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Autore: Kesukyou    10/11/2017    0 recensioni
Un uomo si risveglia confuso in una casa che non conosce, con accanto un quaderno scritto in una lingua misteriosa: non riesce a ricordarlo, ma ha una missione da compiere. Per lui e la sua intera razza, ha bisogno dell'aiuto della mortale Francisca Louis Alvares.
Genere: Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si svegliò con la testa appesantita ed intontito, come da una sbornia durata secoli e conclusasi solo la sera prima. Nel naso l’acre e pungente odore di caffè, qualche istante prima di aprire gli occhi sentì lo scroscio familiare di una moka, che gli ricordò il suono che si sente una volta usciti dall’acqua vicino alle proprie orecchie, quel ridondante e sempre più lontano, ritmico e peculiare rumore. Come l’andirivieni delle onde del mare. Si trovava nei pochi attimi di oblio che seguono il risveglio, completamente ignaro di tutto.

Poggiava la testa su un tessuto morbido e caldo, le membra stanche non volevano destarsi da sotto le coperte. Non realizzò subito che fino al giorno prima neppure lo sapeva, cosa fosse una moka. Ma sentii ancora scroscii e rumori metallici, qualche stanza più in là, poi un rumore di passi. Non era solo.

Francisca sbirciò dall’uscio della porta, quindi entrò con cautela nella stanza. Era giovane, non molto alta, i capelli mossi le ricadevano a caschetto sul collo. La luce che entrava dall’unica finestra nella stanza le dipingeva ombre rotonde attorno agli occhi, dandole un’aria stanca. Poggiò sul comodino accanto al letto un vassoio: la colazione era di tre fette biscottate con marmellata di mirtilli, una tazzina di caffè e un bicchiere di latte, il tutto accompagnato da posate dozzinali e una zuccheriera. Si chinò a guardare negli occhi il suo ospite, e non seppe dire se vi lesse paura o sconcerto. Gli rivolse un sorriso imperscrutabile.

«Buongiorno. Avevo sentito dei rumori provenire da qui, e ti ho preparato qualcosa da mangiare. Come stai?»

L’uomo nel letto non rispose. Strinse con forza gli occhi un paio di volte, si portò una mano alla testa. Fu allora che l’uomo vide il tatuaggio sul suo polso: una croce greca inscritta in un triangolo equilatero.

Si alzò urlando, e si lanciò verso Francisca. Le strinse con forza la mano, terrorizzato. Francisca indietreggiò di scatto, e urtò contro il comodino, facendo precipitare la tazzina di caffè a terra.

La camera da letto aveva pochi mobili essenziali, e sembrava più spaziosa di quanto non fosse realmente. Un comodino, qualche mensola, una panca in cui riporre dei vestiti. Ma sul pavimento vi era un largo tappeto decorativo, con un disegno di foggia persiana, che ora era irrimediabilmente macchiato di marrone scuro. L’uomo parlò per la prima volta, mentre Francisca si tastava con una smorfia la mano dolorante.

«Cosa ci faccio qui? Non riesco a ricordare, è tutto così confuso. Però questo segno, la mia missione. Qual era la mia missione?», biascicò a Francisca, indicandosi il polso.

Francisca si ricompose. Raccolse da terra i frammenti di ceramica, e li ripose nel vassoio. Tornò di nuovo a sorridere all’uomo.

«Non preoccuparti, non ti farò del male. Sei arrivato qui ieri sera, hai detto che ti serviva il mio aiuto. Volevi un posto dove dormire. Avevi detto che forse sarebbe successo, che l’amnesia era l’effetto collaterale di un… qualcosa. Se cerchi la tua roba, l’ho messa nel cassetto del comodino. A saperlo che dicevi sul serio, avrei potuto prenderti qualcosa in più e neanche te ne saresti accorto», disse Francisca con tono sarcastico, o forse con un pizzico di delusione.

«E perché avrei dovuto chiedere il tuo aiuto? Anzi, perché mi hai aiutato? Tu...»

«Mi chiamo Francisca. E ti ho aiutato perché mi hai dato 200€. Tu come ti chiami?»

