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Autore: Norgor    12/11/2017    0 recensioni
« Pare sia lecito considerare sintomo di una buona educazione, nonché prova sufficiente di una raffinata estrazione sociale, l'indossare un corsetto nella maniera più diligentemente consona e con l'eleganza più perentoriamente accettabile. »
Verona, 1819. L'irrefrenabile desiderio di ribellione nei confronti di una società dalle radici inique; quella cinica arroganza frutto di un'erudizione ambiziosa vissuta come un appiglio indispensabile per non precipitare nell'oblio; l'avversità nei confronti di un mondo scomodo e opprimente che sembra fare di tutto per apparire inospitale. Tutti questi tratti confluiscono nella figura di Doralice Guerra, una tredicenne dalla mentalità talmente inusuale da risultare distorta, dall'atteggiamento talmente anticonformista da apparire non solo indecoroso, ma addirittura malavitoso in quella nobiltà ottocentesca basata sull'etichetta. Doralice deve imparare a crescere in un ambiente che non fa per lei, divenire usa ad abitudini che disprezza categoricamente e moderare il suo pensiero all'ipocrisia da cui è circondata. Altrimenti, con l'andare del tempo, le conseguenze del suo libertinaggio potrebbero condurla su un sentiero fin troppo pericoloso e corroderla ad un livello talmente intimo da spingerla a decisioni estreme ed indelebili.
Genere: Introspettivo, Storico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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IV

 
          La via principale, lingua grigiastra acciottolata e arida, pareva rincorrere il sole che scivolava remoto oltre le siepi più alte, mentre la brezza leggera che soffiava da nord solleticava affabile anche le più spesse insegne cittadine; le criniere dei destrieri, che solcavano il terreno rosseggiante sollevando flebili nubi di polvere, luccicavano indistintamente per il riflesso che i raggi dipingevano sulle diligenze. Le sfarzose, raffinate carrozze della famiglia Guerra, saettanti culle luminose e senza contorno, adombravano i modesti carri a trazione che più frequentemente si potevano scorgere in paese, usualmente di proprietà d’un mastro o d’un contadino che, soprattutto nei giorni in cui la pioggia graffiava irriverente sui cipressi, soleva esibirsi in un devoto segno di croce ogni qual volta scorgesse il rosone d’una chiesa vicina.
          Doralice, rannicchiata nell’estremità sinistra del secondo scompartimento della vettura, ne aveva già contati tre dal principio del viaggio. Il primo era stato d’una donna anziana, matriarca rigida nel portamento e austera in ogni sua più piccola fattezza, che aveva spalancato le braccia e ringraziato Dio alla notizia che nessuna ferita mortale sarebbe riuscita a sottrarle l’unico figlio maschio di cui poteva farsi vanto, impegnato a prestare servizio militare per gli austriaci. A quel punto la massaia s’era portata al viso le lunghe mani nodose, impreziosite di lievi calli e scottature, e s’era abbandonata ad un teatrale esibizionismo emotivo verso cui Dora aveva covato profondi e costanti moti d’irritazione. Infinita è la misericordia di Dio.
          Il secondo segno di croce, invece, era da ricondurre ad un mendicante dal naso rosso e corrotto dalla malattia, gli occhi vispi adornati da folte sopracciglia scure, a cui un bambino dalle gote paffute aveva offerto un tozzo di pane appena comprato. Il clochard, da sotto le vesti luride e ricoperte di muco che ne inasprivano l’arcigno fetore, l’aveva agguantato con le dita simili ad artigli virulenti, e dalla sua bocca Dora aveva visto fluire della viscida bava giallognola. Dio sia con te.
         Il terzo, infine, apparteneva a sua madre, la quale aveva pregato ardentemente affinché il viaggio trascorresse cheto e senza intoppo alcuno. Ci affidiamo alla protezione del Signore, Dio nostro. Rolando l’aveva assecondata, chiudendo gli occhi, nel recitare il Salve Regina. Doralice era riuscita a stento a trattenere la propria ilarità, e aveva faticato assiduamente a tramutare l’eccesso di risa che s’era fatto strada dentro di lei in un repentino colpo di tosse. E mentre il soprabito che la circondava insisteva nel soffocarla silenziosamente, ella prediligeva passare il tempo a scrutare l’ignota vita cittadina che intravedeva lungo le strade, verso la quale, spesso, la sua curiosità si indirizzava negli attimi più tediosi delle sue giornate.
