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Autore: Angelika_Morgenstern    10/11/2017    8 recensioni
Questa storia partecipa al contest di Halloween indetto sul gruppo Facebook Efp famiglia: recensioni, consigli e discussioni
Quando si dice "amiche per sempre".
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E me ne sto qui, fluttuando nel vuoto, osservando finestre su finestre scorrere davanti ai miei occhi simili a carreggiate di autostrade, scappare via veloci, come questa vita che tra poco perderò.
Il cielo limpido e azzurro, batuffoli di nuvole bianche che ne occupano lo spazio rincorrendosi, il vento che mi fischia nelle orecchie come volesse ipnotizzarmi.
Ripenso alle ultime ore.
 
La porta si apre mentre sto leggendo un libro, un romanzaccio rosa di quelli che ti fanno venire la carie ai denti. Pessimi culturalmente, ottimi per passare il tempo.
Sorrido guardando la donna dai capelli castani fare il suo ingresso nella mia stanza, il rumore dei tacchi a spillo che risuonano mentre lei mi sorride avvicinandosi con un pacchetto in mano.
— Buon compleanno!
Allungo la mano per raccogliere il cubo rosa cipria, immaginandone già il contenuto mentre tiro via il nastro color perla per poi strappare la carta con due dita.
La scatola si rivela nella sua bianca nudità, il coperchio è facile da rimuovere e subito svelo il contenuto. Bianca mi ha sorpresa.
— Cioccolato.
— Una candela. – precisa lei – Serve a coprire la puzza di queste medicine.
— Non la sopporti proprio, eh? – sorrido – E dire che devo starci io in questo posto di merda.
— Ed è per questo che vengo in tuo soccorso.
Ridiamo, come ai tempi della scuola. Non abbiamo mai smesso di farlo, a dirla tutta.
Siamo sempre state un po’ così, matte e inseparabili, il duo inossidabile della classe e bla bla bla, tutte queste minchiatine qui che si dicono sull’amicizia.
A dirla tutta non abbiamo mai dubitato l’una della lealtà dell’altra: semplicemente siamo due che vivono alla giornata.
— Pensavo mi avessi regalato una tartaruga.
— Cosa? E perché?!
— Almeno mi farebbe compagnia. Lo sai che gli amici al momento del bisogno ti lasciano sempre sola.
— Ah sì?! Che gentaccia frequenti.
— Già.
Ridiamo ancora.
— Allora, come va con Peter? – domando poggiando la cioccolata di cera sul comodino appena alle mie spalle. Chissà perché le ho fatto proprio quella domanda, quella che dovrei evitare come la peste.
Sono proprio scema.
— Meglio. – dice, rabbuiandosi subito.
— Sei sicura? – cerco il suo sguardo.
Dopo un momento di esitazione, Bianca scuote il capo — No, per niente. Sta crollando tutto, come un castello di carte! Io… non so cosa fare…
Eccoci qua, in una stanza d’ospedale che puzza di medicine, io, una malata che deve consolare la sua migliore amica, che le piange sulle ginocchia quando invece dovrebbe essere lei a consolare la prima.
Chissà perché le situazioni semplici si complicano sempre in modo assurdo.
Poggio una mano sulla chioma fresca di piega di Bianca — Dai, non ne vale la pena.
— Dopo due figli e sei anni di matrimonio, è un po’ tardi per dirlo… non credi?
La sento che vuole nascondere i singhiozzi, riesce a trattenerli a stento.
Sospiro — Io non so nulla di matrimoni, relazioni e bambini. Parlo facile.
— Allora non impicciarti! – ringhia.
— Ehi, sei stata tu a metterti a frignare qui con me!
Volevo essere ironica, ma forse ho colpito nel segno: Bianca ha un singulto, alza la testa e si asciuga una guancia con un kleenex comparso dal nulla. Probabilmente li ficca ovunque per ogni evenienza.
Deve essere davvero alla frutta.
— Oh Dio…
— Non invocarlo, sai che è un sadico.