L’uomo si guardò attorno, e scoprì che c’erano dei volumetti poggiati su una mensola. Non ricordava chi fosse, ma ebbe il presentimento che non sarebbe stato saggio dire la verità. Lesse il titolo di uno di quei volumi, un vecchio fumetto italiano.

«Dylan. Io sono Dylan. Hai detto nel comodino, giusto?»

Dylan aprì il cassetto del mobile alla sua destra, e vi frugò dentro. Trovò un portafoglio, senza documenti al suo interno. Uno strano bracciale, che non sembrava valere molto. Un quadernetto rilegato in pelle, delle dimensioni di una mela. Francisca lo guardava, immobile.

«Ci ho dato un’occhiata, ieri sera. Non ho saputo resistere. Scusami, ma tanto non ci ho capito niente. È arabo, quello? Mio padre è stato in Iran, un po’ di tempo fa. Non sarai per caso un terrorista?», disse Francisca, e di nuovo Dylan non seppe capire se stesse o meno scherzando.

Dylan sfogliò le pagine ingiallite. Non riusciva a leggerle, ma i caratteri gli sembravano familiari. A un tratto scoprì un disegno in un angolo: lo stesso simbolo del suo tatuaggio. Sfiorò l’inchiostro con i polpastrelli: era caldo.

«Non è arabo. Non ne sono sicuro, ma credo...»

 

Successe in un istante. Dylan poggiò il suo polso sul simbolo nel quaderno, e il bracciale cominciò a scintillare. Era costituito di un sottile filo di rame, attorno al quale vi erano dieci cilindretti argentati. Questi ruotarono di scatto, uno alla volta, fino a rivolgere uno dei lati piatti alla luce: dopo pochi istanti, sulla loro superficie si proiettarono degli strani simboli.

«Vanno con dei pannelli solari, quelli?», chiese Francisca, ma Dylan non le rispose.

I simboli mutavano con grande rapidità, ma Dylan vi lesse uno schema: si alternavano ogni tredici variazioni, come in una sorta di strano alfabeto. A un tratto i cilindretti si assestarono, tutti meno che gli ultimi tre. I simboli divennero improvvisamente numeri arabi in scala decimale, e una voce elettronica venne dal bracciale:

“Coordinate spaziali ricevute. Galassia 32, Sistema 54672, Pianeta numero 3. Città di Ponta Delgada. Idioma nativo localizzato, aggiornamento. Coordinate mentali, aggiornamento; rilevato malfuzionamento da transizione, copia di backup in attesa di download”.

«È una roba da cosplay, questa? Dev’esserti costata parecchio», disse Francisca, un po’ spaventata.

«Francisca ti prego, esci fuori dalla stanza. Non so cosa potrebbe succedere»

«Stai scherzando, vero?»

«Ti prego. Non voglio farti del male, se non è necessario»

C’era qualcosa nel tono di voce di Dylan di abbastanza minaccioso da convincere Francisca ad andarsene di corsa via dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. L’ultima cosa che vide fu che Dylan stava per indossare il bracciale. Un’autoritarietà anziana, come quella di un padre: eppure Dylan sembrava essere sulla trentina, mingherlino e vestito in tuta sgargiante. Dall’uscio della porta, Francisca vedeva strane luci che lampeggiavano, e proiettavano i loro colori freddi sulle pareti del corridoio di fronte, altrimenti illuminato solo da una lampada a incandescenza, salva per miracolo dalle incurie e dal tempo. Dalla stanza cominciarono a venire delle urla strazianti, in lingue che non aveva mai sentito. Alcune sembravano il ringhio di una belva o dei suoni più simili a quelli degli elettrodomestici, che a una vera e propria voce. Francisca si chiese se ne valesse la pena, per 200€. Da un lato era spaventata, e avrebbe voluta fuggire, chiamare la polizia. Ma passava il tempo, le luci cambiavano di colore, e lei non si muoveva di un singolo passo. Qualunque cosa stesse succedendo, non era qualcosa di… umano. Cosa c’era dietro quella porta? L’avrebbe mai scoperto, se fosse scappata? Alle volte capitano delle situazioni che non puoi semplicemente evitare. Quando la curiosità vince su tutto, e comprendi che forse sei davanti a un vero punto di svolta, che tutto potrebbe cambiare: fuggire significherebbe essere soddisfatti della propria vita così com’è. Francisca si accovacciò davanti alla porta, fissandola con impazienza e timore. La sua era una vecchia casa, abbastanza spaziosa. La camera da letto era al primo piano, insieme a un bagno e a un piccolo studio, che una volta era usato per lavorare da suo padre, e adesso era più simile a un reliquiario. Francisca attendeva nel corridoio, voltando le spalle alle scale che portavano al soggiorno. Le pareti erano state bianche, prima di accumulare polvere e sporcizia, e non avevano quadri o decorazioni.

