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Autore: Inyoureyes    12/11/2017    2 recensioni
E anche Bellamy se n'è andato. E a te Clarke, cos'è rimasto?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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The night we met

 
 
I am not the only traveler
who has not repaid his debt
I've been searching for a trail to follow again
take me back to the night we met.



Clarke poggiò i gomiti sulla superficie in pietra del balcone in cui si era rifugiata da qualche ora. Accarezzò il bordo del bicchiere in latta che teneva tra le dita e si soffermò sui lati scheggiati posti alle estremità. Possedeva quel bicchiere da tempo ormai, l’avrebbe quasi definito un cimelio di famiglia se solo non fosse stato privo di valore. Risaliva ai tempi d’oro, ai tempi dell’arca. Avrebbe dovuto gettarlo via, quel bicchiere insignificante che sapeva di spazio e di stelle, se l’era ripetuto centinaia di volte, ed altrettante l’aveva riposto in quella credenza improvvisata che emergeva nel suo salotto. Non che possedesse un’abitazione ampia, ma l’idea che oltre alla sua camera da letto e al suo balcone potesse esserci qualcos’altro l’allettava parecchio. Si sporse poco più avanti, in modo da poter ammirare la vasta radura che le si piazzava davanti e scorse in lontananza le guardie in divisa, pronte a svolgere i loro compiti mattutini, un piccolo sorriso le comparve sulle labbra quando scorse la figura autoritaria del cancelliere. Si era sempre domandata come potesse, Kane, essere un uomo tanto composto quanto affettuoso. L’aveva visto più di una volta rimproverare le guardie per la loro postura o per la loro sfrontatezza, impassibile come mai, ed altrettante l’aveva visto stringere con gioia ed entusiasmo il corpo di sua madre. Due facce della stessa medaglia, si ritrovò a pensare, mentre sorseggiava la sua acqua, raccolta giù al fiume, come era solita fare tutte le mattine al sorgere del sole. Intravide la mano sollevata appena del cancelliere e la ricambiò con un piccolo sorriso. Ne era passato di tempo da quando quell’uomo non era altro che l’emblema della legge, l’aveva visto perdere la sua umanità sull’arca e riacquistarla un po' alla volta, lì sulla terra. Era sempre stato portatore di speranza e di serenità. Che ironia, le venne spontaneo sottolineare, mantenendo il bicchiere tra le labbra. Era piuttosto ironico, contando che lei era portatrice di morte e distruzione. La grande Wanheda. Non appena sentì il vento sferzarle i lunghi capelli biondi, socchiuse le palpebre. Si lasciò andare in balia del fresco vento primaverile, e assaporò con l’udito quella piacevole ed appagante sensazione che si racchiudeva in un semplice nome: Terra.
La terra. Quel pianeta che le aveva dato tutto e allo stesso tempo niente. Quel pianeta che le aveva concesso gioia e dolore tutto in una volta. Quel pianeta che per quanto si ostinasse a voler odiare, amava con tutta se stessa.
Una lacrima fugace le sfuggì da quegli occhi che un tempo le avevano detto avessero lo stesso colore del cielo. Quegli occhi che un tempo erano pieni di vita e di speranze ed ora erano solo due misere pozze d’acqua. E che se fanno gli altri di due pozze d’acqua quando non si hanno che distese d’acqua dolce?
 
***

 
“Il portellone al piano inferiore, andiamo!”
“No! Non possiamo aprirlo così.”
Clarke si sollevò in fretta dal posto in cui era rannicchiata, Finn aveva compiuto un gesto stupido e sfrontato, ma aprire le porte? Quello sarebbe stato anche peggio. La terra non era più abitabile, non era rimasto altro che un involucro senza vita. Sin da quando era una bambina suo padre non le aveva ripetuto altro. Ed ora, d’un tratto, quando la metà della popolazione rischiava di essere decimata per far fronte alla mancanza di ossigeno, la terra, improvvisamente, tornava ad essere un nucleo pulsante e ricco di vita? Non poteva sembrarle una realtà più distante. Non c’era stato alcuno scopo se non quello di sbarazzarsi di quei cento delinquenti, di quel parassita che non faceva altro che sottrargli ossigeno. Si affrettò a raggiugere la scaletta in ferro e con estrema destrezza scese dalll’impalcatura.
“Ehi, state indietro ragazzi.”
“Fermi.”
Clarke si spinse con tutta la forza che aveva in corpo contro la massa di ragazzi che aleggiava dentro quella stanza, alcune ciocche della sua treccia bionda le caddero più volte dinnanzi al viso, ma non si curò minimamente di cacciarle indietro, uscire sarebbe equivalso a morire, e lei voleva vivere.
 Eccome, se lo voleva.
 