Scuote il capo —No, no, no… tu sei qui, a combattere contro un malaccio, e io… vengo a fare la tragedia greca per uno stronzo!
— Beh, guarda il lato positivo: tu puoi liberartene, io no.
— Sta’ zitta, ti prego! – strepita, portandosi le mani sulle orecchie.
Peccato che nella stanza non ci sia anima viva; avremmo potuto guadagnare un bel gruzzoletto passando con un piattino, dopo la nostra performance stile tragedia greca.
— Raccontami cos’è successo nel dettaglio. – dico.
La mia amica mi guarda stupefatta, la bocca socchiusa — Ma…
— Fallo. Hai bisogno di sfogarti.
E non guardarmi con quell’aria da pesce lesso, io ho superato il mio trauma, sono due settimane ormai che sto qui. Ho accettato il mio destino, credimi.
Ma tu devi ancora passare tutto questo, e per esperienza ti dico sfogati, Bianca. Tira fuori tutto ciò che hai, dimmelo, urlalo, sfascia qualche mobile. Fai qualsiasi cosa, ma non farti sotterrare da quel dolore che senti dentro.
Io e la mia amica ci guardiamo negli occhi: il suo sguardo si indurisce lentamente, le iridi cambiano sfumatura, riflettendo il mutare del suo stato d’animo.
— Sì – sussurra – hai ragione.
Le sorrido sollevata mentre mi appoggio alla spalliera del letto, quasi sprofondando nei due cuscini sotto di me.
— Mi passi il terzo?
Bianca si alza, aprendo l’armadio — Lo stronzo è furbo. – dice – Non sono ancora riuscita a beccarlo con la sua amante, sebbene lo abbia fatto seguire più volte.
— Controllato il cellulare?
— Sì, sembra che lo tenga 24 ore in ammollo con la varecchina. Alzati.
— Grazie, ah! Ci voleva proprio.
Adesso sì che sono comoda!
Bianca sorride, sedendo sul letto alla mia sinistra.
— Ho sempre pensato che la persona della mia vita fossi tu. – confessa.
Mi sento piena d’orgoglio ma anche di tristezza: tra non molto la lascerò sola e sinceramente pensavo che suo marito fosse la persona più adatta a prendere il mio posto.
Fino a tre mesi fa, ovviamente.
— Mi dispiace. – ammetto, abbassando lo sguardo – Vorrei avere la possibilità di portarti a fare un giro. Ti ricordi i nostri weekend al centro commerciale?
— E come potrei dimenticarli? – i suoi occhi brillano.
Ognuna si perde nei propri ricordi per qualche secondo, e sono io la prima a tornare alla realtà, notando che lo sguardo della mia amica è fisso e vuoto.
Cazzo.
Mi muovo, portando i piedi oltre il letto — Devi andare a fare la cacca? – chiede.
Sorrido a Bianca — No. – rispondo – Ti porto a fare due passi.
 
È stata la scelta migliore.
Come serpenti i miei capelli si muovono sferzati dall’aria, furiosi in lotta contro la discesa inesorabile, vanno verso l’alto, verso la vita, verso la salvezza.
Il cielo si allontana, la terra s’avvicina.
Cosa ci faccio qui?
 
Non appena la porta si apre veniamo investite dall’aria pulita, la cui freschezza c’inebria scendendo giù per i polmoni.
La sensazione di fresco nel petto è davvero gradevole.
— Questo posto è bellissimo! – commenta Bianca, e ha ragione.
La terrazza della clinica è una sorta di giardino pensile, pieno di fiori, piante e qualche panchina qua e la. Molto rilassante per chi vuole prendersi una pausa dai pensieri dei propri mali.
Respiro a fondo, beandomi della tranquillità che quel posto sa trasmettere, il che è strano: sensazioni del genere in una clinica per malati terminali. Non s’era mai visto!