“Download completato. Buona missione, Cavaliere”, annunciò la voce elettronica del bracciale.

Le luci si spensero, e piombò il silenzio.

Dei passi pesanti. La maniglia girò. La porta si aprì.

Dylan era lo stesso di pochi minuti fa, ma a Francisca sembrò lo stesso differente. Qualcosa, negli occhi, era cambiato. Brillavano di una luce nuova, una consapevolezza antica. Dylan piegò la bocca in un sogghigno, e disse:

«Scusi per il disordine. Immagino che lei debba essere quella che mi ha dato una mano a gestire la situazione. La ringrazio»

Francisca si rimise in piedi. Il cuore le batteva all’impazzata, lottò per cercare le parole giuste da dire.

«Che cosa sei tu?», disse Francisca.

«L’ha sentito prima, immagino. Sono un Cavaliere. Non che abbiamo creature simili ai cavalli, sul mio mondo, ma non saprei tradurre meglio il concetto, né sarebbe pronunciabile il mio nome nella sua lingua. In sostanza, credo che lei mi definirebbe... un forestiero. Prima di venire qui ho studiato gli usi e i costumi del posto. Dunque la mia squadra ha rintracciato un corpo disponibile nell’area, e vi ha inviato la mia coscienza. I dati viaggiano più veloci delle astronavi, è un modo più facile per affrontare una simile traversata. Mi spiace per la scenata, ma l’adattarsi alla nuova fisiologia può essere traumatico. Devo aver costruito questo ricevitore non appena sono arrivato, per contenere una copia di backup in caso di malfunzionamenti», disse Dylan, indicando il bracciale al polso. «Purtroppo i mezzi locali a mia disposizione erano molto rudimentali, o la sovrascrizione non sarebbe stata così... rumorosa»

«Un corpo disponibile? Cosa significa? Dylan, tu lo hai ucciso», biascicò Francisca.

«Dylan? Scusami, nella sovrascrizione ho perso i ricordi dal mio arrivo. È così che mi faccio chiamare? Ma in ogni caso, non l’ho ucciso. Non proprio. Sarebbe stato inutilmente crudele infierire su creature come voi. Se i dati erano giusti...», disse, e cominciò a tastarsi la pancia. «Ah, eccola. Una forma di decadimento cellulare. Questo corpo è stato già toccato da una… dalla sua Morte, non gli resta molto. Fatico molto a tenerlo in piedi. Una vera tragedia, ma non è stata una perdita eccessiva, considerata la situazione»

«Eccessiva. La situazione. Oh Dio, sta succedendo sul serio»

«Non era mia intenzione turbarla. Ma la mia missione è della massima giustizia, e potrebbe salvare molti. La prego di sopportarmi ancora per qualche tempo. La prego»

Dylan si estrasse dalla tasca il quadernetto. Stavolta lo sfogliò con rapidità, decifrando le vergate di inchiostro alla ricerca dell’informazione che gli serviva. Dunque lo rimise al suo posto.