“L’aria può essere tossica.”
“Se l’aria è tossica siamo morti comunque.”
L’aria di chi è convinto di ciò che sta facendo gli aleggia sul viso, i capelli sono dietro al capo, i ricci sono domati e al loro posto, sul suo volto non si intravede il minimo dubbio, è certo di ciò che sta facendo, infonde una sicurezza tale a cui nessuno rischia di far fronte, perché è maledettamente sicuro e a quei tempi non lo sapeva ancora, ma ora ne è certa. Non c’è riparo da quella sicurezza, ti si avvinghia nel cuore e una volta entrata puoi fare di tutto tranne che liberartene.

and then I can tell myself
what the hell I'm supposed to do
and then I can tell myself
not to ride along with you.



***

 
 
Clarke osservò la ragazza o meglio, donna, in mezzo alla piazza dell’accampamento, sulla mano destra teneva una spada ben affilata, la postura era ben eretta e le sue forme erano coperte da dei vestiti in pelle, ai piedi portava due stivali dalle suole consumate. Dei ragazzi le erano di fronte in fila, ognuno in attesa di sferzare il primo colpo, ciascuno teneva il mento sollevato. Avevano ricevuto un’educazione rigida, probabilmente erano mesi che si preparavano per diventare i giovani guerrieri che ambivano da tutta la vita di essere. E la loro unica possibilità era quella di affrontare la giovane donna che gli era di fronte. Quel comandante, che di norma, non doveva mostrarsi così apertamente al pubblico, ma a cui veniva fatta qualche eccezione, sebbene a suo dire quello non fosse il suo clan di appartenenza, Clarke era certa che le sue visite così frequenti non fossero dovute unicamente a scopi politici, come era solita affermare, ma che in realtà avessero scopi puramente personali. La bionda sorrise nel vedere Octavia sferzare il primo colpo e in pochi secondi scaraventare la giovane guerriera sul terreno bagnato, la sentì rimproverarla per quel comportamento impulsivo dettato dal cuore e non dalla mente, e una stretta le cinse il cuore. Magari aveva solo bisogno di qualcuno che la compensasse, di qualcuno che colmasse quell’impulsività, forse non l’aveva ancora trovato. Era consapevole che quel giorno Octavia fosse giunta al campo per motivi tutt’altro che politici. Ma non disse nulla, sarebbe passata nel pomeriggio. Lo faceva da due anni ormai. Erano diventate amiche, quelle due, se solo qualcuno gliel’avesse detto ai tempi di Mount Weather non ci avrebbe mai scommesso, eppure, dieci anni dopo, era accaduto.
Rimase a contemplare quella massa di capelli corvini. Quei maledetti capelli corvini. E la stretta in petto le divenne d’un tratto opprimente. Quel balcone non le era mai sembrato tanto piccolo e insignificante.
 
Dovresti tagliarli, ti coprono gli occhi.” Gli mormorò la bionda, poggiando il palmo della mano sulla sua stessa guancia. Un gesto compiuto appositamente per osservarlo più attentamente, più da vicino. Da quella distanza tanto ravvicinata, con i primi bagliori del mattino che entravano copiosi dalla finestra, poté osservare quei piccoli dettagli che da sempre aveva dato per scontato. Accarezzò con lo sguardo le piccole lentiggini che gli contornavano la pelle del naso, le lunghe ciglia scure che gli delineavano gli occhi, ed infine, quando finalmente lo vide sollevare le palpebre, quelle iridi color ossidiana, che col tempo aveva imparato ad amare tanto.
“Clarke, saranno le quattro del mattino. Torna a dormire.” Il ragazzo abbandonò la posizione in cui si era precedentemente steso, si voltò verso di lei ed aprì leggermente le palpebre, così da poter mettere a fuoco la bionda distesa al suo fianco. Allungò un braccio e Clarke si trovò in balia della sua calda stretta, con il viso a pochi centimetri dal suo.
“Magari potresti farli corti.” Un sorriso le comparve sul viso nel pronunciare quelle parole. Sollevò lo sguardo ed attese che le sue iridi azzurre si scontrassero ancora una volta con quelle più scure di lui. Quando non ebbe alcuna risposta, tentò ancora una volta. “Sai, con quest’aria da terrestre sei..” Clarke non ebbe il tempo di concludere la frase che si ritrovò stretta, sotto al corpo di Bellamy, le sue labbra premute contro quelle di lei, in un bacio, che sapeva di attesa, di speranza, ma soprattutto d’amore. Sollevò appena la mano e con le dita affusolate accarezzò quella massa di ricci scuri che contrariamente a quanto affermasse, per niente al mondo avrebbe cambiato.
 


 
***


 
Due anni.
Erano già passati due anni.
 