          «Riesci a scorgere quella fanciulla intenta a raccogliere i funghi, laggiù in fondo?» le chiese suo padre, puntando l’indice lungo e raggrinzito verso il punto in cui la pianura precipitava a condirsi degli sterpi d’una piccola boscaglia. «Dio è nei bambini».
          Dora tentò di non mostrarsi infastidita. “Allora devono fare attenzione a non espellerlo, quando si servono del bagno” pensò. Ma la sua bocca, conducente all’albergo di tali idee ed immaginazioni, rimase una porta saggiamente chiusa, e quella di suo padre, dunque, non si premurò di liberarsi del suo compiaciuto sorriso.
          Doralice si voltò dunque verso di lui. Improvvisamente preda d’un’urgente insoddisfazione, con il sole ad illuminarle il viso ed il trapestio degli zoccoli dei cavalli in sottofondo, ella iniziò ad esaminare con minuzioso interesse l’uomo che le sedeva di fianco. Il suo sguardo, concentrato e attento, si tramutò in un rigido strumento d’indagine, e il padre parve divenire un subdolo enigma in attesa d’essere sviscerato, analizzato e logicamente riassemblato. Le lievi rughe che prosperavano al di sotto delle labbra erano il dettaglio più innovativo che Dora incontrasse nella sua figura intirizzita; l’alone d’un sorriso ancora gli deformava i lineamenti taglienti, e poco si abbinava alla tristezza che i suoi occhi faticavano a celare. Rolando Guerra era un uomo alla cui porta stava iniziando a bussare la vecchiaia; questa certezza non scaturiva tanto dal grigiore delle punte dei suoi capelli, o dall’indebolimento graduale dei suoi modi di fare, quanto invece dall’avvento d’una tetra malinconia ad accompagnare ogni suo gesto, e d’una crescente remissività ad appesantirne il portamento. Dal canto suo, Dora non poteva ritenersi afflitta per questa sua nuova mansuetudine, sicché andava ad aggiungersi alle debolezze su cui poteva agire per raggirarlo, ma al contempo non riusciva a risparmiare un discreto senso di pietà verso lo spreco ch’egli aveva fatto della sua vita, e l’impulso di sputargli addosso tutto il represso rancore che provava nei suoi confronti ritornava così a solleticare nuovamente la sua fantasia.
          «C’è qualcosa che t’affligge» sentenziò lui in tono mite ma incerto, dopo qualche secondo. «Non te lo leggo negli occhi, no, poiché il tuo volto, da che m’è concesso di rammentare, è sempre stato un’imperscrutabile maschera d’elegante indifferenza. Ma col tempo ho studiato a dovere i tuoi movimenti, ho conferito significato ad ogni tua reazione, e questo mi porta ad affermare che ora ci sia qualche infausto pensiero che non ti dà pace».
          Dora convenne subito che dargli ragione avrebbe significato conferire valore alle sue convinzioni, e non le garbava affatto esporsi in maniera tanto pericolosa e incauta al suo giudizio. Inoltre, il vivido ricordo dell’ultimo scontro verbale intrattenuto col padre, che aveva avuto luogo mentre il suo tavolo di pregiato cirmolo andava a fuoco e sua moglie era svenuta fra le sue braccia, contribuiva a rendere in lei il bisogno di confidarsi sempre meno appetibile. «Non più di quanto mi sia usuale» rispose, ma si rese conto d’aver offerto una giustificazione spoglia, carente d’un condimento necessario affinché riuscisse a sottrarsi alle sue inauspicate attenzioni. Quindi aggiunse, facendo in modo d’essere udita anche dalla madre: «Sono solo in pensiero per la salute di Federico. Lo spazio angusto di queste cabine non è fonte di conforto tanto per il suo corpo malato quanto per il suo animo dedito alla costante ricerca d’avventure».