«Lei dev’essere la signorina Francisca Louis Alvares. È un piacere conoscerla di persona, ho fatto molte ricerche sul suo conto»

«Ricerche. Non pensavo di essere così importante. Quei 200€ mi servivano per pagare il gas»

«Laureata in Sociologia alla “Universidade dos Açores”, prima del suo corso, lavora come insegnante privata di inglese. Atea, estroversa e di idee politiche radicali, appassionata di albi a fumetti. Suo nonno paterno, José Robinho Alvares, era un architetto del genio civile. Paranoico, durante la guerra sul continente costruì un rifugio antiaerei proprio sotto la casa che lei, da ultima parente in vita, ha ereditato. Non vi sono planimetrie precise, e non siamo riusciti a scoprire come entrarvi. Per questo abbiamo bisogno del suo aiuto, per risparmiare tempo prezioso: lei deve aprire quel rifugio, e lasciare che lì io compia la mia missione»

«Sembra che tu mi conosca meglio del mio ragazzo»

«Ex ragazzo. Non tornerà mai sui suoi passi, dovrebbe lasciarlo andare», disse Dylan.

«Grazie. E ti prego, dammi del tu, a questo punto dovresti anche sapere che le formalità mi mettono a disagio. Dio, sto parlando con uno stalker alieno omicida, ma perché non ho chiamato la polizia»

«Perché sei una persona curiosa. Secondo il profilo, sei abbastanza insoddisfatta da correre dietro a ogni nuovo stimolo. Appurato che io non voglio farle del male, o gliene avrei già fatto da tempo, era logico che lei collaborasse con me. Devo dire che neanch’io però mi aspettavo una reazione così… tranquilla. Avevo previsto più urla, scalci. E cose del genere»

«Grazie, ancora. Leggo molto. Sto ancora cercando di capire se sei vero»

«Temo che per questo non ci sia molto tempo. Ogni minuto che passa la situazione si aggrava. Devi dirmi dove si trova l’ingresso per il rifugio»

«E perché dovrei farlo?», disse Francisca, «Non mi hai neanche detto in cosa consiste questa tua missione»

«Se ancora hai dei dubbi sul mio conto, non crederesti mai al motivo per cui sono venuto qui. Ti assicuro che faremo molto prima se tu lo vedessi coi tuoi occhi. Quindi te ne prego, ancora. Portami là sotto»

Dylan si sfilò dalla tasca il portafoglio e ne estrasse delle banconote. Dunque le porse a Francisca e disse: «In più, ho altri 200€»

Francisca li afferrò di scatto, e li controllò in controluce.

«Questi erano… suoi?»

«Non erano tutti del mio corpo ospite, se è quello che intendi. Altri li ho presi da altre fonti, essendo a conoscenza delle tue difficoltà economiche ho pensato potessero farti comodo»

«Sei anche un ladro»

«Un criminale, senza dubbio, ma non è stato del tutto ingiustificato…»

«Considerata la situazione. Di cui non vuoi mettermi a conoscenza, ma per la quale ogni cosa sembra essere giustificata affinché tu possa entrare in un rifugio di settant’anni fa, per fare qualcosa di indicibile e misterioso», concluse Francisca.

«Grazie per la comprensione», disse Dylan.

«Perfetto. Scusami un secondo», disse Francisca.

Francisca entrò di corsa nello studio di suo padre, e lì si chiuse a chiave.

 

La stanza era un quadrato di pochi metri di lato, spesse tende rosse lasciavano filtrare solo uno spiraglio a rischiarare i numerosi tomi e volumi accatastati in mobili antichi, secondo un ordine alfabetico. Marques Jovìn Alvares era stato un soldato dei corpi di pace. Tornato a casa fu poi giudice di pace e uomo di lettere, e l’anima dell’uomo poteva essere intuita scorrendo i titoli delle sue letture. Tomi di legge e di diritto romano, storiografie del Medio Oriente, autori argentini e della Spagna medievale, molti romanzi europei. Qualche libro di fiabe, che leggeva alla sua bambina quand’era piccola. Francisca camminò a passi lenti sul tappeto a motivi geometrici che copriva il pavimento. Nei ripiani più larghi, davanti a una fila di libri giacevano delle cornici impolverate. Foto di famiglia e di momenti felici. Accanto la finestra, una massiccia scrivania di ciliegio raccoglieva delle carte in disordine, com’erano collocate ancora anni e anni fa. Dalla morte del padre, Francisca non aveva spostato nulla. Si sedette dietro la scrivania. Una foto che la ritraeva da bambina la stava fissando coi suoi occhi larghi e scuri. Aprì un cassetto: una bottiglia di Glen Grant invecchiato, vuotata di un terzo, e un libro di letteratura russa. Entrambi di compagnia a suo padre, negli ultimi mesi.