— Questo posto mi ricorda il giardino dell’Eden. – mormora la mia amica, visibilmente rapita dal luogo paradisiaco. Il traffico cittadino infuria sotto di noi, ma neanche i fastidiosi clacson riescono a distrarci.
E meno male! Ce lo meriteremo pure un attimo di pace, o no?
Annuendo sia alla sua affermazione che alla mia domanda, mi avvicino alla balaustra di metallo chiaro, agganciandola con ambedue le mani per dondolarmi sui talloni.
— Ti ricordi – inizio io – quando andavamo a scuola? Anche allora vivevamo momenti del genere.
— Diciamo che avevamo preoccupazioni minori.
— Sì, ma ascolta il vento che ti smuove i capelli, l’aria fresca del giorno, guarda l’orizzonte come appare pulito da qui. Era così che vedevamo il nostro futuro.
— Tutto ancora da scrivere.
Mi rabbuio — Invece adesso è tutto programmato. Io morirò, mi faranno un funerale, verrà un sacco di gente mai vista a fare presenza, mi ricorderanno tutti come una povera donna morta troppo giovane, mentre tu avrai un divorzio da affrontare con tutte le sue stronzate burocratiche. Avvocati, figli da dividere, oggi con me, domani con papà…
Solo in quel momento mi rendo conto di aver parlato troppo: Bianca mi sta fissando… bianca come un cencio, per l’appunto.
— Scusa, non volevo essere brusca. – borbotto.
— No… immagino che nella tua situazione… ecco…
— Sono rassegnata, Bia, ma credo nella reincarnazione. E sono sicura che la prossima vita sarà migliore, per tutte e due.
La mia amica aggrotta la fronte.
Cara, carissima Bianca! Mi sa che sta iniziando a capire.
— Che stai dicendo?
Guardo in basso, fissando le punte delle ciabatte che la clinica da in dotazione ai malati.
Sandali dalla punta larga e tonda, classiche scarpe da infermieri bucate ovunque, di un verde acqua che farebbe salire la bile anche a Biancaneve digiuna.
Che pessimo gusto!
Torno a osservare il cielo, decisamente più bello.
— Beh, sai… tanto dovrò morire, no?
Silenzio.
— Quindi?
— Andiamo, cerca di capire. – sbotto – Quelli non sanno niente di me, mi stanno tenendo in gabbia come un pennuto dalle piume sgargianti e mi trattano come una cavia da laboratorio!
Sono stanca di vivere così.
E poi fa male, ho un sacco di dolori tutti i giorni.
— Ma se siamo salite fino a qui senza ascensore!
— Grazie, sono drogata di antidolorifici!
Ci guardammo, sospirando assieme come se prendessimo una pausa da un duello.
— Bianca, ascolta – mi avvicino a lei – la vita qui è un inferno. Che dico, quello che resta della mia vita è un inferno! Non ho speranze, attendo di morire che differenza fa?
— Ti prego, non…
— No, io ti prego. Non lasciarmi qui, non farmi arrivare a stare giorni a letto come un vegetale, mugugnando robe senza senso con gli occhi girati.
— Non ti ridurranno così!
— Oh, per favore! – sbotto – Sto morendo, Bianca! Che senso ha perseverare?
Il silenzio cala su di noi come un lenzuolo di ghiaccio e vedo gli occhi della mia amica riempirsi di lacrime — Ha senso per me. Come farei senza di te? Hai visto come mi hai distratta subito dai miei problemi?
— Solo perché provi pietà per me.
Lo schiaffo quasi mi stacca la mascella, facendomi perdere l’equilibrio — Sei matta?! – urlo.
— Tanto stai morendo, no? Che te ne frega se ti faccio male?
La voce della mia amica è rotta dal pianto e mi rendo conto solo in quel mentre di quanto io sia stata insensibile.
— Mi dispiace.
— Io… non comprendo la tua situazione, è vero, ma te potresti anche pensare a me, a come mi sento. Cazzo, siamo cresciute insieme! Come pensi che starò in futuro senza te?
