, quando l’umidità persistente gravava sulle foglie, staccandole e trascinandole a terra. L’aria era nebbiosa e tetra, i colori accesi delle chiome degli alberi erano svaniti, rimanevano solo gli scheletri contorti dei rami. Qualunque cosa su cui i suoi occhi si posavano le parlava di morte e di perdita.

Aveva sempre detestato quella parte dell’anno, in cui il sole si mostrava di rado e la neve tardava ad arrivare.

Alain non era più ripartito da quando Elena aveva iniziato Hogwarts, le era rimasto accanto, rendendole ancora più intollerabile guardarsi allo specchio.

Il senso di colpa per aver circoscritto la sua vita, un tempo brillante, piena di entusiasmo, a quella di un infermiere impotente davanti alle crisi di sua moglie, era lancinante, come un chiodo costantemente piantato nel cervello.

Una mano si era posa leggera sulla sua guancia, accarezzandola con tanta gentilezza da farle socchiudere gli occhi in preda alla commozione.

“Hai voglia di una tazza di tè?”

La voce di Alain era tranquilla, ma Ophelia aveva quasi la sensazione di poter sentire vibrare il suo corpo sotto i colpi dell’angoscia e del dolore. Quanto poteva essere immenso il suo dolore vedendola ridotta ad uno spaventapasseri bianco?!

“Come puoi sopportare di vivere con me?” gli aveva domandato voltandosi verso di lui, con il tono che riservava alle conversazioni più banali e quotidiane.

“Non vorrei nessun’altra vita che non veda te al mio fianco.” Le aveva risposto prendendole la mano con energia e mettendosela sul petto ampio e solido, contro cui lei si rifugiava da quasi vent’anni. Sotto le sue dita, attraverso il tessuto, sentiva i suoi battiti. “Tu sei l’amore della mia vita.”

Il volto maturo di suo marito era ancora incredibilmente affascinante, l’età aveva iniziato a screziare i suoi capelli con qualche filo grigio, ma tutto di lui rispendeva. Non aveva mai meritato lui, la loro famiglia, le vita che aveva ricevuto. Non era degna di nulla.

“Non puoi salvarmi, Alain. Dovresti andartene e portare con te Elena.”

“Non posso andare da nessuna parte senza il mio cuore. Dovresti trovare il modo di restituirmi ciò che mi hai rubato ventitré anni fa.” Le sue parole volevano essere scherzose ma gli occhi azzurri di Alain erano pervasi dalla disperazione.

La disperazione che nasceva dall’osservarla spegnersi giorno dopo giorno, nello stillicidio della vita che l’abbandonava ad ogni crisi e non tornava più. La disperazione con cui lei gli straziava il cuore.

Era scoppiata a piangere aggrappandosi al suo collo e nascondendo il viso nell’incavo della spalla. Alain l’aveva abbracciata e tenuta stretta finché le lacrime non erano finite.

***

Non l’avevano più lasciata sola. Ordini di Lord Zabini.

Dopo che l’avevano ripescata per miracolo una seconda volta dal lago c’era sempre almeno una persona o un elfo domestico ad osservare silenziosamente le mosse della pazza.

Perché così tutti quanti la chiamavano nel silenzio delle loro menti, negli sguardi impietositi che le rivolgevano, nelle parole scelte con meticolosa attenzione con cui le parlavano.

Nessuno sapeva che, quando aveva lasciato galleggiare il suo corpo nell’acqua gelida di febbraio, il peso che da anni le martoriava la carne si era sciolto.

Aveva trovato la pace nell’attimo prima che mani brusche e voci isteriche la riportassero indietro.

Si era svegliata a letto, avvolta da coperte morbide e pulite. Un mazzolino di bucaneve era stato posato sul suo comodino.

La luce delle candele aveva delineato nei suoi occhi la figura di Alain, seduto poco distante, che teneva la testa fra le mani e singhiozzava. Sarebbe stato un ritratto struggente e perfetto da fermare sulla carta, ma le sue dita non prendevano in mano una matita da troppo tempo per ricordare come si facesse.

Si era accorto che lei era sveglia e si era fiondato verso di lei, nascondendole il viso in grembo.

“Non farlo mai più! Non lasciarmi solo, ti prego… non lasciarmi!” l’aveva implorata.

“Scusami.”

“Non c’è nulla di cui scusarsi.”

***

L’estate passata con Elena era stata splendida. La più bella che da molti anni la sua malattia le avesse concesso, forse perché in primavera avevano pattuito, lei e il suo mostro di tenebra, che sarebbe stata l’ultima.

Quella decisione tanto lucida quanto folle era stata presa nella constatazione lineare, quasi ovvia, che non ci fosse altra via. Era l’unico modo che le fosse rimasto per smettere di soffrire, per tornare a respirare. E una volta scelto tutto dentro di lei si era disteso, come se un’onda chiara e fresca l’avesse travolta purificandola.

Ophelia aveva ricominciato a dipingere in compagnia della figlia. Avevano reciso, tra risate e racconti del suo secondo anno, un numero imprecisato di steli per formare grandi mazzi di fiori con cui avevano decorato ogni stanza della casa.