Francisca prese la bottiglia, e ne bevve una lunga sorsata. Era seduta su una poltrona comoda e rilegata in pelle, si sentiva affondarci dentro. Respirava a fatica, e quasi non si accorgeva dell’odore pungente di vecchio che permeava la stanza. Quante probabilità c’erano che quell’uomo che la aspettava al di là della porta, o qualunque altra cosa fosse, le avrebbe fatto del male entro la fine della giornata? Era stata incauta. Non era fiducia nelle persone, quanto più, pensò Francisca, un istinto di autodistruzione. Sì, doveva essere così. Come quando correva sulla moto senza casco. Lo sapeva che poteva farsi male, ma che poteva succedere al massimo? Morire? Prima o poi doveva succedere. Però Dylan, lo chiamava così per comodità, non era una moto. Era molto più pericoloso. O forse no. Dipende da come si guida. Un altro sorso di whisky, quelli scozzesi sono i migliori. A Francisca sembrò che in ogni caso Dylan non avrebbe accettato un “No” come risposta.  E poi in fondo, un po’ la cosa la divertiva. Erano anni che non entrava in quello strano scantinato, non c’era granché a parte qualche vecchia bottiglia di vino inacetato. Era come nelle storie dei fumetti, forse c’era un passaggio segreto. Un tesoro, un dungeon. Che poteva succedere, al massimo?

Francisca frugò meglio nel cassetto, e la trovò nascosta sotto al libro: una vecchia chiave arrugginita, dei tempi della guerra. Fece un ultimo sorso, posò la bottiglia sulla scrivania, e uscì fuori dalla stanza.

Dylan la aspettava nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato. Le guardò la chiave che stringeva in mano, e sorrise compiaciuto. Francisca si accorse solo allora del pallore che aveva in volto, le apparve chiaro che era davvero molto malato.

«È al piano di sotto», disse Francisca.

«Ero certo che avresti capito», disse Dylan.

«Sì be’, tu stammi davanti, non mi piace l’idea di non averti sott’occhio»

«Agli ordini»

I due scesero le scale e si ritrovarono in un ampio soggiorno, arredato secondo un gusto moderno.

«Di qua», disse Francisca, e indicò di voltare a destra.

Attraversarono un breve corridoio e in fondo vi era una porta, più massiccia e vecchia delle altre, di legno scuro. Francisca spostò Dylan di lato, afferrò la maniglia d’ottone e spinse un po’ col piede per riuscire ad aprire la porta. Al di là di questa, vi era una sorta di ripostiglio. Vecchie scatole ammassate una sull’altra e dai contenuti disparati, nessuna finestra, mobili ricolmi di cianfrusaglie che nessuno usava da tempo, ma forse carichi di troppa nostalgia per essere buttati. Francisca cominciò a spostare le scatole da un lato.

«Dammi una mano», disse a Dylan.

In pochi minuti liberarono l’angolo destro della stanza. Francisca si accovacciò sul pavimento, e afferrò un lembo dell’ennesimo tappeto di foggia orientale.

«Ogni stanza ne ha uno», osservò Dylan.

«Sì, era una passione di mio padre. Pensavo sapessi anche questo»

«Non abbiamo ritenuto importante approfondire la vita dei tuoi genitori. Sono morti molto giovani, persino per degli umani»

«Già»

Francisca spostò con un gesto largo il tappeto, e rivelò tra le assi di legno una botola. Vi infilò la chiave arrugginita, e la aprì. Sotto vi era una scala, e scendeva verso l’oscurità. Francisca allungò la mano, e provò a premere degli interruttori vicino alla parete.

«Niente, la luce non funziona», disse Francisca.

«Non preoccuparti, il mio ricevitore dovrebbe avere ancora abbastanza carica», disse Dylan indicando il bracciale.