Abbiamo combinato un sacco di cazzate insieme, abbiamo un linguaggio e battute che capiamo solo noi… non credi che mi sentirò sola? Non pensi che potrei stare di merda?
Oppure ti piace rigirare il dito nella piaga? Eh?
Ormai Bianca sta singhiozzando.
Mi vergogno del mio cinismo distaccato: non avevo preso in considerazione tutto ciò, pensavo solamente al mio dolore.
Gli altri erano divenuti l’ultima ruota del carro.
Sono un’egocentrica.
Abbraccio la mia amica, stringendola forte a me.
— Mi mancherai. – singhiozza.
— Anche tu.
Ci abbracciamo forte, stringendoci per qualche istante mentre calde lacrime solcano le nostre guance.
E poi giù.
 
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L’aria mi viene a mancare, muovo le braccia, le gambe, tutto quanto, finché non apro gli occhi.
Sono per terra, di nuovo.
Sono caduta dal mio letto, e solo il contatto col freddo marmo del pavimento mi ha destata dal mio incubo.
Il solito da cinque anni.
Sospiro e scuoto il capo.
Non ne uscirò mai.
Mi alzo tra il riluttante e l’essere grata a non so chi o cosa, però sono grata, questo lo so.
Ed è già molto perché ultimamente non riesco più a comprendere nulla riguardo la mia vita.
Ne ho bisogno anche oggi.
Passo di fronte allo specchio, mi fermo e torno indietro, guardando la mia immagine riflessa: sono davvero uno straccio.
Non è stato il divorzio, neanche il fatto che i servizi sociali mi abbiano tolto i bambini mi pesa, anzi, forse mi alleggerisce.
Segni violacei attorno ai miei occhi, rughe sulla fronte, zampe di gallina che iniziano a farsi evidenti…
Sto invecchiando.
Io sto invecchiando.
Sospiro dirigendomi in bagno, dove mi lavo noncurante dell’acqua gelida grazie alla caldaia rotta che dimentico sempre di far riparare.
Mi vesto in fretta, indossando gli abiti del giorno prima, ed esco di casa senza nemmeno chiudere a chiave la serratura.
Chi entrerebbe mai in un tugurio come questo?
Scendo in strada ficcando le mani nelle tasche della felpa, dopo aver tirato su il cappuccio come al solito.
So che è troppo larga, è da uomo, ma è comoda e calda, mi fa sentire meno sola.
Prendo il solito percorso della domenica mattina, percorrendolo a grandi passi, velocemente, impaziente come ogni fine settimana.
Il cancello è aperto nonostante sia ancora presto, come segnalato dalla nebbiolina che sosta in sospensione sull’asfalto. Sarebbe spettrale se non si trattasse di una fredda mattina d’inizio novembre, ma non m’interessa.
Oltrepasso l’ingresso e mi ritrovo subito nel vialone centrale del cimitero, incorniciato da alti verdi alberi a punta che ricordano fiammiferi accesi. Il vento leggero sposta via le foglie rossicce, dando inconsapevolmente un aiuto allo spazzino alla mia sinistra che pulisce l’asfalto sdrucciolevole.
Ci scambiamo il solito gesto d’intesa e proseguo, sentendomi osservata da tutte quelle foto più o meno moderne. Guardo la lapide di una bambina morta durante la grande guerra, sulla quale è stato posto un aquilone di metallo che conserva ancora il colore celeste dell’epoca, resistendo testardamente alle intemperie del tempo.
Sorrido alla piccola e avanzo, raggiungendo la tomba singola un po’ più isolata dalle altre, dopo essere arrivata sul fondo del vialone centrale.
Sulla destra c’è una zona di lapidi in costruzione ed è per questo che Marina riposa sola, isolata come negli ultimi mesi della sua vita.
Sento il mio viso contrarsi: neanche lui sa se ricambiare il sorriso che la mia amica conserverà in eterno sulla foto esposta o trascinare gli angoli della bocca verso il basso.
— Ciao.