Una lacrima calda le rigò ancora una volta la guancia, sollevò il bicchiere e lo scaraventò contro il pavimento. Non si era ancora rotto, quel dannato bicchiere di latta. Si guardò intorno e si sentì sollevata nel constatare che nessuno si fosse accorto di quel suo breve sfogo. Era grata che fosse ancora mattina presto e che fosse una delle poche ad essere già in piedi. Soprattutto sentì il petto alleggerirsi nel vedere Octavia ancora intenta ad addestrare quei ragazzi. Non voleva che la vedesse, non voleva che l’abbracciasse.
I ricordi erano dolorosi da quando ne avesse memoria. Sull’arca il ricordo era complementare alla morte. Ricordare era importante, era necessario affinché la razza umana continuasse. Era importante che i superstiti nati nello spazio ricordassero chi aveva dato la vita affinché loro potessero vivere in futuro. Ma quella era una realtà distante, voleva che le cose fossero diverse. E poi, forse, un giorno, magari neanche troppo lontano, se solo avesse permesso a quei ricordi di venire a galla un po' più spesso, sarebbe stata in grado di attutire un po' il dolore, a far sì che la facessero sorridere piuttosto che piangere.
Forse non avrebbe più odiato quel giorno che separava l’inverno dalla primavera, forse non avrebbe più evitato di passare per il sentiero che divideva la radura dalla navicella, forse non si sarebbe più fermata ad osservare i fucili dell’armeria, e forse, solo allora sarebbe tornata ad utilizzarne uno.
 
I had all and then most of you, some and now none of you
take me back to the night we met
I don't know what I'm supposed to do, haunted by the ghost of you
oh take me back to the night we met



 
***

 
Clarke delineò con la matita appuntita i contorni delle sue lunghe dita. Le era sempre sembrata la parte più difficile, disegnare le mani. E quelle di Bellamy non facevano eccezione alcuna. Erano ore ormai che sistemava quel ritratto creato inizialmente per caso. Aveva cominciato con gli occhi, il naso ed infine le labbra, il resto del corpo era venuto da sé, le sue dita abili avevano dato vita ad un progetto che si era imposta di portare a termine. Bellamy era il soggetto perfetto, non l’aveva visto muoversi se non qualche volta, e i suoi lineamenti le erano sembrati sorprendentemente semplici da rappresentare.
“Sono felice che ti siano piaciuti.” La voce profonda di Bellamy la risveglio da quello stato di trans in cui si era rifugiata, lo vide sollevarsi lentamente da quel letto improvvisato che avevano creato nel nuovo accampamento ideato da sua madre e dal cancelliere Kane e sedersi. Le sembrava ancora tutto così surreale. Erano passati sei anni da quando non si erano più rivolti parola. Sei anni da quando l’aveva creduta morta a causa del praimfaya. Sei anni da quando erano stati divisi dalla terra e dallo spazio. Ed ora, erano lì, insieme. Non c’erano distanze, interferenze o popoli che si sovrapponessero tra di loro. Solo loro due, il blocco da disegno e la matita che le aveva portato dall’arca con la speranza che fosse viva, da qualche parte in quella massa desolata.
“Grazie ancora, Bellamy.” Clarke poggiò il blocco da disegno sul mobiletto posto di fianco ed allungò di poco il braccio, quel tanto che bastava per eliminare la distanza e stringergli la mano, intrecciarono le dita tra di loro come era accaduto nella sala del trono a Polis, quando il rischio che lei morisse era alto, ma doveva essere ugualmente fatto, perché ALIE doveva essere sconfitta e ne valeva della loro sopravvivenza. Le sembrava ancora di vivere un sogno e che lui potesse scivolarle via da un momento all’altro. Rimasero in silenzio per diversi minuti, un silenzio senza imbarazzi, un silenzio necessario ad entrambi.
“Ti ho lasciata qui a morire.” Affermò Bellamy d’un tratto. Una lacrima gli scese copiosa lungo la guancia. Non era la prima volta che lo vedeva aprire il suo cuore e confessargli i suoi timori più grandi, perciò non gli fu difficile formulare ciò che avesse da dirgli, decise ugualmente di rimanere in silenzio e di lasciare che si sfogasse. Perché Bellamy era fatto così, sopportava sempre, fin quando il peso del suo cuore non era così opprimente da farlo esplodere. Lo vide distogliere lo sguardo e deglutire appena, il cuore le batté forte in petto al pensiero che si sentisse in colpa per ciò che aveva fatto. “Pensavo fossi morta. Per tutti questi anni non ho fatto altro che pensare che se avessi aspettato qualche minuto forse..”
“Bellamy, no.” La bionda strinse le sue dita con forza. Con la speranza che quella stretta potesse rafforzare ciò che premeva di dirgli. Scosse la testa appena e gli sorrise con dolcezza, attese di parlare fin quando non lo vide distogliere lo sguardo e posarlo ancora una volta sul suo. Quando ciò avvenne le sue iridi azzurre si contrastarono perfettamente in quelle ossidiana, di lui. E non poté evitare di pensare a quanto gli fossero mancate. “Non devi incolparti, hai fatto ciò che ti avevo chiesto. Hai usato la testa e questo ti ha permesso di occuparti di loro, lassù. Sapevo che ce l’avrebbero fatta, perché avevano te. Se avessi aspettato sareste morti, hai fatto ciò che andava fatto.”  Pronunciò quelle parole con le lacrime che minacciavano di uscirle, il ragazzo sembrò accorgersene perché si sollevò dal letto in cui era seduto e la raggiunse, in pochi secondi si trovarono stretti l’un con l’altro, con le spalle di entrambi bagnate appena, e i volti intrisi delle loro sofferenze. Non si sarebbero più divisi questa volta. Non gliel’avrebbe più permesso, lui.
Non più.