Dispose i cilindretti in una configurazione particolare, e subito cominciarono a brillare di una forte luce azzurrina.

«Ancora non capisco come tu abbia fatto a costruirlo, in così poco tempo», disse Francisca.

«Non è difficile. Se ti aiuta a comprendere, vedila come per uno scout che accende il fuoco in una foresta, con pietre e pagliuzze. In fin dei conti te l’ho detto, è un dispositivo molto rudimentale. Fatto con transistor, microprocessori, la batteria di una calcolatrice un po’ ritoccata, e dei cavi del telefono»

«Rubati anche quelli, immagino»

«Avete solo due occhi, non è solo colpa mia se è così facile intascarsi qualcosa senza che ve ne accorgiate. E comunque, considerata la situazione...»

«Sì sì, ho capito», lo interruppe Francisca. «Vai avanti tu»

Dylan cominciò a scendere nella botola. Ad ogni passo il suo bracciale oscillava con lui, e l’orizzonte tremolante si allargava un po’ di più. Francisca lo seguiva, premeva le mani sulle pareti per darsi sostegno. Non avevano pensato di costruire delle ringhiere, e i gradini erano molto sottili.

 

«Per quanto ancora scende?», chiese Dylan dopo qualche minuto.

«È piuttosto profondo. Mio nonno lo costruì pensando che la guerra avrebbe travolto persino quest’isola. La Royal Air Force aveva una base da queste parti, mi raccontava che sentiva gli aerei decollare. Un po’ paranoico, forse, ma all’epoca sembrava che il mondo potesse finire da un giorno all’altro», disse Francisca.

«Lo sembra sempre. E non è del tutto falso. Lo spazio è grande e pericoloso, e voi mortali siete creature effimere. Anch’io al posto vostro vivrei nel terrore»

«Mortale? Sei una specie di elfo, o di vampiro?»

«Non tutte le creature dell’universo sono destinate a una Morte. Ma alcune ne vengono toccate lo stesso. E questo è ingiusto», disse Dylan, incupendosi.

Continuarono la discesa in silenzio, fino ad arrivare a una bassa porta di legno, incastrata nel cemento. Anche questa aveva una serratura. Francisca passò la chiave a Dylan, che la aprì. Entrarono nel rifugio, e Francisca capì che Dylan aveva ragione. Non avrebbe mai creduto a qualunque spiegazione che gli avesse dato, e nulla poteva prepararla a quello che vide in quel momento.

La luce del ricevitore di Dylan era abbastanza forte da rischiarare la totalità della stanza, otto metri di lato e tre di altezza, con quattro colonne portanti a reggere il soffitto. Accatastate a una parete c’erano delle dispense ricolme di cibo in scatola, ormai andato a male. Bottiglie d’acqua, dei libri, altri oggetti di prima necessità per sopravvivere qualche giorno in caso di attacco nemico. Sparse per il pavimento vi erano molte cassette di vino, accumulate negli anni e ricoperte di ragnatele e uno spesso strato di polvere grigia. E poi c’era quella cosa.

Al centro della stanza, tra le quattro colonne, una creatura giaceva quasi immobile, e voltò un’estremità del suo corpo quando percepì i due nuovi giunti. Nonostante fosse in ginocchio, doveva curvare la schiena per riuscire a entrare nella stanza. Nera della più nere delle oscurità, assorbiva completamente ogni radiazione luminosa, ed era allora impossibile riconoscerne dei tratti caratteristici: come fosse un gioco d’ombra cinese, proiettato al lume di candela. Solo girandoci attorno ne si distinguevano le forme nello spazio. La creatura poggiava a terra su due arti sottili, e a un busto solido erano collegate, come i petali di un fiore, sei protuberanze forate, che ricordavano il profilo scheletrico di sei braccia: radio, ulna e omero sembravano ben distinguibili. Delle sei braccia, solo tre erano dischiuse attorno al corpo, e recavano all’estremità una sorta di perno affilato, o mano, o uncino, o forse un occhio, era impossibile dirlo. Altre tre erano invece distese verso l’alto, ed era come se si interrompessero a metà. Come se nel soffitto fossero state aperte tre cerniere verso un luogo lontano, e le braccia vi entravano e uscivano in gran rapidità, la prima, la seconda, la terza. In meno di un secondo, di nuovo si muoveva la prima, e così procedeva chissà da quanto tempo. Francisca quasi non inciampò nelle gambe della creatura mentre vi camminava vicino, e si accorse che erano incredibilmente sproporzionate rispetto al resto del corpo, e che in piedi sarebbe potuta essere alta quasi dieci metri. Eppure, nonostante la stazza, non potè che guardarla rapita, e stupirsi della sua eleganza e bellezza. Sì, era davvero bellissima.