Non mi giunge nessuna risposta, a parte il vento che smuove le foglie del cespuglio alle mie spalle.
Mi torna in mente quel momento: la clinica, la terrazza, la discussione, Marina che si sporge all’indietro, mi prega con gli occhi, e io che le do una mano.
Bastò una spinta leggerissima, lei ormai era coi glutei sulla ringhiera, e poi il volo.
Le sue mani verso di me, l’espressione del suo viso che mi ringraziava, i capelli svolazzanti, e poi il tonfo, il sangue, il corpo che esplodeva come una bomba, gli occhi chiusi.
Sembrava dormire.
Un fruscio.
— Ciao.
Mi volto.
La figura alta e longilinea, luminosa, vestita di bianco, l’abito che le piaceva tanto, quello anni ’90 che teneva in casa e non aveva mai gettato via.
Sorrido — Come stai?
— Ah, io bene. Paradisiacamente, oserei dire.
Rido — Sei sempre la solita!
Un attimo di silenzio, rotto da lei che intuisce i miei pensieri — No, non mi sono pentita di ciò che ti ho chiesto di fare. Mi dispiace solo averti dato tutti quei casini.
Ed aveva ragione: dopo l’omicidio/suicidio di Bianca, i servizi sociali mi hanno tolto i bambini.
Del resto ero in preda ad un grosso esaurimento nervoso, e la mancanza della mia amica mi aveva gettata in pasto alla depressione. Credo sia stata la scelta migliore, anche se alla fine sono stata prosciolta per mancanza di prove. Nessuno ci aveva viste e non c’erano segni di colluttazione, anzi, le impronte sulla ringhiera confermavano il suicidio.
Eppure la mia pessima nomea mi era rimasta cucita addosso, rovinandomi la vita.
Forse per questo Bianca non se n’era mai andata davvero, per il senso di colpa.
— Esattamente – dice ancora – è proprio quello che m’incatena qui. Ma non importa.
— Se sono ancora libera, psichiatri a parte, è solo perché mi hai esonerata da ogni responsabilità sul tuo diario, dicendo che ti saresti gettata di tua volontà dal palazzo quel pomeriggio, con tanto di firma, carta intestata e documento d’identità.
— Certo, le cose vanno fatte per bene. E cosa c’è di meglio di una procura notarile per delegare? Oh, cento e passa pippi la facciamo pagare, eh!
Scuoto il capo: Marina era un notaio in vita ed era sempre stata maniacale.
— Non perdi il tuo eloquio neanche dopo la morte.
— Scherzi? Guarda che sono l’anima della festa nel limbo dove sono rinchiusa grazie a te.
— Eh no! – ho un moto d’orgoglio – Guarda che hai fatto tutto tu, eh! E saresti rimasta qui anche se…
— Ssssh.
Rimango immobile e in silenzio — Non farti sentire. Cosa penserebbero quei babbi se ti vedessero strepitare da sola di fronte a una tomba?
Sorrido di compassione — Perché, cosa credi facciano loro coi morti?
Stavolta è Marina a ridere, per poi guardarmi con sguardo triste — Mi manchi dall’altra parte.
— Anche tu.
— Sai, a volte vorrei ucciderti per passare insieme l’eternità.
A quelle parole un’improvvisa folata di vento smuove un pezzo di marmo di una tomba vicina, che traballa sensibilmente per poi arrestarsi da solo — Ma non sarebbe giusto.
Tu mi hai aiutata e io sono già stata abbastanza egoista.
— Sei gentile a riconoscerlo.
— E comunque prima o poi morirai. Perché avere fretta?
Resto a bocca aperta, sconcertata dalla mia amica fantasma che non aveva affatto l’aria di fare una battuta: era seria.
— Sei una stronza!
— E sono morta. Attenta a te!
La sirena del cimitero suona all’improvviso, avvisandomi che è ora di andare via.
— Resta qui.
…come?