when the night was full of terror
and your eyes were filled with tears
when you had not touched me yet
oh take me back to the night we met




 
***

 
 
Clarke si sollevò dal letto in cui si era stesa poche ore prima e abbandonò lo spazio in cui era solita dormire ormai da due anni a quella parte. Era rimasta a fissare il soffitto fin quando non aveva sentito gli operai di quella che era divenuta la nuova Arkadia da quasi quattro anni, mettersi a lavoro.
Avrebbe dovuto rendersi utile anche lei, pensò mentre accarezzava con le dita la coperta che in passato aveva coperto due corpi piuttosto che uno. Avrebbe dovuto aiutare sua madre in infermeria, perché quando si vive in una radura i feriti sono sempre presenti. Ma non ne aveva le forze, sperava che Raven non venisse a trovarla, non era dell’umore adatto, per fingere che quella fosse una giornata come tutte le altre. Perciò fece ciò che ogni anno le veniva un po' più semplice, infilò gli stivali in pelle e afferrò il pezzo di carta ripiegato sul mobiletto, dei fiori che aveva raccolto qualche ora prima e la torcia nel caso in cui ne avesse avuto bisogno, quest’ultimi li mise in uno zainetto strappato.
Quando uscì fuori dalla sua abitazione si sentì gli occhi puntati contro. Odiava quegli sguardi. Odiava che fossero in pena per lei. Chiunque nel campo aveva perso qualcuno, eppure sembrava ci fosse un estremo riguardo per la povera ragazza che era rimasta per sei anni rinchiusa in un laboratorio sotterraneo. Lontana dal mondo, lontana dalla civiltà. Ignorò quelle premure silenziose e si avviò verso il bosco, non si sorprese quando nessuno la trattenne, erano consapevoli di ciò che stesse andando a fare, perciò fu grata che il suo stato di anima in pena gli permettesse almeno quello. Avanzò nei boschi a passo svelto e con lo sguardo ammirò quei pini e quegli abeti che nonostante avesse visto centinaia di volte, la lasciavano senza fiato ogni qual volta li vedesse. Quando varcò gli ultimi cedri che la separavano dal percorso che la portava direttamente alla navicella si fermò, titubante. Non voleva addentrarsi in quel percorso, non voleva che rivivesse di nuovo quegli attimi. Non si era diretta in quella zona del bosco da quando era avvenuto l’incidente, e non aveva la minima intenzione di addentrarsi, avrebbe percorso il tratto più lungo, come era solita fare. Le sue paure avrebbero preso il sopravvento e si sarebbe comportata per l’ennesima volta come la codarda che era. Quando si avviò per percorre quel tratto che per lei equivaleva alla salvezza si bloccò. I piedi rimasero fermi, impiantati lì nel terreno.
 
Principessa coraggiosa.
 
Un groppo le si formò in gola nel sentire la voce di Bellamy echeggiare nella sua mente. Il cuore cominciò a martellarle in petto nel ricordare le circostanze in cui aveva pronunciato quelle parole. I capelli ribelli e il viso sfrontato di quel ragazzo di soli ventidue anni le comparvero di fronte e Clarke poté percepire il dolore farsi strada sui suoi nervi saldi. I piedi le si mossero automatici, senza controllo, senza rendersene conto cambiò direzione e percorse quel tratto di strada che si era imposta meticolosamente di evitare. Con le dita toccò le cortecce degli arbusti e ispirò la dolce fragranza dei pini. Pochi istanti e si ritrovò al termine del sentiero, in lontananza poteva intravedere la navicella da cui erano sbarcati dieci anni prima. Il tempo sembrò fermarsi quando riconobbe l’albero storto con i rami spezzati. Si avvicinò lentamente, con le gambe che le tremavano e le lacrime che uscivano senza sosta dai suoi occhi. Con le dita affusolate accarezzò quei lati dell’albero in cui era ormai cresciuto del muschio, si appoggiò alla corteccia senza curarsi che le guance potessero graffiarsi e premette le palpebre le une con le altre, fin quando non sentì gli occhi farle male per lo sforzo. Si accasciò contro quell’albero senza ripensamenti, e le sembrò di vederlo ancora una volta. Le sembrò di vedere sé stessa correre in direzione di quell’albero che ora disprezzava così tanto, ansante a causa dello sforzo a cui aveva sottoposto il suo corpo a causa della corsa. Perché aveva corso il più possibile quando Monty l’aveva avvisata. Aveva corso più di quanto credesse di poter fare.
Aveva corso verso la morte, verso la sua.
 