«3.2 al secondo», disse Dylan con disgusto. «La media è quella. Tre persone al secondo vengono toccate da questa Morte con tre delle sue falci, e sono trascinate da lei al di là dell’esistenza. Non c’è nulla di più immondo nell’universo di queste creature di oscurità, dedite al caos e alla decadenza»

«Questa», disse Francisca soppesando le parole, senza distogliere lo sguardo, «È la Morte?»

«È una Morte. Mi rendo conto che per voi creature mortali sia difficile da comprendere. Per uno scherzo dell’evoluzione, nel vostro pianeta, come in molti altri, la vita si è costruita attorno alle Morti. E dunque ognuno di voi nasce portando in sé la sua stessa Morte, in una perversa simbiosi, e venendone inesorabilmente toccati quando decide che è il momento. Se di decisione si può parlare»

«Parli della Morte come se non fosse un evento. I miei genitori sono stati travolti da un camion. Mi vorresti forse far credere che è successo per volere di qualche angelo, o cose del genere? No, non è così. È stata colpa del camionista. Solo colpa sua»

«Ascoltami attentamente. Se ogni qualvolta tu bevessi una tazza di tè io, fin da quando sei nata, fin dall'alba della tua specie, senza che nessuno se ne accorga, versassi nella tazza delle gocce di un liquido disgustoso e amaro: a quel punto non sarebbe logico che tu deducessi che il tè sia una bevanda disgustosa e amara? Le vostre morti, piccole e schifosamente subdole, agiscono spesso quando le vostre funzioni di supporto corporeo vengono meno, e vi cancellano, vi trascinano via. Non sempre. Ma spesso, e vi hanno fatto elevare il fenomeno a caso statistico. Se un individuo della mia specie venisse travolto da un camion, semplicemente si trasferirebbe in un altro corpo. La morte non è ovvia. Siete voi a crederla inesorabile, perché l’idea vi dà conforto, e vi permette di vivere quel poco che avete con più gioia»

Francisca era in lacrime. Come poteva accettare quelle parole? Che la morte fosse una malattia, un parassita, e non una destinazione.

«Allora può essere curata? La morte può essere evitata?»

«Non per voi. La vostra è radicata nella vostra coscienza, indistinguibile dall’essenza stessa dell’umanità. È così per tutte le creature mortali. Mi dispiace»

«Ma perché. Perché queste creature che tu chiami Morti dovrebbero farlo? Se le Morti stesse sono vive, perché dovrebbero uccidere?»

«Perché loro non sono realmente vive. Perché la loro razza è più antica dell’ultimo Big Bang, perché la loro esistenza trascende il concetto di realtà a cui siamo abituati. Perché loro sanno. Loro sanno ogni cosa, perché esistono da prima di ogni cosa. E allora si sentono al di là dei concetti di giusto e sbagliato, e agiscono in preda a un delirio caotico. Qualche volta scelgono di lasciarti in vita, qualche volta di ferirti e risanarti, altre volte di trascinarti nell’oscurità. È una continua roulette, che gira sempre. È inevitabile che prima o poi la sfortuna arrivi, per tutti»

«Ma non per te. Non per la tua razza», disse Francisca, la voce tremante.