          Il pretesto era efficace e, abbinato alla migliore espressione ansiosa che potesse inscenare, si dimostrò abile nel raggiungere lo scopo desiderato. Clotilde, che come di consueto non trovava nulla di male nell’interrompere le conversazioni altrui, le parlò infatti con palese inquietudine. «Sarebbe una più che ottima idea assicurarsi che il viaggio sia di suo gradimento, non trovi? Ti sarei grata se potessi alleviarmi d’una tale preoccupazione e andare ad accertarti del suo buonumore».
       Doralice aveva notato che, nel rivolgersi a lei con insolita disaffezione, la madre aveva coscienziosamente evitato di guardarla negli occhi, e s’era adoperata per nascondere il tremore da cui le sue mani erano state inavvertitamente colte; questo singolare avvenimento, rielaborato secondo una soggettiva interpretazione della sua mente, produsse un moto d’orgogliosa superbia dentro di lei, e gonfiò la già elevata considerazione che la fanciulla aveva di sé stessa. Dilettandosi per l’aura di potere che emanava in quel momento, Dora uscì dal coupé con un’andatura talmente sicura da fare in modo che a Rolando, immobile e taciturno ormai per abitudine, nascessero sul viso ulteriori rughe d’apprensione.
          Trovare Federico, mentre in lontananza s’udiva il fioco belare d’un gregge impegnato al pascolo, si rivelò un’impresa estremamente rapida e priva d’affanni. Il piccolo, che portava calzoni pesanti che gli sfioravano le ginocchia ed una casacca signorile chiusa sul davanti da grandi bottoni in corozo, stava ripiegato con la schiena adagiata contro la portiera della berlina e teneva l’orecchio premuto sulla parete dell’ultimo scompartimento, in cui Eleonora e Adele dovevano trovarsi nel vivo d’un piacevole colloquio. I suoi occhi si stringevano sovente per il fervido impegno, e spesso, se si prestava attenzione, lo si poteva scorgere mentre si portava una mano alla fronte, nel vano tentativo di scostare un ciuffo di capelli che seguitava caparbio a ostacolargli la vista. All’apparizione della sorella, un inavvertito rossore d’imbarazzo sbocciò sulle sue guance smussate.
          «Dovresti sapere, caro fratello, che origliare conversazioni altrui è l’attività prediletta di chi non sa intrattenerne di proprie» lo ammonì lei bonariamente. E prima che potesse reprimerlo, un sorriso di lieta beatitudine, a cui solo lui pareva avere accesso, le impreziosì i lineamenti del volto opalescente.
          «Davvero?» domandò Federico allarmato, chinando il capo. «E questo chi te l’ha detto?»
          «Io lo dico» fu la risposta. «E proprio in virtù di ciò dovresti attribuirgli ancora più importanza».
        Federico non riuscì a trattenere l’innocuo sentimento d’ilarità che tale sentenza riuscì a suscitare in lui, ma provvide a manifestarlo in maniera sommessa e pacata, in modo da non rendere ancora più malagevole la sua già precaria facoltà di respirazione. Poi si grattò il naso distrattamente e si ricompose.
          «Devo all’agitazione di mamma questo tuo interesse verso i miei passatempi?»
        Dora si meravigliò allora di provare, per qualche assurdo motivo, un senso di profonda umiliazione a causa di quella domanda inattesa; non si trattava d’una pulsione cieca e indomabile che minacciava di divorarla dall’interno, o d’un moto d’offesa in grado di sottometterla ed irretirla, ma piuttosto d’un ovattata sensazione di instabile e fastidiosa screpolatura. L’era parso all’improvviso d’assistere alla demistificazione della messa in scena che si forzava d’interpretare ogni giorno, ed ora si percepiva come un involucro nudo ed esposto che lentamente s’andava svuotando delle frivole costruzioni mentali verso cui s’era dimostrato, col tempo, saturo e insofferente. E poiché per la fanciulla sarebbe stato un peso insostenibile affrontare lo smascheramento della propria apatia e conferire fondamento alla propria natura scostante e insensibile, ella non vide altra soluzione che ricorrere a ciò che sapeva fare meglio.