Percorse il tratto che la separava dal bosco con tutta la forza che aveva in corpo, sentiva le gambe minacciare di cederle ma non le importava. Doveva raggiungerli prima che la ferita peggiorasse. Con sé aveva tutto ciò di cui aveva bisogno, aveva recuperato alla svelta un kit medico da sua madre e sperava che al suo interno ci fosse tutto ciò di cui potesse aver bisogno.
Svoltò al lato, superando un’enorme tronco riverso a terra e accelerò ulteriormente il passo. Non le era mai sembrato tanto distante quel tratto di bosco come lo era in quel momento. Sentiva l’adrenalina premere sul suo corpo e le labbra secche a causa della corsa. Vide la navicella e sentì delle grida echeggiare in lontananza, erano quelle di Octavia. All’improvviso l’assalì un’insolita preoccupazione. Quando vide tutti i suoi amici intorno a una figura stesa a terra, poggiata su un tronco un forte senso di nausea l’assalì. Vide i suoi amici voltarsi a guardarla, e il volto affranto di Raven la mise in agitazione.
Avanzò di qualche passo, col terrore che i suoi timori più grandi si fossero realizzati e li vide allontanarsi di poco da quella figura sofferente, quel tanto che bastava per permettergli di mettere a fuoco il soggetto in questione. Le lacrime minacciarono di uscirle, si sentì paralizzata nel vederlo rivalso a terra, con la maglia intrisa di sangue all’altezza del petto. Si chinò a terra, alla sua altezza e si impegnò a mantenere quella professionalità necessaria affinché un medico potesse svolgere il suo compito.
 
“Bellamy, stammi a sentire. Andrà tutto bene.” Clarke sorrise appena, per quanto il dolore glielo permettesse. Gli accarezzò lentamente la guancia ed aprì il kit medico che aveva portato con sé, in cerca di qualcosa che potesse estrarre il proiettile, senza che l’emorragia lo uccidesse. Cercò accuratamente nel kit e non trovò nulla se non un paio di garze e del disinfettante. Del disinfettane e delle garze? Che razza di medico poteva creare un kit del genere? La mente cominciò a elaborare velocemente informazioni. “Murphy veloce vai da mia madre e dille che c’è un ferito da arma da fuoco. Muoviti. Ora.” La ragazza lo vide rimanere fermo sul posto, un gesto che la fece infuriare ulteriormente. “Murphy, sbrigati.”  Le lacrime cominciarono a uscirle nel vedere il volto pallido di Bellamy e il sangue grondargli dal petto. “Monty, corri al campo. Ora.”
Quando li vide rimanere fermi, si allontanò con rabbia dal corpo di Bellamy, li osservò stizzita e si voltò in fretta per avviarsi verso il campo.
 
Come potevano rimanere fermi mentre si stava letteralmente dissanguando?
 