«Nel mio caso è diverso. Noi non siamo nati accanto alle Morti. Ma le Morti sono creature casuali, ed era naturale che un giorno ci trovassero. Vagano tra le stelle spinte dalla follia, e aprono brecce nello spazio dall’estremità dei loro arti lerci. Stabiliscono un contatto con le razze che riescono a toccare, e si adattano in simbiosi con queste, fino a trovare un nuovo bersaglio. Non nascono insieme a noi, ma ci stanno uccidendo. Ve ne sono ad ora almeno tredici che continuamente stroncano le vite immortali della mia gente. Noi Cavalieri siamo stati incaricati di trovarle. E di ucciderle. E una è stata trovata qui, sotto casa tua. Non sappiamo da quanto tempo sia qui, ma sappiamo che non restano mai allungo nello stesso posto. Bisogna agire adesso»

Francisca restò in silenzio. Contemplò ancora la Morte, terrorizzata e ammaliata. Non aveva mai visto un colore così puro, un nero così candido. Continuava a piangere, ma il cuore stava rallentando i battiti, persi in tanta immensità.

«Per questo ho bisogno del tuo aiuto», continuò Dylan, «Le Morti mutano per entrare in simbiosi con nuove specie. Ho bisogno che tu la muti in una Morte umana, e che salvi le vite della mia razza»

«Ma così diventerà la mia Morte. Così sarò io, a morire», disse Francisca come in trance.

«Certo che morirai. Era abituata a mietere molte vittime per volta, prevaricherà facilmente su quella che attualmente è già in te, tanto piccola da non poter essere vista, con un solo arto. La ucciderà, e prima o poi deciderà di uccidere anche te. Senza alcun motivo preciso, solo perché quel giorno avrai avuto sfortuna. E sarà una tragedia, ma per te davvero inevitabile»

«La cosa dovrebbe spaventarmi?»

«Sì, dovrebbe. Da quando sei nata. Eppure sei ancora qui, hai trovato il modo per andare avanti. Non cambierà nulla. Semplicemente, un giorno morirai. Forse domani, o forse tra cinquant’anni»

«Perché non lo fai tu? Credi che la tua vita sia più importante della mia?»

«Non più importante. Solo più lunga. Sarebbe un inutile e insensato spreco se si legasse alla mia coscienza»

Francisca si avvicinò lentamente alla Morte.

«È bellissima», disse.

Dylan contrasse il volto in un’espressione di puro orrore, ma si limitò a dire garbatamente: «Ogni secondo che passa qualcun altro muore. Era giusto che tu prendessi una scelta consapevole, ma capirai che altrimenti costringerti sarebbe stato quasi un imperativo morale»

«Cosa vuoi che faccia?»

«Toccala. Porgile una mano, e accetta che la stringa. È un evento piuttosto raro, sono sicuro che attirerai la sua attenzione. Per quanto deliranti, hanno ancora un barlume di individualità», disse Dylan. Sembrava vergognarsi molto di quello che stava dicendo, ma si sforzava di farlo sembrare un atto dignitoso.

Francisca si avvicinò. Non le importava quello che diceva Dylan. Aveva visto la Morte, ed era meravigliosa. Perché quello che Dylan chiamava caos, a lei sembrava solo essere… vita. Si inginocchiò, come in ginocchio era la maestosa creatura. Prostrò il capo, e le porse la mano destra. Dylan non sopportò quella vista e corse via, su per le scale, pervaso da conati di vomito. Ma non importava. La Morte si fermò, e tutti e sei i suoi arti si diressero verso Francisca. La toccarono delicatamente, la sollevarono da terra senza sforzo, e la abbracciarono. Per un attimo tutto fu solo assoluta oscurità, e in quel nero Francisca vide suo padre, la sua famiglia e il suo stesso riflesso, che sorrideva in lacrime e urlava di gioia in un’estasi di dolore. Poi scomparve. Francisca era da sola in quella stanza, e nulla era cambiato. Sarebbe morta per quello che aveva fatto, come sarebbe dovuta morire in ogni caso. Uscì fuori dalla botola, e scoprì che Dylan se n’era andato. La sua missione era stata compiuta. Pochi giorni più tardi venne trovato il suo corpo in un cassonetto, vi si era gettato dentro prima di lasciarsi divorare dalla malattia. Il suo bracciale aveva trasmesso le sue ultime memorie, che ora vagavano per l’universo in cerca di una nuova missione.

 
  
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