Mi volto, guardando preoccupata Marina, che resta a guardarmi triste e semi trasparente, luminosa nella sua morte.
— Io non…
— Non ti vede nessuno, Bianca! Dai, ti prego, mi annoio senza te!
— Ma devo andare a casa… è passato tanto tempo, non so neanche come sia successo. Devo fare la spesa, lavare, stirare, fare il pranzo e…
— Ti prego!
Due voci si sovrappongono, una acuta e una bassa, oscura, proveniente da chissà quale anfratto della terra, ed è per questo che mi spavento, facendo un passo indietro.
In quella, Marina cerca di afferrarmi, senza riuscirci ma lasciando comunque in me una sensazione di gelo quando le sue dita attraversano il mio braccio.
— Non andare, Bianca, non andare!
Di nuovo le voci, e sono sempre di più stavolta.
E se fosse solo frutto della mia immaginazione?
La vista si annebbia di colpo, barcollo sulle gambe, le ginocchia tremano per un attimo e mi porto la mano alla nuca: sangue.
Guardo a terra, notando un sasso che rotola lontano in maniera innaturale, capendo tutto in un attimo.
Corri!
Il mio corpo non si lascia bloccare dallo stupore e si muove da solo, forse per un istinto di sopravvivenza che avevo lasciato dormire in qualche parte del mio essere, forse per qualche altro motivo, non lo so, non m’interessa, l’unica cosa che sento di dover fare è correre.
Via, lontano da lì, da quel luogo di morte e malinconia, tristezza, dove si mescolano le frustrazioni delle anime rimaste intrappolate sulla terra, i rimpianti, i pentimenti, il tempo che avrebbero ancora dovuto spendere.
Sogni di vite, castelli in aria, pagine bianche e progetti interrotti, materialità strappata via in cambio della vacua eterna evanescenza, l’inutile immortalità dell’impotenza, unica consapevolezza in un tempo che passa tutto uguale.
Niente notte, niente giorno, nessuna sensazione, freddo, caldo, fame, sete, niente di niente, un incubo nel quale Marina si è ficcata da sola e nel quale non voglio assolutamente entrarci.
Corro, corro e corro a perdifiato verso l’uscita, giurando a me stessa che non sarei mai più tornata in quel posto.
Mai più.
Riprenderò in mano la mia vita, non lascerò che siano di nuovo le decisioni altrui a condizionarmi.
Mai più.
Le voci continuano a seguirmi, il vento soffia furioso, il cielo si rabbuia e temo che a breve avrà inizio una tempesta.
Mai più.
Il mondo si fa muro bianco e sterile nella proiezione dello stato d’animo del fantasma di Marina, che continua a urlare, minacciare, pregarmi di restare lì.
Non voglio, ho paura, reagisco come avrei dovuto fare quel giorno sulla terrazza. Avrei dovuto rifiutare, andarmene e lasciarla lì, sola coi propri casini nella mente.
Ma sul suo abito bianco c’è l’impronta della mia mano sul petto, quella stessa mano che mi ha resa complice.
Mai più.
Mai più mi farò condizionare.
Mai più.
Finalmente metto piede fuori dal cimitero, e il cancello viene chiuso alle mie spalle.
— Sta bene? – domanda il custode – Sembrerebbe avere il diavolo alle calcagna!
Mi accascio sulle mie ginocchia, respirando forte. I polmoni in fiamme a ogni respiro che mi fanno sentire viva e vegeta, la sensazione di aver salvato la mia vita, capendo di essere utile prima di tutto a me stessa, per me stessa.
Annuisco — Tutto… tutto bene. Ho solo lasciato la pentola sul fuoco.
Mi guarda poco convinto, ma alza il mento — Allora buona giornata.
— Altrettanto, grazie.
Mi affretto a scendere dal marciapiede, la testa piena di pensieri, ed è solo perché sento il clacson polifonico suonare che mi volto di scatto.
Una targa, il muso del camion, l’urlo del conducente.
 
— Adesso resti con me?
 
   
 
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