 “Bene, andrò io.” Si sollevò, ma una stretta intorno al polso la trattenne, fu costretta a voltarsi per gridare contro l’irresponsabile che l’aveva bloccata ma quando si rese conto di chi in realtà fosse si sentì il mondo crollarle addosso.
“Clarke, non ho più molto tempo e c’è qualcosa che devo dirti.” Il ragazzo pronunciò quelle frasi a fatica, strinse il polso di Clarke e lanciò un’occhiata a Octavia, questi la ricambiò e annuì lentamente. Dovevano essersi già detti addio in precedenza perché la ragazza non aveva smesso di piangere neanche un secondo. Spostò il capo di Bellamy e lo poggiò sulle gambe di lei, dopodiché si alzò da terra e si addentrò nella foresta, senza voltarsi. Si stava comportando come la guerriera che era.
Pochi secondi e si trovò sola con lui.
“Tu non morirai, mi hai sentita?” Domandò la bionda, premendo la fronte sulla sua. Pronunciò quelle parole con titubanza. Perché la verità era che non ne era più certa. Non era in grado di diagnosticare a che punto fossero le sue condizioni, tantomeno quanto gli mancasse, e quel pensiero la fece tremare, il corpo colto dagli spasmi e il viso arrosato dovuto alle lacrime evidenziarono ancor di più quei suoi timori. Non poteva guardarlo morire di fronte ai suoi occhi. Era accaduto con Finn ed anche con Lexa, aveva imparato ad amare ed ancora una volta le veniva portato via.. “Resta con me, ti prego Bellamy. Ho bisogno di te.” “Guardami.” Le ordinò il ragazzo, accarezzandole la guancia con la mano libera, mentre con l’altra si preoccupò di accarezzarle le nocche tremanti. “Andrà tutto bene.” Lo vide spostarsi e tossire sangue dopodiché raccolse tutte le forze rimaste e si avvicinò affinché lei potesse sentirlo. “Forse avrei dovuto lasciare il posto a Murphy questa mattina, se lo meritava più di me, quello stronzo.” Clarke rise, in una di quelle risate amare, che di divertente non hanno nulla, una risata che traspare amore e rimpianto. Rimpianto perché hanno vissuto troppo poco insieme. Amore perché lei non ha più dubbi riguardo a ciò che prova. “Risparmia il fiato.” “No, questa volta non interromperai quello che devo da dirti. Voglio che mi ascolti attentamente perché non me lo perdonerei se tu non lo sentissi.” Sollevò le dita, e le spostò una ciocca bionda dal viso, le sembrò di essere tornata indietro nel tempo, a quando l’aveva rassicurata prima che si separassero definitivamente per sei lunghi anni. “Nello spazio non ho trascorso un solo giorno senza sperare che tu fossi viva. E quando ti ho rivista, non mi è importato che avessi fatto la cosa giusta, che avessi agito per tutto il tempo con la testa, come mi avevi detto, perché l’unica cosa a cui ho pensato è stata di averti ritrovata. Non voglio essere un leader se ciò equivale al perderti. E non importa quanto tempo abbiamo trascorso insieme, sappi che mi basta. E non voglio che tu viva di rimpianti, te l’ho chiesto io di non tornare al campo, perciò non pensare neanche una volta che questo sia stato colpa tua. E ti prego, occupati di Octavia. So che è tosta, che sa cavarsela, ma lo sai..” Clarke non disse nulla, abbassò il viso e premette le labbra sulle sue, lo sentì ricambiare con quella poca forza che gli era rimasta. Sentì le ciglia bagnarsi e realizzò che anche Bellamy piangeva, questa volta. “E so di non averlo detto spesso, ma ti amo Clarke. E mi hai reso più felice di quanto potesse essere possibile. Non dimenticarlo.” Bellamy sentì le palpebre farsi improvvisamente più pesanti. Era stanco, ma non voleva lasciarla andare. Clarke sembrò accorgersene perché lo scosse appena e lo strinse forte al petto. “Bellamy, non chiudere gli occhi, resta con me.” Il ragazzo sentì la voce di Clarke farsi sempre più ovattata, più distante, come se appartenesse a una realtà distante con cui fosse sempre più difficile mettersi in contatto. “Dillo un’ultima volta, per favore, ho bisogno di sentirtelo dire..” Fu in quel momento che Clarke si rese conto che era questione di attimi e che se ne sarebbe andato via da un momento all’altro, gli spostò i ricci neri dal viso e incastrò le iridi con le sue, in un contrasto che non poteva rivelarsi migliore combinazione. Bellamy sembrò pensare lo stesso perché lo vide sorridere appena. “Ti amo, Bellamy. E ti amerò per sempre.” Lo vide chiudere le palpebre e respirare a fatica, le mani erano sporche di sangue ma non se ne curò, continuò ad agitare il corpo di Bellamy e a gridare il suo nome.
Accadde qualche minuto dopo, vide all’improvviso il suo petto smettere di alzarsi e non percepì più il suo respiro caldo sul viso, e allora, solo allora gridò con tutta la forza che le era rimasta in corpo.
 
 I had all and then most of you, some and now none of you
take me back to the night we met
I don't know what I'm supposed to do haunted by the ghost of you
take me back to the night we met.



 
***


 
Sentì il suono di un ramo spezzato e scosse di poco la testa, con il capo finì contro una superficie solida e compatta. Aprì lentamente le palpebre e mise a fuoco l’ambiente circostante. Era pomeriggio inoltrato, doveva aver dormito per quasi tutto il giorno. Sarebbe dovuta tornare al campo prima che facesse buio, altrimenti sua madre avrebbe inviato una squadra di ricerca, ne era certa. Un brivido di terrore le percorse la colonna vertebrale, e fu sollevata quando percepì la superficie ruvida del foglio contro le sue dita.
Si rimise in cammino, e dopo una decina di minuti si fermò di fronte ad un cumulo di terra su cui erano poggiati dei fiori ormai appassiti. Doveva averli messi Octavia. Mise a terra lo zaino che portava sulle spalle e lo aprì, tirando fuori un mazzo di margherite, era tutto ciò che aveva trovato nei dintorni. Non sapeva se a Bellamy piacessero, non aveva mai avuto occasione di chiederglielo. Sostituì il mazzetto appassito e fissò attentamente il terreno ai suoi piedi.
“L’ho vista oggi, saresti fiero di ciò che è diventata, insegnava a quei ragazzini ad usare la lancia. È una guerriera, ma tu lo hai sempre saputo.” Clarke pronunciò quelle ultime parole a voce bassa, si rannicchiò e strinse le gambe fredde al petto. Le veniva naturale parlare di Octavia, e sebbene non sapesse se lui potesse sentirla, le piaceva raccontare cosa stesse accadendo, di come la giovane fosse in grado di regnare con saggezza, nonostante la sua giovane età. Distolse lo sguardo e una lunga ciocca bionda le cadde sul viso, deglutì appena al pensiero che lui non potesse più scostargliela dietro all’orecchio, ma preferì non menzionare quel dettaglio e concentrarsi su qualcos’altro. “So che è venuta per te. A proposito ha conosciuto un ragazzo, si chiama Lucas. E risparmiati la gelosia, sembra un tipo apposto, anche se tu l’avresti sicuramente trattato come un malvivente. Ci sta provando, anche se Lincoln le manca molto.” La bionda si morse il labbro nel fare quella constatazione, dopodiché decise di proseguire. I convenevoli erano sempre la parte più semplice. Era ciò che veniva dopo che la terrorizzava. “Tu le manchi molto.” Fece una breve pausa e si umettò le labbra, nel mentre tentò di fermare le lacrime che minacciavano di uscirle. Era così stanca di piangere, di sentirsi inutile. Non l’avrebbe mai superata, le venne infine da pensare, posando lo sguardo sul cumulo di terra ai suoi pedi. Come avrebbe potuto? Non poteva, ma soprattutto non voleva.
“Quasi dimenticavo “Ho paura di dimenticarmi il tuo viso, col tempo diventa sempre più sfocato, ma ho fatto del mio meglio.” Mise il ritratto sotto al mazzetto di margherite fresche e sorrise. “Sono riuscita a tornare, è stata dura. Ma alla fine ce l’ho fatta.” Quelle parole erano di circostanza, sapeva cosa dovesse fare. Continuare la sua vita e lasciarsi tutto alle spalle, ma come avrebbe potuto? Doveva evitare di parlargli come se fosse ancora lì, al suo fianco. Bellamy se n’era andato, era morto.
 Deglutì e prese coraggio, con la voce tremante e gli occhi lucidi tentò di tradurre a parole ciò che provava in quel momento. “Ogni anno vengo qui, lascio un ritratto e racconto di ciò che mi sta accadendo come se tu fossi ancora al mio fianco, con la speranza che tu possa sentirmi e mi sento una stupida quando sento un ramo spezzato alle mie spalle, perché mi illudo che tu possa tornare da me, ma la verità è che non è così. Sei morto tra le mie braccia due anni fa. Bellamy, tu sei morto.