Aveva goduto di quasi ogni giorno, con brevi e quasi insignificanti ricadute, forse perché le sembrava che di fronte alla propria fine tutto assumesse un significato diverso.

Elena era cresciuta. Sarebbe sopravvissuta, lo sapeva per certo dal modo in cui le parlava di Martha, di Angelique, di Bertram, di Albus e persino di Scorpius. Avrebbe trovato il modo di andare avanti senza di lei, perché aveva dentro di sé la forza di vivere che a lei era sempre mancata.

Con Alain avevano vissuto un secondo innamoramento, riscoprendo la tenerezza e il bisogno fisico dell’altro che avevano caratterizzato i loro primi anni insieme.

Qualunque cosa fosse venuta dopo la morte lo avrebbe amato anche da lì.

Erano stati due mesi preziosi, in cui la leggerezza era tornata a gonfiare le tende della sala insieme alla brezza estiva, in cui aveva riscoperto la bellezza di una risata. Tutti attorno a lei avevano ricominciato a vivere, a sperare, Alain, Elena, la governante, persino gli elfi domestici le sembrava che non le riservassero più sguardi angosciati.

Avevano tirato un respiro di sollievo per quella ripresa completamente inattesa, pensavano che finalmente la sua malattia si fosse dissolta, che Lady Zabini fosse tornata in sé.

Nessuno aveva compreso che stava dicendo loro addio.

***

L’autunno era cominciato. I colori caldi avevano invaso il giardino di Ophelia, sostituendosi alla fioritura tanto amata dei boccioli nivei.

Troppo giallo, troppo marrone, troppo rosso.

Era tempo di lasciare quel corpo stanco, quella tenebra viscida che minacciava di macchiare ogni ricordo che custodiva gelosamente dentro di sé. Era stanca di soffrire.

Tutti si erano rilassati dopo quell’estate, non la sorvegliavano più ad ogni passo. Non si erano nemmeno accorti che aveva trovato la sua bacchetta dove gliel’avevano nascosta.

Aveva fatto colazione con Alain, guardandolo per tutto il tempo.

Bello, forte, generoso, acuto, tanto sensibile da accettarla e comprenderla, la sua casa, il suo posto nel mondo, l’amore di tutta la sua vita.

Lui aveva sollevato un sopracciglio, sorridendole sarcastico per quell’ispezione così spudorata.

Ophelia fissava le persone per studiare ciò che le loro parole non dicevano, per trovare la verità nei loro corpi. Gli aveva sorriso ricordando il loro primo incontro.

“Scusami.” Aveva mormorato chiedendogli di assolverla per l’ultima volta.

Il respiro di Alain si era fermato, i suoi occhi avevano perso tutta la luce allegra. L’ istinto gli aveva urlato parole che la sua ragione non avrebbe mai accettato.

“Non c’è nulla di cui scusarsi.”

L’aveva baciato un’ultima volta prima di uscire dalla stanza.

***

Aveva indossato la veste più semplice che possedesse. Bianca ovviamente.

L’acqua calda fumava dalla vasca salendo in volute verso il soffitto.

Le mani di Ophelia si erano chiuse sui gigli che aveva portato apposta in bagno. Aveva strappato i petali e li aveva lasciati galleggiare sull’acqua.

Li aveva metodicamente smembrati tutti, tranne uno. Quello aveva deciso di salvarlo.

Si era lasciata andare nella vasca, accoccolandosi nell’acqua, e aveva afferrato la propria bacchetta. Non c’era stata esitazione o paura nella precisione con cui aveva pronunciato l’incantesimo.

Il primo taglio era stato il più doloroso. Man mano che la carne dei suoi polsi si apriva, lacerando vene e arterie, la pena era scemata fino a sparire.

Tutto il dolore provato nella sua vita la stava finalmente lasciando, per non toccarla mai più. Fluiva lontano da lei insieme al suo sangue, scivolava via e le ferite che le avevano mutilato l’anima sparivano. Il suo corpo non aveva più peso e sentiva i brividi di freddo pervaderle le membra. Qualcosa dentro di lei si era sciolto e i suoi ultimi respiri, contanti come i petali galleggianti sull’acqua che si tingeva di scarlatto, erano i più liberatori che avesse mai preso.

La sua mano destra si era stretta attorno all’unico giglio superstite, mentre i suoi occhi calavano, spossati.

La sua mente era un manto innevato. Era tutto tranquillo.

Nel bianco le vennero a far visita tante immagini meravigliose: i ricordi di tutta una vita condivisa con suo marito e sua figlia, dell’amore con cui avevano tentato di salvarla, fino alla fine.

Il volto giovane di Alain, i capelli brizzolati dal tempo, gli occhi azzurri, il suo sorriso.

Le risate di Elena, le sue mani sempre macchiate dal colore, le sue espressioni buffe, il disordine della sua camera, i suoi grandi occhi verdi, la sua luce.

Elena bambina, illuminata dal sole e con i fiori bianchi del giardino tutt’attorno.

I suoi fiori bianchi che anche allora le facevano compagnia.

I fiori bianchi.

Era finalmente libera.

 

 

 

  
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