        «Per quella donna anaffettiva e priva di compassione sia tu che io non siamo degni di considerazione alcuna» finse, ammorbidendo il tono di voce. L’arte della menzogna aveva da sempre trovato in Doralice una più che devota apprendista e, ora che s’era impratichita nell’aggiungere anche una credibile gestualità alle sue fandonie, ella si palesava oramai a suo agio anche nelle più impervie simulazioni. «La ragione per cui mi sono recata da te, che si accompagna ad una sentita curiosità nei riguardi del tuo benestare, è la necessità d’allontanarmi da un luogo infettato dalla sua presenza immane ed agghiacciante».
        Federico proruppe in una sequenza di colpi di tosse rauchi e frammentati, come se l’apprendimento di quella notizia gl’avesse provocato dell’afflizione fisica non indifferente. Dora estrasse dalla manica del proprio soprabito un fazzoletto di seta e glielo offrì da porre davanti alla bocca; nel frattempo, gli cinse le spalle con il braccio illuminato dal sole e s’avvide d’assumere un’aria affranta e consolatoria, smorzando i muscoli facciali quanto occorreva per far trasparire un’emozione che fosse la più genuina possibile.
          «Nostra madre è una nobildonna impegnata» tentò di scusarla lui con una cupa espressione in viso, le gote tremolanti e le spalle curve. «Sono più che certo che abbia validi motivi per trascurare una fanciulla tanto responsabile e sveglia come te».
          «Ma sicuramente non ne ha per ignorare un bambino infermo e relegato a sé stesso come te» replicò Dora con risoluta perseveranza, palesando un’improvvisa mimica adirata. Il gusto assuefacente della manipolazione le pizzicava il palato rendendola avida d’arida supremazia; la neonata attitudine di plasmare la dea Veritas a proprio piacimento assetava il suo animo egemone e vendicatore. La possibilità d’avere il controllo del fratello era ciò che finora più riuscisse a rallegrarla in quella giornata, e l’idea di poterne fare un’arma da usare contro la madre principiava ad ottenebrare qualsiasi altro pensiero per urgenza e significanza.
        «Adesso ti esporrò un mio pensiero, e ho bisogno che tu apprenda con chiarezza ciò che ti dico» continuò con delicato pragmatismo. L’interesse di Federico, come lei aveva previsto, raggiunse il suo culmine. «Noi viviamo in una società in cui i bambini sono tenuti a dimostrare agli adulti un rispetto che non si sono guadagnati».
         «Società?» la interruppe subito il fratello con un’ombra di confusione in viso.
        «Per società si intende un agglomerato di individui che agiscono collettivamente per preservare i propri interessi attraverso un contratto» specificò Dora con impazienza. I ricordi dell’affascinante studio del giusnaturalismo hobbesiano echeggiavano ancora dentro di lei con vivace ostinazione. «Ciò che mi preme che tu comprenda adesso, è che esiste un determinato modello di comportamento insito nella nostra cultura che tutti, dal più raffinato gentiluomo altolocato alla più infima passeggiatrice di strada, si aspettano venga accuratamente seguito e accettato».
        A Federico si illuminò lo sguardo. «Credo che avvenga lo stesso anche per le colonie di formiche, sai?» Egli era infatti solito trascorrere il proprio tempo libero negli sconfinati giardini famigliari, instancabilmente chino sugli antri di qualche quercia, alla ricerca d’una tana inesplorata o d’un recente nido d’erba e rametti intricati. Apprendere il modo di vivere degli insetti era lo studio che maggiormente destava la sua curiosità e sollecitava la sua inesausta immaginazione; poterne parlare con la sorella era dunque fonte di trasporto e di sano orgoglio intellettuale. «Non è insolito, infatti, ch’esse si organizzino in contingenti numerosi per sopravvivere più efficientemente agli inverni. Senza considerare poi il fatto che possiedono un ferreo senso del dovere e della laboriosità». I suoi occhi brillavano euforicamente, mentre esprimeva le conoscenze che aveva appreso tutto da solo. «Formare questa “società”, per loro, è sentito quasi come un obbligo morale».
         Doralice rimase impassibile. «Per quanto sia affascinante scoprire che anche gli insetti possiedono una componente etica, non è questo il punto del mio discorso» ribatté. Federico smorzò lentamente il suo entusiasmo e riprese ad ascoltarla. «Il punto è che, nella mentalità vigente in una società come la nostra, molto spesso si tende a santificare il diavolo, mentre l’angelo viene lasciato a Caronte affinché sia traghettato agli Inferi. Ai genitori è conferita un’attendibilità che ai figli è negata per principio, ed una potestà su di essi che mai si osa contestare. Ma la realtà è che tu, come ogni bambino rispettabile per tale società ipocrita ed ingannevole, manifesti disagio verso una cecità che ti sei procurato da solo, e della quale tu solo sei il responsabile!»