 
***

 
Clarke sentì le sirene del campo azionarsi e smise di parlare con Raven. Si voltò verso i cancelli quando sentì una voce in lontananza ordinarne l’apertura. Qualcuno era tornato. 
Intravide una figura maschile, e con più attenzione, notò alcuni particolari che la fecero sussultare. Riconobbe immediatamente quella massa di capelli ricci e scuri. E non le fu difficile riconoscerlo, sebbene avesse il volto coperto da tagli e sangue pesto l’avrebbe riconosciuto ovunque. Raven la guardò, le sorrise, conscia che non vedesse l’ora di raggiungerlo e la rassicurò annunciandole semplicemente che li avrebbe raggiunti in seguito.
Le gambe si smossero, tremanti, Clarke cominciò a correre e in pochi istanti lo raggiunse. Si ritrovò a stringere il corpo di Bellamy senza che potesse rendersene conto. Non erano mai stati così vicini, e non le importava cosa potesse pensare, se reputasse quel gesto sfrontato o meno.
Era felice di rivederlo. Era felice che fosse vivo.
Lo sentì esitare contro il suo corpo, doveva averlo colto alla sprovvista. Era evidente. Nonostante ciò non si ritrasse, continuò a stringere quel corpo che le aveva acceso una tale speranza nel cuore. E poco dopo, si sentì ricambiare, si sentì avvolta nella sua calda stretta.
Rimasero così per istanti che a lei parvero infiniti, entrambi ansiosi di guardarsi negli occhi dopodiché la bionda si distaccò quel tanto che bastava per incrociare le sue iridi.
 
“Clarke? Clarke, mi senti?” La chiamò Bellamy senza distaccare lo sguardo dal suo. Clarke rimase interdetta per qualche secondo.
 
Clarke distolse lo sguardo dal cumulo di terra ai suoi piedi e si voltò. Riconobbe immediatamente le iridi cristalline di Octavia e il suo sguardo preoccupato. Scosse di poco la testa e capì di essersi lasciata andare ai ricordi ancora una volta. “Cosa ci fai qui?” Le domandò la bionda. Era insolito che Octavia si rifugiasse nel bosco senza che qualche terrestre la scortasse. La giovane corrugò di poco la fronte e poggiò una mano sul manico della spada che teneva sul fianco destro. Era un’abitudine che compiva spesso ultimamente. Tipico di un comandante. “Tua madre era preoccupata e sapevo dove trovarti. Dovremmo tornare al campo, sta facendo buio.” Proseguì la ragazza nel vedere la bionda rimanere in silenzio, immersa tra i suoi pensieri. “Non posso, non ancora.” Octavia annuì, si allontanò quel tanto che bastava per lasciarla sola e la osservò per controllare che non ci fosse nessuno a disturbarla.
 “L’incontro con Kane è solo una scusa. Non sa mentire, è venuta qui solo per te e lo sappiamo entrambi.” Accennò un sorriso a quel pensiero, conscia che se lui fosse stato al suo fianco, non avrebbe potuto darle torto. Erano uguali quei due. Entrambi evitavano di esporre i propri sentimenti, e poi, alla fine, venivano schiacciati da questi. Osservò con malinconia il terreno ai suoi piedi ed una stretta le avvolse il cuore, tentò di cambiare argomento, per evitare che il dolore la tormentasse anche in quel momento. Certa che Bellamy non avrebbe mai voluto vederla piangere a causa sua. “Quasi dimenticavo..” Clarke aprì il piccolo foglio che teneva tra le dita, e nel farlo, rivelò il ritratto di quel volto che la tormentava tanto. Accarezzò i lineamenti di quel volto che si era trovata a rappresentare in una serata d’inverno, e dopodiché mise il disegno sotto al mazzetto di fiori freschi. Rimase in silenzio per qualche istante, fin quando non avvertì il bisogno di liberarsi di quel peso che le opprimeva il petto. “Mi manchi così tanto, Bellamy.” Il bagliore della luna che pian piano cominciava a intravedersi evidenziò i suoi occhi lucidi e fu grata che Octavia fosse lontana, non che non avesse pianto in sua presenza, ma voleva che quel momento fosse riservato a se stessa. Solo lei e il suo dolore. “Ti ricordi di quella volta a Mount Weather in cui me ne sono andata?” Clarke sorrise e quasi poté trovarselo lì davanti con quel sorriso che la diceva lunga e le braccia incrociate. Avrebbe dato qualunque cosa pur di rivederlo un’ultima volta. “Ho pensato centinaia di volte a come sarebbe potuta andare se solo fossi rimasta, se solo non ti avessi lasciato.” Abbassò lo sguardo e i lunghi capelli biondi le caddero sul viso, ma non si curò di cacciarli indietro, anzi proseguì con ciò che voleva da dirgli. “So di averti ferito centinaia di volte, ma voglio che tu sappia che tu non l’hai mai fatto. Non mi hai mai deluso.” Una lacrima le scese lungo la guancia e questa volta se l’asciugò con le dita. “Neanche una volta.” Si morse le labbra e lasciò che le lacrime le solcassero le guance.


 
Mamma?”


 
Chiuse lentamente gli occhi e una fitta le colpì il petto, poi tirò un sospiro e si sollevò da terra. Se fosse stato per lei sarebbe rimasta lì per tutta la notte, ma Octavia aveva ragione, era l’ora di andare.
“Grazie per non esserti arreso con me.”
 
Raccolse lo zaino da terra e si voltò. Un sorriso le si formò in volto quando vide una piccola figura correrle incontro. Quando sentì il suo peso su di se, avvolse le braccia intorno al suo busto e se la strinse al petto. I lunghi capelli neri della bambina le finirono in viso ma non se ne curò. In fin dei conti le piaceva quella sensazione. Le portava alla mente ricordi lontani, abbracci che sapevano di fiducia, d’amore, rispetto.
 
“Clarke, mi dispiace. Mi ha seguita senza che potessi rendermene conto.” La figura di Octavia comparve qualche secondo dopo. Era composta, inespressiva, come la prima volta che l’aveva vista quel pomeriggio. Degna di un vero comandante. Se solo non l’avesse conosciuta, avrebbe pensato che quel posto non significava nulla per lei. Ma non era così, la conosceva. E sapeva quanto in realtà ricordare le facesse male. Clarke scosse la testa, strinse più forte la bambina e cominciò a camminare lungo il sentiero che le avrebbe riportate al campo. “Che ne dici se andiamo a trovare la zia Raven? E’ troppo tardi o ti unisci a noi Octavia?”
 
 La bambina si allontanò di poco e le sorrise e Clarke poté osservare il riflesso della luna nei i suoi occhi scuri come l’ossidiana. Octavia sembrò soffermarsi su quella domanda per qualche secondo. Dapprima non le guardò, mantenne lo sguardo perso oltre gli abeti, poi come se si fosse realmente resa conto di ciò che le era stato chiesto annuì.
 
Clarke percorse l’ultimo tratto che le permetteva di intravedere la tomba di Bellamy, poi lanciò uno sguardo alla bambina poggiata sulla sua spalla e alla giovane donna al suo fianco e un sorriso le comparve sulle labbra senza che potesse rendersene conto. Le parve quasi che se lo fosse immaginato, ma si rese ben presto conto che era accaduto. Pochi secondi e uno sguardo attento. Se solo non fosse stata attenta non se ne sarebbe mai resa conto, ma era successo. Octavia aveva mimato con le labbra “May we meet again.”
 
Lui se n’era andato. L’aveva visto esalare il suo ultimo respiro, guardarla per l’ultima volta.
Forse un giorno l’avrebbe rivisto, forse avrebbe potuto raccontargli cosa fosse accaduto durante la sua assenza. Stringerlo di nuovo come era accaduto quel lontano pomeriggio di tanti anni prima, quando l’aveva stretto dopo averlo creduto perso nello spazio.
Ma fino ad allora non sarebbe stata sola.
Non lo sarebbe mai stata.
 
 
I had all and then most of you, some and now none of you
Take me back to the night we met
I don't know what I'm supposed to do, haunted by the ghost of you
Take me back to the night we met
   
 
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