          «Chi è Caronte?» domandò Federico, che faticava a seguirla. Ma stavolta Dora, i cui movimenti si facevano gravi e accentuati, non troncò il suo discorso, che diveniva sempre più infervorato e carico d’astio.
         «La malattia che ti indebolisce le membra pare corrompere anche la tua facoltà di valutazione, caro fratello! Sei abile nel dare per scontate convinzioni personali che non riflettono la veridicità concreta dei fatti. Nostra madre da sempre aborre la tua compagnia più di ogni altra!»
          Per il fanciullo ricevere uno schiaffo in pieno viso sarebbe stato un mellifluo e gratificante conforto rispetto ai turbamenti interiori che tali parole provocarono dentro di lui. Mentre più avanti il cocchiere e il postiglione che trainavano la diligenza pensavano di fermarsi ad una stazione di posta per cambiare i cavalli, Federico Guerra, avviluppato nell’estremità del secondo scompartimento, constatò come per qualche istante la vista gli si fosse annebbiata di colpo, e i suoi arti avessero iniziato a tremare e ricoprirsi di vermiglie macchie bollenti. Il respiro ora irregolare lo costrinse a reggersi fermamente alla sorella, la quale era tuttavia fin troppo interessata ad eseguire efficacemente il suo piano da preoccuparsi per le sue deboli reazioni emotive.
       «Ella infatti è usa a compiangersi quotidianamente per l’onere che il tuo mantenimento comporta, e più volte mi è capitato d’udirla disquisire con la nostra Adele su come sarebbe molto più comodo e privo di sperpero non doversi occupare delle cure costanti che la tua condizione richiede».
      Federico era divenuto pallido quanto il fazzoletto di seta che ancora stringeva fra le mani rigide e vacillanti. Onere. Comodo. Costanti. La gola, secca e povera di salivazione, aveva cominciato a pizzicargli dolorosamente il collo fino alla mandibola, mentre i suoi occhi erano preda d’un’intensa irritazione a causa delle lacrime che si stavano addensando copiosamente ai bordi. Le sue gote avvampavano di sconforto.
      «E non si conclude qui» perseverò Doralice, scandendo attentamente ogni lettera a gran voce. Ti prego, smettila. «Eleonora mi ha confidato, qualche settimana fa, d’essersi particolarmente impensierita quando ha udito nostra madre affermare che senza di te condurremmo tutti un’esistenza molto più agiata e facilitata. Oh, quale miglior prospettiva di vita porterebbe a tutti noi, quali vantaggi mai auspicati! Parlava così, l’ipocrita, e sorrideva al pensiero d’una tale opportunità, e si cullava per molto tempo nelle sue più recondite fantasie, seduta sotto il portico d’una villa che non s’è mai guadagnata, esibendo un titolo verso cui non ha mai potuto vantare merito alcuno!»
       Doralice s’accorse d’essersi espressa con una veemenza fin troppo incauta e credibile, a tal punto da dubitare che gli altri scompartimenti sarebbero rimasti serrati a lungo; ma nessuno accorse. Federico scoppiò in un pianto di singhiozzi e respiri rantolanti. Le sue braccia presero ad agitarsi convulsamente nel tentativo di allontanare da sé una presenza che solo lui aveva la capacità di percepire. La fanciulla l’osservò dimenarsi sul posto, premendo con insistenza sempre più urgente sulla parete dietro di lui, quasi a volerla scardinare e oltrepassare per un’indomabile necessità. Il suo petto vibrava febbrilmente e senza interruzione, e i suoi piedi scalciavano frenetici e contratti dal dolore.
       Ella l’aveva scorto in quello stato poche volte, prima d’allora, e proprio per questo convenne che scomporsi sarebbe stato ancora meno saggio di quanto previsto. Lentamente, palesando un’estrema cautela, s’appropinquò al fratello e gli strinse la mano lattiginosa nella sua. Poi portò le labbra screpolate vicino al suo orecchio tremante e affievolì il tono. Questo era il punto cruciale.
         «Fa male, vero?» La sua voce era un sibilo implorante d’un’anima calcolatrice, ma era l’unico supporto rimasto a Federico per non precipitare nel vuoto della silenziosa disperazione. «L’idea dell’abbandono, della dimenticanza… ti spinge a urlare come se avessi gli occhi perforati dal becco d’un avvoltoio, come se le tue ossa fossero compresse fra loro in una poltiglia sterile e incolore. Ti fa boccheggiare agonizzante con il viso cinereo e la laringe gonfia e pulsante. Ti fa supplicare d’arrestare la sofferenza, lenire quell’angoscia che t’ha intrappolato nella sua gabbia fatta di terrificanti delusioni e grame consapevolezze.»
         Federico allentò lievemente la presa della sua mano, e il suo torace parve rallentare attraverso spasmi sempre meno intensi. Anche il suo fiato tornò ad essere più stabile e meno frammentato.
       Doralice proseguì. «E se ti svelassi che esiste un modo affinché questo tormento abbia fine?» Federico volse gradualmente lo sguardo vitreo e irrigidito verso di lei, i muscoli in tensione. «Se ti promettessi che gli avvoltoi potrebbero cessare di perforarti gli occhi, e le tue deboli membra saprebbero smettere di appesantirsi, colte da irruenti spasmi? Guarda in che condizioni sei ora, in quale stato la perfidia di nostra madre ti ha ridotto mascherando il proprio rancore con viscida gentilezza. Lei non è degna del tuo affetto, e le considerazioni benigne e amorevoli che covi dentro di te non possono trovare in lei una destinataria meritevole. Hai bisogno di una svolta».
        «U-una s-svolta?» ripeté debolmente, sollevandosi lungo l’angolo della diligenza in cui portiera e rotonda si incontravano. La sua fronte era imperlata di sudore fresco, ma i tremori s’erano interrotti. La rinnovata curiosità che la sorella gli stava suscitando parve, in quel frangente, avere la meglio sulle lacrime.
        «Sì, necessiti d’un cambiamento. Devi imparare a riporre la tua fiducia in fonti più attendibili e soddisfacenti, e a non avere alte aspettative in tali persone che sono più note per deluderle e gettarle in frantumi. Devi acquisire la maestria di saper trasformare i tuoi sentimenti in base all’utilizzo che t’è più conveniente. Amore, dolore, collera. Sono soltanto parole vuote che si disperdono nel vento. Ciò che avverti dentro di te è l’unica cosa che conta davvero. E devi saperlo cambiare, modellare, perfezionare. Hai bisogno di sensazioni nuove, che ti permettano di uscire dalla gabbia in cui sei imprigionato. Hai bisogno d’una parola nuova da poter disperdere nel vento».
        Federico assunse un’espressione vacua e stranita, di chi s’approssima a contemplare l’infinita vastità del conoscibile pur sapendo d’essere ancora alle radici del sapere. La crisi che l’aveva colto era ormai solo un ricordo indistinto che si nascondeva nei meandri remoti della sua mente. La sua vorace attenzione confluiva interamente nel discorso che la sorella stava portando avanti, con il canto attutito delle campane in lontananza a conferire una solennità ancora più maestosa. «Quale parola?»
         Dora allora si ritrasse dal volto del fratello e lo squadrò con velata malizia. «Vendetta».
       I cavalli che conducevano la carrozza s’arrestarono istantaneamente, nitrendo in maniera sommessa, come se avessero udito ciò che la fanciulla aveva proferito. Dal terzo scompartimento, alle spalle dei due, fuoriuscirono Adele ed Eleonora con l’aria fresca e riposata di chi ha potuto godere d’un protratto sonno ristoratore. La domestica si rivolse a loro con un tono affabile ma neutro d’alcun sentimentalismo.
         «Siate svelti ed educati» si raccomandò. «Siamo giunti ad una stazione di posta nei pressi di Piacenza e devono essere ferrati dei nuovi cavalli. Se riusciamo ad essere il più lesti possibile, forse raggiungeremo la leggendaria Genova entro sera!»
   
 
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